Get Adobe Flash player

La fase introduttiva del giudizio e la costituzione delle parti.
Chiarimenti richiesti e indicazione delle questioni rilevabili d’ufficio, dopo la novella dell’art. 101 c.p.c.

Pubblichiamo l'intervento del dott. Lucio Munaro, che costituisce il testo scritto della relazione svolta nel corso della Prima settimana di studio in materia civile, per i magistrati ordinari in tirocinio, nominati con d.m. 5.8.2010, in Roma dal 21 al 25 febbraio 2011. L'intervento si segnala non solo per la completezza e l'intensità degli approfondimenti, sicuramente efficaci ed utili per gli operatori, ma in particolare per il ruolo attribuito al giudice per il "governo del processo", con le conseguenti ricadute sulle prassi di lavoro e gestione dei procedimenti.

S O M M A R I O

1. La domanda giudiziale come atto da interpretare.

2. Istanze cautelari e anticipatorie inserite nella citazione introduttiva.

3. Il rinvio “preventivo” della prima udienza.

4. Il controllo del giudice sulle allegazioni di fatto.

5. Il giudice che “governa il processo”.

6. Il giudice dialogante.

7. Nullità della domanda con riguardo alla editio actionis: alcune precisazioni.

8. La rinnovazione nulla della citazione.

9. Le domande riconvenzionali improprie: il rischio dell’inutile vocatio in ius.

10. Chiamata in causa del terzo e discrezionalità del giudice.

11. L’estensione automatica al terzo della domanda attorea.

12. La concessione dei termini ex art. 183, 6° comma, c.p.c.

13. La scelta di fissare udienza dopo la concessione dei termini ex art. 183, 6° comma: le (vantaggiose) ricadute organizzative.

14. Il divieto di decisioni c.d. “a sorpresa”.

14.1. Le questioni rilevabili d’ufficio alla luce del nuovo art. 101, 2° comma, c.p.c.

14.2. La dinamica processuale e gli effetti della rilevazione delle questioni.

14.3. Violazione del divieto di decisioni c.d. “della terza via”: nullità “inoffensive” e profili disciplinari.


1. La domanda giudiziale come atto da interpretare.

 

Talvolta l’atto di citazione non è molto chiaro e puntuale, magari perché non vi è una netta distinzione tra la parte inerente alle allegazioni di fatto, quella relativa alle ragioni giuridiche, quella che illustra la tutela sostanziale pretesa e quella incentrata sulle richieste conclusive avanzate in giudizio; in questi casi sorge tipicamente la necessità di interpretare l’atto stesso, e al riguardo vanno certamente bandite le posizioni formalistiche che pure si riscontrano, nella pratica, in certi rilievi di nullità della citazione. L'interpretazione della domanda giudiziale, infatti, va compiuta non solo avendo riguardo alla sua letterale formulazione, ma anche al contenuto sostanziale delle pretese fatte valere, tenendo conto delle finalità perseguite nel giudizio. Non vi è nullità pertanto se il petitum è individuabile attraverso un esame complessivo dell’atto, tenendo ben presente che la sua illustrazione non richiede formule sacramentali o solenni; è necessario e sufficiente che il petitum risulti dal complesso delle espressioni usate dall’attore in qualunque parte dell’atto introduttivo [1]. Se per esempio nella parte espositiva della citazione (c.d. narrativa) l’attore ha manifestato chiaramente la volontà di conseguire il risarcimento del danno sotto svariati profili, corrispondenti a voci diversificate (per esempio, biologico iure proprio, biologico iure hereditatis, ecc.), è irrilevante che le conclusioni formulate nella parte finale della citazione siano parzialmente manchevoli, risultando pretermesse alcune voci risarcitorie. Diverso è il caso in cui le allegazioni in fatto e le deduzioni in diritto manifestino nel loro insieme delle insanabili contraddizioni, perchè ad es. non si capisce se l’attore aspiri alla declaratoria di risoluzione di diritto sulla scorta di una clausola risolutiva espressa, ovvero se intenda dedurre la gravità dell’inadempimento con la conseguente pronuncia costitutiva.

Con riguardo ai criteri interpretativi cui attenersi nella lettura e qualificazione della domanda giudiziale, la Cassazione ha talora assimilato quest’ultima al negozio giuridico, visto che mira comunque alla produzione di effetti giuridici tutelati dall’ordinamento; e su queste basi comuni, in alcune pronunce [2], peraltro apertamente contrastate da altre di segno opposto [3], ha giustificato l’applicazione analogica delle regole relative all’interpretazione dei contratti.

La necessità di interpretare l’atto di citazione quasi alla stregua di un contratto, non significa però, sempre con riguardo al petitum (e segnatamente a quello immediato), che la mancanza delle conclusioni sia superabile, sicchè ne deve conseguire il rilievo di nullità. Deve osservarsi che l’ipotesi della omissione di conclusioni non è espressamente disciplinata dal codice di rito, il quale infatti sanziona con la nullità la mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4) dell’art. 163 ma non il difetto di conclusioni. E’ certo condivisibile l’affermazione [4] secondo cui in questi casi va applicato l’art. 156.2, sicchè, pur difettando l’espressa comminatoria di legge, la nullità consegue alla inidoneità dell’atto a raggiungere lo scopo suo proprio; non solo infatti il convenuto non saprebbe come difendersi adeguatamente, ma anche il giudice non verrebbe posto in condizione di decidere alcunché.

Una questione che ricorre molto di frequente è quella del rilievo da darsi (in ipotesi) ai documenti prodotti con l’atto di citazione, al fine di integrare le allegazioni di fatto,  che sono magari carenti in sede di svolgimento esplicito. Si tratta cioè di vedere se la tecnica della relatio – si pensi tipicamente alla determinazione per relationem dell’oggetto del negozio, con riferimento dunque ad elementi esterni al negozio stesso - sia utilizzabile anche con riguardo all’attività assertiva contenuta nella citazione.

Un’ipotesi in cui l’esigenza di valorizzare la relatio si avverte fortemente, è quella relativa alla violazione del regime delle c.d. tariffe a forcella (l. n. 298/1974) in tema di trasporti; regime così denominato perchè il limite minimo ed il limite massimo del corrispettivo, che costituiscono appunto la forcella, sono inderogabili. In casi di questo tipo, l’attore che rivendichi la differenza pecuniaria dovutagli per avere ricevuto un corrispettivo inferiore ai minimi, tipicamente svolge le sue allegazioni in merito alle obbligazioni di trasporto dedotte in giudizio, rinviando per relationem alla (spesso enorme) quantità di fatture prodotte con la citazione; e proprio dall’esame di queste fatture (coi relativi documenti di trasporto) il c.t.u. di solito ricostruisce con la necessaria determinatezza l’oggetto delle obbligazioni di trasporto effettivamente eseguite.

Si pensi inoltre alle rivendicazioni economiche fatte contro le banche dai suoi correntisti, magari per l’applicazione illegittima di interessi anatocistici, per violazioni contrattuali inerenti agli investimenti in prodotti finanziari, per addebiti illegittimi in conto corrente ecc.; anche in questi casi spesso le allegazioni introduttive si possono ricostruire adeguatamente solo per relationem, facendo riferimento agli estratti conto bancari prodotti con la citazione.

Non di rado, poi, vengono dedotti in giudizio contratti d’opera intellettuale, inerenti per es. alle più svariate progettazioni edilizie e architettoniche, con citazioni assai scarne in punto di descrizione dell’attività commissionata e svolta, giacchè l’attore rimanda ai documenti contenenti i progetti, spesso associati ai conseguenti atti autorizzativi della pubblica amministrazione.

In proposito le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità sono relativamente contrastanti, poiché da un lato si ammette pacificamente che per individuare il quadro delle allegazioni rilevanti possa farsi riferimento anche ai documenti prodotti con l’atto introduttivo [5], mentre dall’altro lo si nega in funzione delle esigenze difensive del convenuto; siccome cioè quest’ultimo deve poter approntare la sua difesa immediatamente (senza attendere il deposito dei documenti allegati alla citazione), l’attore non potrebbe svolgere le allegazioni di fatto rimandando per relationem alle produzioni documentali [6].

Se dunque non vi è un quadro interpretativo sicuro e ben definito in tema di allegazioni svolte per relationem, di certo le produzioni documentali svincolate da qualsivoglia allegazione e indicazione negli scritti difensivi vanno considerate tamquam non essent. Il problema è tutt’altro che teorico, poiché non di rado capita di imbattersi in (abbondante) materiale documentale, la cui concreta valenza dimostrativa in rapporto al tema cognitivo non è adeguatamente illustrata negli scritti difensivi; accade così che la parte, nell’illustrare le sue pretese, non correli quel certo documento allo scopo perseguito in ragione dell’oggetto del processo. In questi casi, come costantemente ricordato dalla Cassazione, mancando le necessarie indicazioni di parte, non vi è alcun obbligo da parte del giudice di esaminare i documenti, anche se idonei a giustificare illazioni e considerazioni rilevanti ai fini della decisione [7].

2. Istanze cautelari e anticipatorie inserite nella citazione introduttiva.

 

Non di rado accade che la citazione introduttiva contenga altresì un’istanza di anticipazione di udienza, con l’obiettivo di ottenere un’immediata tutela della situazione sostanziale dedotta in giudizio; si tratta cioè delle ipotesi in cui anche solo il decorso dei termini di comparizione può determinare, nella prospettazione attorea, un pregiudizio cui bisogna porre rimedio antecedentemente.

Si pensi, per es., alla citazione in giudizio (ex art. 23.3 c.c.) per annullamento di una delibera associativa di rinnovo delle cariche sociali, laddove si tema che l’ente con la nuova composizione adotti subito dopo delle delibere suscettibili di essere poi caducate secondo il modello dell’invalidità derivata. Spesso l’attore domanda l’anticipazione dell’udienza, al solo fine di trattare la domanda di sospensione dell’efficacia della delibera, temendo che durante il decorso del termine di comparizione l’organo amministrativo vi dia esecuzione.

Una situazione analoga potrebbe determinarsi in rapporto all’impugnazione di una delibera dell’assemblea condominiale ai sensi dell’art. 1137.2 c.c., magari perché è stata approvata l’esecuzione di opere urgenti e si vuole inibire immediatamente la stipulazione dell’appalto relativo; ancora, più di qualche volta il socio che impugni la delibera societaria di esclusione del medesimo (art. 2287.2 c.c.), in citazione domanda che la pronuncia sulla sospensione degli effetti della delibera intervenga antecedentemente alla prima udienza.

La preventiva trattazione potrebbe altresì ricollegarsi alla domanda di rilascio di un’ordinanza condannatoria interinale ex art. 186 ter c.p.c., sia in caso di deduzione del credito con citazione ordinaria, sia in caso di deduzione nelle forme del rito locatizio (e conseguente fissazione da parte del giudice di un’udienza troppo lontana nel tempo).

Ancora, l’opponente a decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ab origine (art. 642 c.p.c.), ed emesso per un rilevante credito - da opporre nelle forme cognitive ordinarie, o magari anche con quelle del rito locatizio -, potrebbe domandare l’anticipazione della prima udienza sempre per ottenere l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto stesso.

Al riguardo bisogna distinguere le ipotesi in cui l’istante mira ad una tutela autenticamente (e tecnicamente) cautelare, da quelle in cui invece l’urgenza inerente alla tutela del diritto ha carattere meramente estrinseco, talchè non giustifica il riconoscimento di una vera e propria fattispecie cautelare. Se infatti vi sono le condizioni per ricondurre l’istanza di anticipazione al modello della tutela cautelare, il giudice provvederà conseguentemente, fissando apposita udienza coi (brevi) termini di comparizione concessi dal medesimo. Se invece la tutela non presenta tale natura, va ricordato che l’anticipazione di udienza potrebbe ledere il diritto di difesa della controparte, che deve poter contare sui termini di comparizione previsti legalmente; in tal caso pertanto verrà mantenuta ferma l’udienza già fissata, anche ai fini della pronuncia sull’istanza incidentale [8].

Con riguardo specificamente alla (frequente) domanda di sospensione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo (art. 649), deve registrarsi una certa disomogeneità nelle prassi giudiziarie. Infatti, da un canto si aderisce alla tesi secondo cui il provvedimento sospensivo non ha natura cautelare, costituendo una forma di esercizio di poteri sommari [9], sicchè il giudice prende posizione al riguardo solo alla prima udienza, senza dunque fissarne una antecedente (in effetti non prevista dal codice di rito); d’altro canto, e più spesso, nella pratica viene fissata un’udienza anteriormente alla prima, al fine soltanto di trattare la domanda di sospensione [10]. Quest’ultimo orientamento sembra preferibile, soprattutto considerando, al di là delle qualificazioni dogmatiche, il grave danno risentito da chi subisca anche solo un inizio di esecuzione forzata derivante da un decreto rilasciato immediatamente esecutivo (ex art. 642) senza che ne sussistessero i presupposti, magari per un credito assai rilevante. Deve comunque precisarsi che, anche qualificando come latamente cautelare tale pronuncia, non può certo sospendersi l’efficacia esecutiva inaudita altera parte, secondo il tipico modello di tutela cautelare in senso proprio. Va infatti condivisa la diffusa affermazione dottrinale secondo cui la tutela ex art. 649 è concedibile solo dopo la costituzione del contraddittorio, anche alla stregua della formulazione letterale della norma, la quale delinea una forma di tutela affatto autonoma e dunque tale da rendere incompatibile l’estensione della disciplina del procedimento cautelare uniforme.

Va poi chiarito che nelle ipotesi di istanze di natura cautelare proposte in pendenza della causa di merito prima che il convenuto si sia costituito, la successiva costituzione di quest’ultimo deve essere valutata con particolare attenzione; bisogna cioè verificare se le sue deduzioni difensive ineriscano compiutamente alla sola istanza incidentale ovvero anche alla domanda principale di merito, poiché concettualmente e giuridicamente si hanno due distinte costituzioni in giudizio. Potrebbe pertanto intervenire una valida costituzione sulla vicenda cautelare incidentale, che però non rileva per la causa di merito; così come la comparsa potrebbe avere una duplice valenza in chiave di costituzione [11].

 

 

3. Il rinvio “preventivo” della prima udienza.

 

Quando in citazione l’attore individua quale data dell’udienza un giorno in cui secondo l’assetto tabellare ed organizzativo del tribunale non si tiene la prima udienza, ai sensi dell’art. 168 bis, 4° comma, si ha un automatico rinvio del procedimento alla prima udienza utile successiva; ciò significa che se l’attore, il quale agisca dinanzi al tribunale di Treviso (sede centrale), fissa la prima udienza al venerdì, siccome il calendario delle udienze trevigiane individua nel giovedì il giorno settimanale destinato alle prime udienze, la trattazione di quel giudizio è automaticamente rinviata al giovedì successivo, senza che l’ufficio debba fare o comunicare alcunché. In questo caso, ai sensi dell’art. 70 bis nn. att. i termini per comparire stabiliti dall’art. 163 bis vanno comunque computati in relazione all’udienza fissata nell’atto di citazione. Ne consegue, sul piano degli effetti pratici, che la nullità della citazione per il mancato rispetto del predetto termine non può essere esclusa o sanata a causa dell'eventuale rinvio d'ufficio dell'udienza di prima comparizione, operato ex art. 168 bis, 4° comma [12].

Affatto diversa, anche sul piano degli effetti pratici, è invece l’ipotesi di cui al 5° comma dell’art. 168 bis; qui è attribuito al giudice il potere di differire la prima udienza (quella fissata dall’attore in citazione ovvero quella risultante dal rinvio automatico ai sensi del 4° comma) ad altra successiva, in ragione delle esigenze organizzative del giudice stesso. Si ha riguardo, in questo caso, ai motivi inerenti all’organizzazione del lavoro del magistrato, talchè il fine perseguito è esclusivamente quello di garantire una razionale organizzazione della trattazione delle cause sopravvenienti in relazione a quelle pendenti. Se dunque il giudice procede a questo rinvio discrezionale, i termini per comparire vanno computati non già (come nella fattispecie del 4° comma) in relazione all’udienza fissata in citazione (ovvero rinviata automaticamente ai sensi del 4° comma), ma in relazione all’udienza fissata dal giudice stesso [13]. E’ peraltro pacifico in sede interpretativa che sia il termine massimo di 45 giorni per il rinvio, sia il termine di 5 giorni per l’adozione del decreto hanno carattere meramente ordinatorio [14]

Come si vedrà in seguito, già in prima udienza il giudice dovrebbe conoscere adeguatamente i termini della controversia, sicchè è ben plausibile che nei tribunali con notevoli sopravvenienze il potere discrezionale di rinvio venga spesso esercitato, per assicurare una gestione intelligente e razionale del lavoro giudiziario. Su queste basi, sono stati fondatamente sollevati dei dubbi circa la possibile lesione dell’immagine di imparzialità e terzietà del giudice, il quale dovrebbe ponderare attentamente l’esercizio del potere in discorso; ciò perché il risultato pratico di un rinvio potrebbe evidentemente consistere in una rimessione in termini del convenuto [15].

4. Il controllo del giudice sulle allegazioni di fatto.

 

E’ appena il caso di ricordare, con la giurisprudenza di legittimità, che l’individuazione della causa petendi si ricollega alle circostanze di fatto poste a fondamento del diritto dedotto in giudizio [16]; l’indicazione della causa petendi rimanda dunque all’onere di allegazione, e cioè di introduzione nel giudizio dei fatti (principali e secondari) sulla cui base si fonda la pretesa fatta valere. Ora, non è certo il caso di inoltrarsi negli sconfinati spazi interpretativi e di riflessione dogmatica in tema di causa petendi e suo rapporto col petitum. Merita invece soffermarsi sull’onere di allegazione e sui riflessi del medesimo con riguardo alla validità della domanda sotto il profilo della editio actionis. Si è osservato, al riguardo, che in un processo (come l’attuale) caratterizzato da rigide preclusioni, è essenziale che le allegazioni attoree abbiano ad oggetto sin da principio tutti i fatti costituenti la vicenda storica della causa; non solo dunque i fatti principali, ma anche quelli c.d. secondari, che pur non concorrendo di per sé a identificare il diritto, indicano comunque a tempo e luogo della sua insorgenza, ovvero ad es. le modalità di manifestazione della lesione. L’onere di allegazione si può pertanto considerare assolto, in questa prospettiva, solo con un’esposizione adeguatamente esaustiva della vicenda storica della causa; ciò perché solo così la controparte è messa in grado sia di svolgere la sua difesa immediatamente nei termini dell’art. 167, sia di sollevare tempestivamente le eccezioni del caso, onde evitare la decadenza [17]. Va peraltro ricordato come anche la Cassazione abbia chiarito che l’onere di allegazione non può ritenersi assolto quando i fatti relativi siano indicati solo genericamente [18].

Si osserva generalmente che l’attività di allegazione, e cioè di introduzione dei fatti nel giudizio, incontra un preciso sbarramento nella sequenza delle fasi processuali, coincidente con l’udienza ex art. 183 ovvero, nel caso di concessione dei termini ex art. 183, 6° comma, con la memoria di cui al n. 1; ai fini dell’attività assertiva (o di allegazione) la memoria di cui al n. 2 rileva certamente, ma solo in chiave di replica alle altrui allegazioni integrative, ovvero per la proposizione delle relative eccezioni consequenziali. In relazione a queste precise scansioni processuali si determina la fissazione del thema decidendum, sulla cui base poi le parti formuleranno le richieste istruttorie dirette a provare le circostanze di fatto precedentemente allegate; dunque l’ambito delle circostanze di fatto non può essere ampliato successivamente alle barriere preclusive inerenti all’attività assertiva, la quale pertanto va tenuta ben distinta dall’attività di richiesta probatoria. Ciò significa, in concreto, che l’articolazione conclusiva delle istanze istruttorie (memorie ex art. 183, 6° comma, nn. 2 e 3) non può coincidere con un ampliamento dell’attività di allegazione dei fatti, per la quale lo sbarramento processuale va identificato autonomamente [19].

E’ però indispensabile dare conto del contrario orientamento interpretativo, secondo il quale deve ritenersi sistematicamente inaccettabile la preclusione dell’attività assertiva dopo il decorso dei termini per l’appendice di trattazione scritta di cui al sesto comma dell’art. 183. L’autorevole (e ben motivata) critica alla individuazione di precise barriere preclusive in ordine alle nuove allegazioni di fatto, muove dal rilievo che la sanatoria della nullità inerente alla editio actionis (art. 164, 5° comma) è possibile per tutto lo svolgimento del giudizio di primo grado. Ciò significa che quando il vizio riguardante la carenza di allegazione dei fatti costitutivi (causa petendi dunque) viene rilevato per es. in sede di ammissione delle prove, attraverso il deposito della memoria integrativa sollecitata dal giudice in sede di sanatoria, vengono introdotti fatti principali evidentemente dopo la barriera preclusiva vista a proposito dell’attività assertiva. Ciò dunque dimostrerebbe, sul piano sistematico, che il codice di rito non pone una preclusione generale ed assoluta ad allegazioni di fatto successive alla prima udienza di trattazione o alla sua appendice scritta [20].

5. Il giudice che “governa” il processo.

 

Il controllo del magistrato sul rispetto dell’onere di allegazione è pertanto essenziale, sia ai fini del rilievo di nullità della domanda quanto a editio actionis, sia in vista dell’individuazione precisa, chiara e puntuale del thema probandum. Nella pratica frequentemente la disattenzione del giudice nella lettura in prima battuta degli atti introduttivi, che molto più spesso di quanto accada dovrebbe indurre una sollecitazione del contraddittorio quanto meno per esigenze di chiarezza e puntuale individuazione del tema cognitivo (art. 183, 4° comma), si traduce poi in un letale appesantimento del processo. E’ davvero utile che il giudice chieda alle parti dei chiarimenti sui fatti allegati, perché frequentemente solo questa interlocuzione diretta consente di individuare in breve tempo e con la necessaria precisione le circostanze e gli elementi davvero rilevanti per la decisione; soprattutto a fronte di scritti difensivi eccessivamente prolissi – evenienza tutt’altro che rara -, vi è la necessità di farsi spiegare meglio e in sintesi quale sia davvero il tema di fatto rilevante, anche per accertare contestualmente, e nel confronto diretto, la reazione di ciascuna parte a fronte delle deduzioni in udienza dell’altra.

Va rimarcato peraltro che non sempre il convenuto è adeguatamente incalzante a fronte della genericità delle allegazioni attoree, col risultato che l’oggetto del processo si gonfia progressivamente a dismisura, senza peraltro che in questa disordinata dinamica vi sia precisa contezza del contenuto preciso delle ragioni in fatto e diritto delle parti; ed è anche (e soprattutto) per questa ragione che poi la valutazione sull’ammissibilità e rilevanza delle prove orali molto spesso si traduce in una sterile delibazione circa il grado di specificità dei singoli capitoli contenuti nelle memorie istruttorie (magari con le note e sostanzialmente inutili amputazioni di singoli avverbi o elementi valutativi), senza una preventiva reale consapevolezza del thema probandum davvero rilevante. E tale consapevolezza può derivare esclusivamente da una scrupolosa lettura degli atti introduttivi, mirata fin da subito alla qualificazione giuridica dei fatti, con la conseguente sussunzione dei medesimi nella fattispecie normativa o giurisprudenziale concretamente rilevante. Le omissioni del giudice nel “governare” il processo fin da principio – ciò che peraltro si richiede per definizione in un modello di processo con preclusioni - si pagano poi molto care, sia in termini di tempistica processuale, sia in termini di successiva difficoltà di lettura delle carte processuali in sede decisoria.

Quanto poi siano inutili le risultanze istruttorie di prove orali ammesse semplicemente “sezionando” il contenuto dei singoli capitoli, senza che si abbia ben chiaro da principio il quadro fattuale e giuridico di insieme, è sotto gli occhi di tutti gli operatori giuridici mediamente avveduti e intellettualmente onesti; perciò non è sempre facile dissentire dai rilievi amari e ironici con cui talora viene tratteggiato il nostro processo civile con riguardo all’istruttoria [21], che spesso viene condotta sul falso presupposto che una incontrollata quantità di prove possa davvero avvicinare il magistrato alla conoscenza effettiva della vicenda sostanziale. Al contrario, solo l’attento studio da subito del fascicolo processuale, accompagnato da una consapevole ed immediata interazione con gli avvocati, può consentire al giudice di individuare nitidamente il reale oggetto della lite, che non di rado diventa sempre più sfocato (anche per le parti !) mano a mano che allegazioni di fatto e deduzioni di diritto si affastellano, spesso confusamente.

Per contro, un superficiale approccio conoscitivo all’oggetto della lite, unitamente alla ferma volontà di deflazionare un carico processuale magari ponderoso (sullo sfondo peraltro della sempre minacciosa legge Pinto), induce talora a scelte ingiustamente rigide e formalistiche, mirate alla forzata ricerca di definizioni in rito del processo, ovvero di superficiali stroncature sulle istanze istruttorie; ciò che non solo esprime il massimo grado di ingiustizia, ma non giova in alcun modo a deflazionare alcunché. Infatti, da un canto la chiusura in rito del processo comporterà semplicemente l’instaurazione di un successivo processo sullo stesso oggetto, magari con l’ovvio auspicio che muti il giudice-persona fisica designato; d’altro canto le parti riproporranno in sede di precisazione delle conclusioni le istanze istruttorie respinte superficialmente, col risultato che il giudice dovrà rimettere la causa in istruttoria o che (ancora peggio) assumerà una decisione tale da costringere poi il giudice di appello a surrogarlo nell’istruttoria mancata in primo grado.

In un recente convegno si è autorevolmente osservato, giocando sagacemente sui paradossi, che il giudice civile perfetto non dovrebbe scrivere neppure una sentenza, perché prima di arrivare alla fase decisoria (dove si ha la vera strozzatura del processo civile, il “collo dell’imbuto”), utilizzando sapientemente i molti strumenti deflattivi offerti dal sistema (ad es. le ordinanze condannatorie interinali, la provvisoria esecuzione anche parziale ecc.), in uno con la gestione “attiva” e consapevole del processo sin dalla fase di trattazione, avrebbe già dovuto soddisfare le pretese delle parti (od ovviamente respingerle ove prive di fondamento). L’aspettativa di giustizia deve essere però realmente soddisfatta, anche se in negativo, e ciò postula che il giudice adotti le sue determinazioni interinali con lucida conoscenza del tema cognitivo, perché diversamente si corre il rischio, davvero letale perché segno di massima ingiustizia, di forzare la mano pur di chiudere il processo.

Talora si obietta che la preventiva e adeguata conoscenza del fascicolo da parte del magistrato, presuppone necessariamente la gestione di un ruolo di cause sostenibile, perché solo così si ricava fin da subito il tempo indispensabile a quella attenta lettura delle carte processuali che tipicamente connota solo la fase decisoria. L’obiezione è suggestiva ma non coglie nel segno, poiché il rischio che diversamente si corre – e il dato è sotto gli occhi di tutti – è quello di condurre la fase di trattazione e quella istruttoria in modo superficiale e poco consapevole, senza “incidere” realmente sul processo nei suoi snodi essenziali; si riserva così (più o meno implicitamente) alla fase decisoria la vera analisi anche di questioni che, se affrontate con “reattività” nel corso del giudizio, ne avrebbero plausibilmente consentito la definizione anticipata. Il problema dei ruoli troppo carichi va tendenzialmente affrontato ab origine, attraverso una coraggiosa (ma conclusivamente indispensabile) riorganizzazione e ordinata distribuzione temporale dei procedimenti; certamente può impressionare la dilatazione temporale che ne consegue nell’immediato, ma almeno quei procedimenti verranno poi trattati lucidamente e consapevolmente. Diversamente si produce il deleterio effetto di un sostanziale “galleggiamento” del ruolo, l’ineluttabile corollario di una trattazione ed istruzione gestite sulla scorta di una superficiale delibazione delle questioni, proprio a causa dell’eccesso di fascicoli da studiare. Ne conseguiranno una tempistica ugualmente molto dilatata e in più la probabilità di decidere male la causa, giacchè in sede decisoria il procedimento spesso si presenterà ingiustificatamente appesantito da un confuso e magmatico impasto di allegazioni inammissibili e prove orali inutili, con conseguenti amplissime deduzioni difensive “a tutto campo”; il magistrato è così costretto ad un faticosissimo lavoro di selezione predecisoria, che se condotto progressivamente e a tempo debito, sarebbe costato assai meno sia quanto ad analisi logico-giuridica, sia quanto a tempo da dedicarvi.

6. Il giudice dialogante.

 

L’interrogatorio libero, icasticamente descritto come una sorta di dialogo o conversazione tra le parti personalmente e il giudice, il quale di sua iniziativa o su sollecitazione pone domande non prefissate e precostituite [22], è uno strumento processuale prezioso per diversi aspetti.

Anzitutto può rivelarsi assai utile per quei chiarimenti e quelle spiegazioni in merito ai fatti allegati, che non sempre conseguono al confronto dialettico con i soli avvocati; non di rado accade peraltro che la parte, messa di fronte in udienza alle affermazioni dell’avversario, prenda posizione in modo tale che il tema controverso alfine si riduce notevolmente. Tipicamente, infatti, questo confronto franco e diretto, ovviamente svincolato dalla disamina di specifiche circostanze di fatto appositamente capitolate (come richiede l’interrogatorio formale), fa emergere con immediatezza quale sia il reale tema controverso; ciò che risulta davvero utile nei casi in cui il tema cognitivo è apparentemente sovrabbondante, poiché le parti vi hanno riversato livori personali del tutto estrinseci rispetto alla effettiva res litigiosa.

L’interrogatorio libero va quindi valorizzato per provocare delle ammissioni, e cioè il riconoscimento (esplicito ovvero implicito) della verità di fatti sfavorevoli al dichiarante, i quali pertanto non richiedono più di essere dimostrati. Il fatto ammesso in tal modo, fuoriesce dal thema probandum e solleva la parte che ne sia gravata dal relativo onere probatorio; si tratta però di ammissioni e non confessioni, essendo ben noto che tale interrogatorio (a differenza di quello formale) non può provocare dichiarazioni confessorie. Dunque, sia l’ammissione sia la confessione hanno ad oggetto l’affermazione di fatti sfavorevoli a chi rende la dichiarazione, ed in entrambi i casi la parte avvantaggiata non deve più fornire la dimostrazione di quel fatto. Però mentre la confessione è sostanzialmente irretrattabile, l’ammissione è liberamente revocabile nelle fasi successive del giudizio (l’individuazione poi della fase sino alla quale può modificarsi l’impianto assertivo forma oggetto di ulteriore e complesso dibattito). La dichiarazione confessoria, infatti, può essere sì revocata, ma solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 c.c.); e si noti – perché non sempre c’è chiarezza al riguardo – che l’errore cui allude la norma deve presentare le caratteristiche dell’errore ostativo civilisticamente inteso (art. 1433 c.c.), pure se non riconoscibile, non bastando la semplice dimostrazione che quanto erroneamente dichiarato non corrisponde alla realtà; è dunque irrilevante che la parte ritenesse erroneamente veri dei fatti che tali non erano [23]. Al contrario, la parte che intenda mutare radicalmente strategia processuale dopo avere ammesso certi fatti, può benissimo dire che si era sbagliata per un qualsiasi motivo, e così revocare efficacemente l’ammissione; col risultato che il suo avversario sarà nuovamente gravato dall’onere di dare la prova di quei fatti, ferma naturalmente, se del caso, la valutazione ai sensi dell’art. 116, 2° comma, della condotta ambigua di chi dopo avere fatto un’ammissione in qualche modo “cambia le carte in tavola”.

Argomenti di prova si ricavano anche dalla dinamica concreta dell’interrogatorio libero, che ovviamente presenta delle utilità solo se il giudice ha ben presente il quadro fattuale e giuridico della lite; è quasi superfluo rimarcare che la richiesta di chiarimenti o spiegazioni, così come la provocazione di ammissioni, richiedono giocoforza una solida conoscenza di base dell’oggetto della controversia. Su questi presupposti, il giudice attento dovrebbe essere anche in grado di valutare la credibilità o il grado di persuasività delle parti con cui in qualche modo dialoga, così come dovrebbe saper cogliere la fragilità e debolezza delle ragioni concretamente illustrate da una parte che si mostri in difficoltà. Va allora condivisa la tesi (che riflette fedelmente quanto accade quotidianamente nelle aule giudiziarie) secondo cui il giudice in sede decisoria può ben trarre argomenti di prova dalla dinamica effettiva e concreta dell’interrogatorio libero [24].

L’interrogatorio libero prelude altresì al tentativo di conciliazione della lite, il cui successo postula anzitutto - alla stregua di una vera e propria “condizione dell’azione conciliativa” - una chiara conoscenza da parte del giudice dei termini in fatto e diritto della controversia. Per la buona riuscita del tentativo vanno certamente evitati, in primo luogo, gli atteggiamenti ingiustificatamente prudenti e rigidi del magistrato, che in omaggio ad ancora persistenti ed erronee resistenze culturali, teme le conseguenze di una indebita anticipazione del giudizio; il punto è che (come si vedrà più avanti a proposito della rilevazione delle questioni ex art. 183, 4° comma) il giudice non deve ovviamente enunciare la sua posizione come rivelatrice di una sentenza già scritta nella sua mente, perché allora il contraddittorio inerente alla conciliazione perderebbe automaticamente ogni significato. Deve però sottoporre alle parti come plausibile una certa ipotesi decisoria, magari correlando alla prevedibilità di una determinata decisione gli orientamenti giurisprudenziali o dottrinali ritenuti confacenti al caso concreto. Di regola è portata a conciliare la parte che, posta di fronte ad una certa possibile decisione, chiaramente e motivatamente illustrata come prevedibile, possa altresì comprendere il costo in termini di tempo e denaro di una prosecuzione del giudizio sino alla definizione con sentenza. E’ evidente pertanto che il magistrato deve affrontare il tentativo di conciliazione calibrando con attenzione e sensibilità, ma anche senza ingiustificati timori “anticipatori”, le sue valutazioni in fatto e diritto, non mancando di rapportare gli effetti della definizione anticipata del giudizio alla consistenza del suo ruolo di cause, cosicché la parte possa seriamente e consapevolmente rappresentarsi il quadro concreto in cui effettuare la sua scelta. E’ evidente dunque l’inutilità e dannosità processuale di quegli pseudo-tentativi di conciliazione in cui, a causa della superficiale conoscenza del tema cognitivo, il tutto si riduce tipicamente a generiche proposte “salomoniche” di tendenziale riduzione a metà delle reciproche pretese, senza una precisa consapevolezza della specificità della fattispecie da conciliare.

 

 

7. Nullità della domanda con riguardo alla editio actionis: alcune precisazioni.

 

E’ noto che per diritti autodeterminati (ad es. proprietà e altri diritti reali di godimento, diritti assoluti a contenuto non patrimoniale, crediti aventi ad oggetto prestazioni specifiche) si intendono quelli individuati anche prescindendo dal titolo e dal relativo fatto acquisitivo; la proprietà di per sé non cambia a seconda della sua derivazione da una vicenda successoria, ovvero da una liberalità ovvero ancora da un acquisto a titolo originario. Diversamente deve dirsi per i diritti eterodeterminati (ad es. diritti di credito e diritti reali di garanzia), giacchè i relativi titoli e fatti acquisitivi sono indispensabili per la relativa individuazione. Il credito pecuniario di Tizio verso Caio, per esempio, muta – talchè si hanno diritti diversi - a seconda che il denaro gli sia dovuto a titolo di mutuo, ovvero di canone locatizio ovvero ancora di prezzo di una fornitura; allo stesso modo l’ipoteca, che può essere iscritta più volte sul medesimo immobile, muta a seconda che dipenda dalla legge, da un provvedimento giurisdizionale ovvero da una fattispecie contrattuale.

Un fondamentale riflesso di tale distinzione si coglie in tema di nullità della domanda con riguardo alla editio actionis; infatti, siccome nelle azioni relative ai diritti autodeterminati - a differenza di quelle relative agli eterodeterminati - il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda, non vi è nullità della citazione per mancata indicazione del titolo medesimo. In tema di diritti autodeterminati, in altre parole, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non svolge, per l'effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, ma è rilevante ai soli fini della prova [25]. Se per la validità della domanda è sufficiente la sola indicazione del contenuto del diritto con riferimento al bene che ne forma l'oggetto, ovviamente sarà poi necessaria l’indicazione del fatto acquisitivo a fini probatori; ma la relativa carenza atterrà solo al giudizio di merito sulla fondatezza della domanda. Se dunque le deduzioni del convenuto convincono l’attore di avere impostato male la lite, poiché il titolo sulla cui base ha rivendicato la proprietà non gli consentirà di ottenere ragione, l’attore stesso con la prima memoria ex art. 183, 6° comma, potrà indicare un titolo costitutivo affatto diverso, così modificando la narrazione dei fatti rilevanti al riguardo; ciò che invece non è possibile in caso di diritti eterodeterminati, poiché in tal caso la “correzione di tiro” dell’attore, che nella prima memoria cit. (a fronte delle difese del convenuto) decida di ricollegare il suo credito pecuniario ad un contratto diverso da quello dedotto in citazione, integra un inammissibile mutamento della domanda. In tal caso infatti, diversamente che per i diritti autodeterminati, il titolo assolve la funzione di specificazione della domanda.

Si osserva generalmente che in materia di nullità della citazione, i vizi riguardanti la editio actionis, a differenza dai vizi riguardanti la vocatio in ius, non sono sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto, essendo questa inidonea a colmare le lacune della citazione stessa; ne consegue che non può farsi applicazione degli artt. 156,  3° comma, e 157 , essendo la nullità in questione prevista in funzione di interessi che trascendono quelli del convenuto [26]. Deve però chiarirsi che il giudice, a fronte per esempio di allegazioni attoree eccessivamente generiche in merito agli estremi del contratto costitutivo del rapporto obbligatorio concretamente fatto valere in giudizio – si pensi al caso in cui la deduzione in giudizio riguardi solo alcuni dei molti crediti derivanti da un complesso intreccio di relazioni commerciali -, non debba automaticamente assegnare il termine per l’integrazione della domanda (art. 164, 5° comma); se la costituzione del convenuto è infatti di regola inidonea a sanare detta nullità, bisogna però verificare in concreto quali siano le allegazioni del convenuto stesso. Se questi infatti si difende nel merito con riferimento proprio a quei crediti fatti valere contro di lui, è congruente ritenere che la costituzione, accompagnata da allegazioni di tal genere, valga a sanare la nullità, la quale è prevista anzitutto in funzione delle esigenze difensive del convenuto (che per difendersi adeguatamente deve sapere esattamente di cosa si sta parlando) [27].

Ai sensi dell’art. 164, 5° comma, in esito al rilievo di nullità, qualora il convenuto sia costituito in giudizio, il giudice deve fissare all’attore un termine perentorio per integrare la domanda. Ciò significa, in concreto, che il giudice deve emettere un’articolata ordinanza in cui illustra chiaramente le ragioni per cui vi è nullità con riguardo alla editio actionis, dichiara espressamente che per tali ragioni la domanda è nulla e dispone che l’attore, entro il termine perentorio ivi fissato, depositi in cancelleria una memoria contenente gli elementi  ritenuti mancanti (ad es. le necessarie allegazioni di fatto che individuano gli estremi del contratto dedotto in giudizio). Ancora, ai sensi dell’art. 164, 6° comma, con la medesima ordinanza di rilevazione della nullità, il giudice deve altresì fissare una nuova udienza di trattazione, nel rispetto dei termini di comparizione, che decorrono dalla scadenza del termine concesso per il deposito della memoria integrativa; deve inoltre assegnare un termine al convenuto per depositare una comparsa di risposta integrativa, ovviamente speculare sul piano delle difese rispetto alla domanda come integrata. E questo secondo termine (argomentando dagli artt. 163 bis, 1° comma e 166, implicitamente richiamati dall’art. 164, 6° comma che rinvia esplicitamente all’art. 167) deve avere una durata non inferiore a settanta giorni liberi dalla scadenza del primo; la nuova udienza va quindi fissata ad almeno venti giorni dopo la scadenza del termine per il deposito della comparsa di risposta integrativa, ovviamente valorizzando il richiamo implicito all’art. 166 [28].

Nel caso invece di contumacia del convenuto, il giudice con l’ordinanza di rilevazione della nullità deve assegnare all’attore un termine per rinnovare la citazione (art. 164, 5° comma), che dunque sarà integrata alla stregua dei rilievi svolti dal giudice nell’ordinanza stessa; ovviamente la nuova udienza, per la quale va citato il convenuto non costituito, deve essere fissata nel rispetto dei termini minimi di cui all’art. 163 bis.

 

 

8. La rinnovazione nulla della citazione.

 

Ai sensi dell’art. 164, 2° comma, l’omessa rinnovazione della citazione la quale sia viziata e dunque formi oggetto di rilievo di nullità, comporta la declaratoria di cancellazione della causa dal ruolo e conseguente estinzione.

Ora, è pacifico in sede interpretativa che all’ipotesi della mancata rinnovazione va assimilata, ai fini dell’estinzione, quella della rinnovazione eseguita al di là del termine perentorio concesso dal giudice ex art. 164, 2° comma.

Non di rado però accade che la citazione rinnovata presenti a sua volta dei vizi che la rendono ancora nulla, talchè si pone il problema di stabilire se il giudice possa legittimamente concedere un ulteriore termine per la successiva rinnovazione, ovvero se debba procedere senz’altro alla cancellazione della causa dal ruolo e conseguente estinzione. La questione è controversa, e al riguardo si contrappongono due orientamenti interpretativi; da un canto la fattispecie nulla viene assimilata alla fattispecie omessa o tardiva, sicchè non si ritiene giuridicamente giustificata un’ulteriore rinnovazione; d’altro canto si rimarca che il sistema, ed in particolare la norma in discorso, non autorizza una tale singola limitazione [29].

In questo incerto quadro interpretativo, sembra allora congruente e coerente sol sistema la soluzione che utilizza come criterio discretivo l’ascrizione della responsabilità per la causazione del vizio; ne consegue allora che, se il vizio è attribuibile alla parte che doveva provvedere alla rinnovazione, “appare ragionevole ritenere che essa abbia già consumato la sua possibilità di correzione, e che la fattispecie sia quindi da equiparare alla mancata rinnovazione”; per contro, nel rispetto del principio per cui non può imputarsi alla parte “il mancato perfezionamento di atti per motivi ad essa estranei”, la rinnovazione invalida per ragioni non ascrivibili al notificante comporterà la reiterazione dell’ordine giudiziale [30].

 

 

9. Le domande riconvenzionali improprie: il rischio dell’inutile vocatio in ius.

 

La domanda riconvenzionale generalmente qualificata in sede interpretativa come “impropria”, è la domanda proposta da un convenuto nei confronti di un altro convenuto; quantunque non proposta nei confronti dell’attore, secondo il tipico modello di riconvenzionale disciplinato dal codice di rito (art. 36), la domanda avanzata da un convenuto contro un altro convenuto va pur sempre qualificata come riconvenzionale. E deve convenirsi sull’affermazione dottrinale secondo cui, più in generale, tutte le domande avanzate da chi è già parte del processo contro un soggetto che pure abbia acquisito la qualità di parte, rientrano nel concetto di riconvenzionale [31]; vi rientrano dunque anche le domande proposte contro l’attore o il convenuto da un terzo chiamato in causa ovvero interventore. Ad ogni modo, l’allargamento dell’oggetto della lite per iniziativa del convenuto si verifica molto spesso, e al riguardo basta pensare alle ipotesi in cui un convenuto ascriva la responsabilità esclusiva dell’illecito (dedotto in giudizio) ad un altro convenuto, talchè il primo domanda la declaratoria di assenza di responsabilità e l’affermazione di responsabilità esclusiva del secondo. D’altronde la stessa giurisprudenza di legittimità ha analizzato esplicitamente la fattispecie, riconducendo al modello della riconvenzionale (seppure non stricto sensu) la pretesa dedotta in giudizio da un convenuto contro un altro convenuto [32].

Ora, accade spesso che il convenuto, il quale appunto proponga una riconvenzionale in senso improprio, chieda altresì lo spostamento della prima udienza, come accade nel caso di chiamata di terzo fatta nella comparsa di risposta (art. 269, 2° comma). Nella sua logica, cioè, vi è l’esigenza di costituire il nuovo rapporto processuale, talchè il rinvio dell’udienza consente la necessaria notifica, nel rispetto dei termini a comparire, della comparsa di risposta contenente appunto la domanda. Quantunque diversi giudici seguano questa (errata) linea interpretativa, deve ragionevolmente escludersi la plausibilità logica e giuridica di una tale prassi. E’ davvero irragionevole che una parte del giudizio, per avanzare una domanda contro un’altra parte già costituita, debba addirittura procedere alla notificazione della stessa. Se il destinatario si è costituito, il deposito della comparsa contenente la riconvenzionale è atto sufficiente per instaurare anche nei suoi confronti il necessario rapporto processuale, senza superflui appesantimenti della procedura; la domanda diretta contro chi è già parte del processo non deve includere altresì la vocatio in ius, giacchè l’instaurazione del contraddittorio nei confronti di chi ha già acquisito la qualità di parte processuale è incongruente [33], oltre che lesivo dell’interesse pubblicistico all’ordinato e celere svolgimento della lite e del principio di economia processuale [34]. Ovviamente se il convenuto destinatario della domanda rimane contumace, dovrà procedersi alla necessaria notifica in ottemperanza all’art. 292, 1° comma. Inoltre, anche la riconvenzionale in senso improprio dovrà essere contenuta in una comparsa di risposta depositata tempestivamente, non sussistendo con evidenza ragioni logiche e/o giuridiche per sottrarla al regime decadenziale di cui all’art. 167, 2° comma.

Neppure è del tutto chiaro, a livello interpretativo, se il legame tra la riconvenzionale impropria e la domanda principale debba corrispondere o meno al nesso che connota la riconvenzionale in senso proprio (art. 36). Pare condivisibile al riguardo la convincente tesi (v. nota 34) secondo cui dalla complessa vicenda storica sottesa all’attuale configurazione normativa della riconvenzionale, emerge come questa sia sempre stata intesa quale domanda avanzata esclusivamente dal convenuto contro l’attore. Escluse pertanto le condizioni di applicabilità dell’art. 36 (riferito alla riconvenzionale in senso stretto), è congruente valorizzare, sempre alla stregua della ricostruzione interpretativa in esame, la “sostanziale affinità” esistente tra la domanda in riconvenzione proposta dal convenuto contro un altro convenuto, e quella proposta contro un terzo; perciò si ipotizza che il limite di ammissibilità delle riconvenzionali improprie vada rinvenuto nell’art. 106, che individua nella comunanza di causa e nel rapporto di garanzia gli elementi giustificativi dell’estensione di contraddittorio. Può dunque ritenersi fondatamente che la valutazione giudiziale di ammissibilità della riconvenzionale impropria, debba incentrarsi sul riscontro della connessione per titolo od oggetto tra il diritto dedotto in giudizio dal convenuto e quello fatto valere dall’attore in via principale; e l’ammissibilità va di certo riconosciuta inoltre nei casi – peraltro i più frequenti – in cui il convenuto quale debitore solidale o parziario, domanda la declaratoria di esclusiva responsabilità dell’altro convenuto litisconsorte.

Quanto infine alla tutela del diritto di difesa del convenuto destinatario della domanda, esclusa come visto la necessità della vocatio in ius con conseguente indebito spostamento di udienza, deve convenirsi che il convenuto è già garantito dal sistema allo stesso modo dell’attore destinatario di una riconvenzionale [35]; dunque egli potrà proporre in udienza (art. 183, 5° comma) le domande, eccezioni o repliche consequenziali, oltre che, ovviamente, dedurre le prove allo stesso modo degli altri litisconsorti.

 

 

10. Chiamata in causa del terzo e discrezionalità del giudice.

 

A fronte dell’istanza di chiamata di terzo avanzata dal convenuto nella comparsa di risposta ai sensi dell’art. 269, 2° comma, era sostanzialmente pacifico, in sede interpretativa, che il giudice al riguardo non disponesse di alcun potere discrezionale; si negava pertanto che potesse intervenire una valutazione di ammissibilità della chiamata, talchè il diniego di spostamento di udienza poteva fondarsi solo sulla tardività o irritualità dell’istanza del convenuto.

Di recente però la Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito che in tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all'art. 102, è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi dell'art. 269, 2° comma; conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo.

Il problema si pone in concreto quando, a fronte della domanda risarcitoria avanzata nei suoi confronti, il convenuto intenda esercitare un’azione di regresso, rivalsa o garanzia contro una cospicua quantità di soggetti. Premesso che si deve trattare tipicamente di fattispecie in cui il litisconsorzio è facoltativo, la Cassazione, a tutela delle ragioni di economia processuale che devono garantire la durata ragionevole del giudizio (tre anni), dà al giudice la facoltà di non consentire l’ingresso di altre parti. E’ in gioco dunque, nella fase introduttiva del giudizio, quella discrezionalità del magistrato che peraltro caratterizza le sue determinazioni, specularmente, con riguardo alla separazione dei procedimenti cumulati; si pensi al potere discrezionale, da esercitarsi in fase di trattazione ovvero decisoria, di separare le cause sin lì trattate congiuntamente (artt. 103, 2° comma e 104, 2° comma) [36].

Tale linea interpretativa è di certo condivisibile, perché diversamente l’obbligatorietà di estensione del contraddittorio potrebbe davvero ingolfare ingiustificatamente il giudizio, con successive difficoltà di gestione che di sicuro allontanano il magistrato dalla chiara e lucida conoscenza del suo oggetto. Certamente però la discrezionalità va esercitata consapevolmente e attentamente, considerando con cura la citazione e la comparsa del convenuto; se per es. la lite attiene alla garanzia per vizi in un appalto di opere edili da cui (come spesso accade) sono derivati alcuni subappalti (impianti elettrici, impianti termoidraulici, coibentazione ecc.), deve pur sempre considerarsi che sarà tipicamente il c.t.u. ad individuare le cause tecniche di vizi e difformità, ciò che dunque può rimandare alla conclusiva responsabilità di questo o quel subappaltatore. E un tale accertamento tecnico, sul quale dovrà giocoforza incentrarsi la decisione, va ragionevolmente condotto in seno al medesimo giudizio, onde evitare anzitutto (imbarazzanti) accertamenti contraddittori qualora poi le cause non vengano riunite. Infatti il diniego del decreto ex art. 269, 2° comma, non pregiudica certo la facoltà del convenuto (ad es. l’appaltatore principale) di esercitare autonomamente l’azione di manleva verso il terzo [37], col risultato che verrà presto instaurata un’ulteriore causa magari destinata alla riunione con la prima, ovvero (in alternativa) suscettibile di una decisione in contraddizione con quella della prima (perché ad es. il secondo c.t.u. la pensa diversamente dal primo).

Abbastanza spesso l’opponente a decreto ingiuntivo, che per es. (e tipicamente) intenda accollare ad un terzo la responsabilità contrattuale ascrittagli dal ricorrente in sede monitoria, cita direttamente il terzo medesimo per la prima udienza; accade pertanto che le parti convenute dall’opponente sono tanto il creditore opposto, quanto il terzo ritenuto responsabile.

Ora, nonostante la netta presa di posizione al riguardo da parte della Suprema Corte, molti giudici (sulla scorta della prevalente dottrina [38]) continuano a ritenere che una tale estensione automatica del contraddittorio al terzo sia valida, all’ovvia condizione che la fissazione di udienza sia rispettosa del termine a comparire anche con riguardo al terzo chiamato.

Al contrario, con orientamento consolidato e ribadito anche in tempi recentissimi, la Cassazione [39] evidenzia che in tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell'opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l'opponente quella di convenuto, ciò che esplica i suoi effetti non solo in tema di onere della prova, ma anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti. Ne consegue che il disposto dell'art. 269, che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con l'opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l'opponente citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento e non potendo le parti originariamente essere altre che il soggetto istante per l'ingiunzione e il soggetto nei cui confronti la domanda è diretta; per l’effetto, l'opponente deve necessariamente chiedere al giudice, con l'atto di opposizione, l'autorizzazione a chiamare in giudizio il terzo al quale ritenga comune la causa sulla base dell'esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto. Dunque la citazione diretta del terzo deve considerarsi nulla, sicchè l’allargamento del contraddittorio può fondarsi solo su un’autorizzazione del giudice data in prima udienza, dopo il vaglio discrezionale delle ragioni che giustificano il collegamento tra le posizioni soggettive.

Un’altra fattispecie di chiamata di terzo si realizza quando il creditore opposto, nel costituirsi in giudizio col deposito della comparsa di risposta, chiede al giudice (ex art. 269, 2° comma) lo spostamento dell’udienza (fissata dall’opponente) per citare il terzo; ciò che accade tipicamente, ad es., quando l’opponente allega che la sua vera controparte contrattuale non è il creditore opposto, sibbene un altro soggetto. Anche in questo caso, nonostante alcuni giudici spostino l’udienza, deve invece ritenersi che difettino le condizioni di applicazione dell’art. 269, 2° comma; va infatti ricordato che il creditore opposto è un attore in senso sostanziale, sicchè il parametro normativo di riferimento in tal caso va individuato nel 3° comma dell’art. 269. Ciò significa che, a fronte di un’istanza di spostamento dell’udienza contenuta nella comparsa di risposta del creditore opposto, il giudice dovrà provvedere con un diniego, rilevando che valuterà la sussistenza delle condizioni per la chiamata del terzo solo nel corso della prima udienza (art. 183, 5° comma).

Ancora, frequentemente il terzo chiamato, nel costituirsi in giudizio col deposito della comparsa, a sua volta intende chiamare in causa un ulteriore terzo (si pensi alle fattispecie di subcontratti o comunque di responsabilità contrattuale o aquiliana ascrivibile a più soggetti, talchè sorge l’esigenza di agire in regresso o manleva); anche in queste ipotesi viene spesso chiesto (erroneamente) lo spostamento di udienza ex art. 269, 2° comma, sicchè il giudice dovrà respingere l’istanza, evidenziando che la norma di riferimento in tal caso è l’art. 271 c.p.c. (che rimanda all’art. 269, 3° comma, già visto). Pertanto l’ulteriore chiamata sarà oggetto, ancora, di valutazione discrezionale del giudice in udienza.

 

 

11. L’estensione automatica al terzo della domanda attorea.

 

E’ pacifico in giurisprudenza [40] che qualora il convenuto, nell’eccepire il difetto della propria legittimazione passiva, chiami in causa un terzo indicandolo come il vero soggetto obbligato, si verifica l'estensione automatica della domanda attorea al terzo medesimo; ciò significa che il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza per questo incorrere nel vizio di extrapetizione. Se dunque il convenuto allega che la responsabilità ipotizzata dall’attore va ascritta in via esclusiva al terzo, a tale titolo evocato a giudizio, la domanda attorea si estende automaticamente al terzo, pur in mancanza di apposita ed espressa istanza. Ne consegue che, venendo in gioco una domanda risarcitoria automaticamente estesa, il giudice non può omettere la pronuncia condannatoria nei confronti del terzo, sul rilievo dell’assenza di un’esplicita ed autonoma domanda attorea.

Tale consolidato principio si fonda su esigenze di economia processuale e postula che si pervenga all’individuazione di un responsabile in relazione ad un rapporto che sia oggettivamente unico; su queste basi dunque si ritiene implicita, secondo un modello presuntivo, la domanda dell’attore nei confronti del terzo. La presunzione viene superata però quando le conclusioni formulate dall’attore abbiano un contenuto ed una portata tali da escludere l’automatismo in discorso; è dunque essenziale l’interpretazione della domanda formulata in concreto (ed in particolare delle conclusioni), per stabilire se la volontà attorea sia davvero quella di riferire l’affermazione di responsabilità al convenuto soltanto e non già al terzo [41].

Il principio dell'estensione automatica della domanda principale al terzo chiamato in causa dal convenuto, non opera però quando il terzo venga evocato in giudizio non già come unico responsabile, sibbene come obbligato solidale ovvero in garanzia (propria od impropria). In tal caso infatti il processo, quantunque unico, ha ad oggetto una pluralità di rapporti sostanziali autonomi; ne consegue che la condanna del terzo postula necessariamente la formulazione di un'espressa ed autonoma domanda da parte dell'attore [42].

Va però precisato – soprattutto alla luce delle affermazioni giurisprudenziali cit. in tema di responsabilità solidale -  che quando la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, la domanda risarcitoria deve intendersi estesa al terzo anche in mancanza di un'espressa dichiarazione in tal senso dell'attore, in quanto la diversità e pluralità delle condotte produttive dell'evento dannoso non dà luogo a diverse obbligazioni risarcitorie, con la conseguenza che la chiamata in causa del terzo non determina il mutamento dell'oggetto della domanda ma evidenzia esclusivamente una pluralità di autonome responsabilità riconducibili allo stesso titolo risarcitorio [43] .

12. La concessione dei termini ex art. 183, 6° comma, c.p.c.

 

E’ sostanzialmente pacifico, in sede interpretativa, che le parti richiedenti hanno diritto di ottenere la concessione dei termini in discorso, ciò che peraltro appare prima facie intuitivo, visto che il giudice non può sapere preventivamente sotto quali profili l’attività assertiva verrà in ipotesi integrata con le memorie a ciò destinate; è evidentemente inammissibile un sindacato preventivo del giudice sulle possibili modifiche che le parti intendono apportare all’impianto difensivo, talchè dunque devono essere consentite (negli ovvi limiti del codice di rito) le possibili “correzioni di tiro”, anche a prescindere dal meccanismo della reazione consequenziale rispetto alla difesa contrapposta (ius poenitendi).

Cionondimeno deve considerarsi che potrebbero emergere delle questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito tali da giustificare l’immediata rimessione in decisione della causa, alla nota condizione che il giudice (adeguatamente preparato nello studio del fascicolo) sia in grado di delibare la fondatezza o meno della questione medesima. Ora, quantunque si ritenga che anche in questi casi i termini ex art. 183, 6° comma, non potrebbero essere negati, non va dimenticato che l’art. 80 bis disp. att. c.p.c. legittima la rimessione della causa in decisione sin dalla prima udienza [44]; e va altresì rimarcato che di fatto la richiesta di concessione dei termini, magari a fronte per es. di un’eccezione di arbitrato da delibare nel senso della fondatezza, talvolta appare come un mero espediente dilatorio.

Ma si pensi anche al caso di un’opposizione a precetto in cui l’opponente, a fronte della prospettata esecuzione fondata su decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, svolga con l’atto introduttivo esclusivamente contestazioni di merito o processuali che devono necessariamente appartenere al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (la c.d. opposizione di merito all’esecuzione). Qui siamo al di fuori dell’ambito delle preliminari o pregiudiziali, ma nondimeno pare incongruente consentire la dilatazione del giudizio, sapendo che una tale opposizione andrà rigettata alla stregua dei consolidati principi sui limiti circa la possibilità di contestare con l’opposizione esecutiva i titoli giudiziali; né è plausibile che con la memoria di emendamento si possa pervenire ad una modifica dell’impianto assertivo tale da superare il radicale ostacolo giuridico in questione. Ora, non si tratta ovviamente di comprimere i poteri di difesa delle parti, ma di considerare che in concreto certe eccezioni (se delibate nel senso della fondatezza) escludono in radice, sul piano logico e giuridico, la possibile utilità per la parte controinteressata di un’integrazione della propria attività assertiva.

E’ certo vero che la giurisprudenza sanziona di nullità la sentenza emessa in esito ad un giudizio in cui fosse mancata la concessione dei termini “dovuti” secondo l’ordinaria sequenza procedimentale, ai fini dell’integrazione sia dell’attività assertiva, sia di quella di deduzione probatoria. Va però evidenziata la posizione assunta da ultimo dalla Cassazione, che ha sì affermato la nullità in casi del genere, ma a condizione che la violazione abbia concretamente determinato un concreto pregiudizio ai diritti della parte; chi in sede di gravame lamenti la mancata concessione di un certo termine (ad es. quello destinato all’integrazione delle allegazioni di fatto), non può semplicemente invocare la violazione normativa in sé, dovendo altresì spiegare (ad es. in caso di diniego del termine per integrare l’attività di allegazione dei fatti) quale sarebbe stato, diversamente, il thema decidendum costituente la base della pronuncia del giudice, e conseguentemente quali prove sarebbero state dedotte [45]. Siamo dunque di fronte ad una nullità potenzialmente “inoffensiva”, sicchè la scelta di negare i termini, quando davvero difettino le condizioni logico-giuridiche per ipotizzare un utile ampliamento del quadro assertivo, non deve generare l’ “automatico” timore che poi in sede di gravame la sentenza possa essere riformata per la violazione procedimentale.

In esito alla concessione dei termini, il giudice deve decidere sulle istanze istruttorie, stabilendo così se vi sono o meno le condizioni per assumere le prove costituende. Sul piano della prassi, va registrata una rilevante divaricazione, poiché da un canto vi sono giudici che assumono in riserva il procedimento immediatamente dopo il decorso del terzo termine, e d’altro canto vi sono (all’opposto) giudici che fissano un’udienza appositamente destinata al rilascio dell’ordinanza istruttoria. Alla stregua del diritto positivo e delle posizioni assunte sul punto dalla dottrina, deve pacificamente riconoscersi che entrambe le prassi sono corrette; si è osservato, in particolare, che alla stregua della lettera dell’art. 183, 7° comma (“se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza”), è senz’altro legittima l’alternativa tra le due scelte processuali [46].

Quanto alla decorrenza del triplice termine, diversi giudici (i quali fissano l’apposita udienza per la decisione sulle istanze istruttorie) provvedono al riguardo come se si trattasse di termini c.d. a ritroso, sicchè il giorno da cui calcolarli è quello dell’udienza successiva. Ciò accade tipicamente per le ripetute richieste degli avvocati, che di fronte a una fissazione dell’udienza molto in là nel tempo, segnalano l’ingiustizia sostanziale di dovere essere costretti a rispettare i brevi termini perentori di cui all’art. 183, 6° comma, per poi attendere un’udienza (desinata al rilascio dell’ordinanza istruttoria) che arriva dopo diversi mesi. Se l’esigenza sembra plausibile sul piano della ragionevolezza, nondimeno va rimarcato che un tale computo è difforme al diritto positivo, essendo evidente, ad una lineare lettura, che l’art. 183, 6° comma, non prevede certo un termine c.d. a ritroso – in cui il dies ad quem assume il ruolo di giorno iniziale, come per la costituzione del convenuto -, sibbene a decorrenza successiva; né il sistema autorizza il giudice ad individuare una decorrenza diversa da quella coincidente con l’udienza ex art. 183, la quale costituisce chiaramente il dies a quo per la sequenza 30 + 30 + 20. Per tale ragione anche la fissazione giudiziale di un dies a quo spostato in avanti nel tempo rispetto all’udienza (anche prescindendo cioè dal computo a ritroso) manca di basi normative.

 

 

13. La scelta di fissare udienza dopo la concessione dei termini ex art. 183, 6° comma: le (vantaggiose) ricadute organizzative.

 

La scelta in questione è molto rilevante anzitutto per l’organizzazione del lavoro del giudice. E’ infatti evidente che la c.d. riserva automatica dopo il decorso del terzo termine, qualora (come spesso accade) non sia intervenuto uno spostamento della prima udienza ex art. 168 bis, 5° comma, può costringere il magistrato a provvedere su di una quantità di fascicoli (non preventivamente controllata e quindi) incompatibile con il tempo necessario per una decisione sufficientemente meditata. Va ricordato infatti che una decisione sulle istanze istruttorie che possa definirsi seria è di regola assai impegnativa, salvo che si adotti la censurabile prassi lassista di largheggiare con superficialità nell’ammissione delle prove costituende, senza una puntuale conoscenza degli atti (secondo la risalente, reiterata e deprecabile “massima di esperienza” per cui è sempre meglio ammettere con larghezza le prove,  “chè tanto poi in sede decisoria c’è sempre modo di selezionare, nella massa, le risultanze istruttorie davvero rilevanti”; il risultato invero consiste tipicamente nella dilatazione a dismisura del fascicolo processuale, sicchè la decisione verrà presa dopo molto tempo, impiegato in logoranti e spesso inutili assunzioni istruttorie, magari non del tutto consapevoli). Basti ricordare, in proposito, la delicatezza e difficoltà del giudizio di rilevanza delle prove, il quale possiede sempre una intrinseca decisorietà, per cui il magistrato deve necessariamente anticipare quell’attività logica di individuazione ed interpretazione della norma che andrà poi ripetuta in sede decisoria [47]. L’impegno richiesto al riguardo, in qualche modo è qualitativamente assimilabile a quello richiesto per la sentenza, poiché per certi versi il giudice istruttore è costretto ad anticipare la decisione finale; infatti, l’individuazione dei fatti principali da utilizzare in sede decisoria, postula necessariamente la determinazione della fattispecie legale di riferimento, e a tale determinazione si perviene solo risolvendo da subito le questioni giuridiche connesse [48]. E’ chiaro pertanto che se si fa sul serio con l’ammissione delle prove, è necessario controllare preventivamente la quantità di procedimenti su cui settimanalmente dovrà provvedersi; in quest’ottica allora sembra preferibile la prassi della fissazione dell’udienza successiva, che consente al giudice di avere il costante e puntuale controllo del carico di lavoro in punto di emissione delle ordinanze istruttorie.

Ancora, a favore di tale scelta processuale si è giustamente rilevato che il confronto dialettico con le parti in udienza assicura al massimo grado l’attuazione del contraddittorio, particolarmente rilevante in vista della decisione sulle prove; in tal modo infatti il giudice, sollecitando gli avvocati a fornire i necessari chiarimenti o magari a spiegare meglio le ragioni della rilevanza di determinate prove, si pone in condizione di assumere una decisione più ponderata [49]. L’udienza inoltre è l’occasione privilegiata affinché le parti possano sollevare le eccezioni del caso in rapporto alle rispettive memorie inerenti alla prova contraria, sia con riguardo ad es. alla tardività di deposito, sia con riguardo alla ammissibilità e congruenza delle deduzioni istruttorie ivi contenute; e anche sotto questi specifici profili si prevengono istanze successive che costringerebbero il magistrato a ridiscutere, necessariamente in altra udienza, il provvedimento istruttorio viziato per le manchevolezze relative alle memorie a prova contraria.

14. Il divieto di decisioni c.d. “a sorpresa”.

 

La riforma del 2009 ha posto fine all’importante contrasto interpretativo, apertosi da tempo in merito alle conseguenze della mancata attivazione del contraddittorio da parte del giudice, circa le questioni rilevabili d’ufficio poi poste a fondamento della decisione. Da un canto la Cassazione in diverse pronunce [50] giudicava nulle le sentenze fondate sulla soluzione di questioni rimaste estranee al contraddittorio e al dibattito processuale, d’altro canto, in diverse altre pronunce, rilevava l’assenza nell’ordinamento di una esplicita sanzione di nullità per questo genere di fattispecie [51]; lo stesso contrasto si riproduceva inoltre in sede dottrinale. Ora il nuovo secondo comma dell’art. 101 sancisce esplicitamente la nullità delle sentenze che, in quanto emesse sulla scorta di valutazioni e rilievi mai prima affrontati dalle parti nell’ambito della discussione processuale, vengono variamente descritte in dottrina come decisioni c.d. “a sorpresa” o della “terza via”.

Con riguardo alla fase processuale in cui rileva l’applicazione dell’art. 101, 2° comma, deve ipotizzarsi che la questione segnalata alle parti dal giudice sia rimasta estranea al dibattito processuale fino al momento in cui la causa è stata rimessa in decisione, ovvero fino alla discussione orale; diversamente, infatti, le parti potrebbero affrontare la questione stessa con le comparse conclusionali ovvero con le memorie di replica [52]. Pertanto l’attivazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 101 può ben essere considerato alla stregua di un rimedio tardivo alla elusione dell’art. 183, 4° comma[53], ovviamente nei casi in cui la questione fosse emersa già all’udienza di trattazione, in cui il giudice ha il dovere di indicare le questioni rilevabili d’ufficio [54]. Si tratta insomma, per l’art. 101, di una norma di garanzia [55], diretta ad assicurare la tutela del diritto di difesa delle parti per l’ipotesi in cui il giudice non si sia accorto della questione né in prima udienza, né in occasione della fissazione di thema decidendum e thema probandum, né infine durante o all’esito dell’assunzione delle prove costituende. Che si tratti di uno “strumento di chiusura”, come efficacemente osservato, si ricava peraltro dallo stesso testo normativo, laddove viene utilizzata l’espressione “il giudice riserva la decisione”; ciò che denota come tutte le questioni rilevabili d’ufficio prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni e rimessione della causa in decisione, rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 183, 4° comma [56]. E d’altronde la stessa giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che il principio posto da tale norma opera per tutto lo svolgimento del processo, quantunque la norma in sé riguardi l’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c.[57]

Naturalmente però non ha senso parlare di tardività del rilievo giudiziale quando, come pure accade, la questione da sottoporre alla dialettica processuale delle parti emerga durante lo svolgimento dell’istruzione probatoria (ed es. in ragione delle risultanze della c.t.u., come si vedrà infra), ovvero in sede decisoria, analizzando le deduzioni difensive contenute nelle comparse conclusionali e memorie di replica.

 

 

14.1. Le questioni rilevabili d’ufficio alla luce del nuovo art. 101, 2° comma, c.p.c.

 

Per cogliere l’essenza del problema, è necessario anzitutto avere riguardo a quei fatti che, pur non essendo invocati dalle parti ma comunque emergendo dagli atti processuali, sono ritenuti rilevanti dal giudice ai fini della decisione. Si tratta di fatti che, sino alla rilevazione da parte del giudice che li valorizza a fini decisori nonostante il “disinteresse” delle parti su di essi [58], restano fino ad allora “silenti” o “inerti” nello svolgimento del giudizio [59]. E può trattarsi di una rilevanza diretta ovvero indiretta, come quando venga un gioco un fatto secondario, il quale, come noto, costituisce il dato di partenza per il ragionamento inferenziale che connota la prova presuntiva.

Un fatto di tal genere può confluire nel giudizio magari perchè risulta da un documento prodotto in causa, oppure perché viene sì indicato dalla parte, la quale però non vi attribuisce alcun rilievo in rapporto alla difesa dispiegata nel giudizio. Può ulteriormente accadere che determinati fatti siano valorizzati dal giudice non su iniziativa delle parti, ma semplicemente perché emergono dalle risultanze delle prove orali, dalle risposte in sede di interrogatorio libero o dalla relazione del c.t.u., o magari perché si tratta di fatti notori.

Si pensi per esempio [60] alla deduzione in giudizio della garanzia per vizi nell’appalto (art. 1667 c.c.), in una causa promossa dal committente contro l’appaltatore e progettista-direttore dei lavori, nella quale il thema decidendum attiene esclusivamente alla contestazione circa l’inesatta attuazione del progetto; e si immagini che dalla c.t.u. emerga come la vera causa tecnica delle deficienze strutturali dell’immobile appaltato non va rinvenuta nell’inesatta attuazione del progetto, sibbene nell’imperizia insita nel progetto stesso, che non aveva adeguatamente valutato le caratteristiche del terreno su cui doveva sorgere l’immobile. Ancora, potrebbe accadere che uno dei documenti prodotti in giudizio e relativi ai pagamenti intervenuti nell’ambito di un complesso rapporto di fornitura commerciale, abbia una portata tale da giustificare la sussistenza degli estremi di una quietanza, mentre di ciò il debitore convenuto non si era neppure avveduto.

Deve essere ben chiaro come questo arricchimento successivo del tema cognitivo non possa includere i fatti costitutivi che individuano il diritto dedotto in giudizio (perché diversamente il giudice fisserebbe addirittura l’oggetto del processo), né i fatti da dedurre con le eccezioni in senso stretto, riservate esclusivamente alla parte; vanno pertanto esclusi quei fatti la cui efficacia nel processo è necessariamente condizionata all’esercizio di un potere riservato esclusivamente alla parte [61].

La questione rilevata dal giudice può inerire non già a fatti, ma a norme, talchè la sollecitazione del contraddittorio interessa profili esclusivamente giuridici; si ha in questo caso una questione di diritto, la quale è relativa all’individuazione e all’interpretazione della norma giuridica sotto cui sussumere la fattispecie concreta dedotta in giudizio [62]. Può dunque accadere, in concreto, che secondo il giudice la corretta impostazione giuridica della lite sia difforme da quella sin lì dibattuta dalle parti; e tale difformità può riguardare sia il diritto sostanziale da applicare alla fattispecie dedotta in giudizio (talchè il magistrato ne ipotizza una qualificazione giuridica affatto divergente dalle prospettazioni di parte), sia il diritto processuale.

Si pensi, partendo proprio dalla rilevazione di una questione giuridica processuale, all’ipotesi in cui l’attore si avvalga del rito sommario di cognizione (art. 702 bis) per azionare un diritto fondato su un contratto di locazione, senza che il convenuto eccepisca alcunché sul piano processuale. In un caso del genere potrebbe ben accadere che il giudice, alla luce dell’orientamento interpretativo secondo cui il rito sommario non è utilizzabile nelle ipotesi per le quali è previsto il rito locatizio, ritenga plausibile la definizione in rito del procedimento sommario, sul rilievo che deve applicarsi il rito locatizio. Ora, è ben vero che nel nostro ordinamento iura novit curia, sicchè conclusivamente la qualificazione giuridica della fattispecie compete al giudice; questi però, in applicazione dell’art. 101, 2° comma, non può adottare una decisione a sorpresa, con la quale cioè venga data una soluzione giuridica affatto diversa da quelle possibili secondo le ricostruzioni giuridiche contenute negli atti difensivi.

Si pensi al caso in cui il giudice ritenga di qualificare come aquiliana una fattispecie di responsabilità risarcitoria, in relazione alla quale le difese delle parti si erano esplicate sul presupposto che si trattasse esclusivamente di responsabilità contrattuale. Ancora, il giudice potrebbe ritenere che, in relazione ad un’ipotesi di responsabilità della P.A. per danno ricollegabile alla conformazione di una strada, il regime probatorio concretamente rilevante sia quello ex art. 2043 c.c. (che postula tipicamente l’impossibilità di custodia) e non ex 2051 c.c., come invece avevano concordemente ritenuto le parti in causa. Altra tipica questione di diritto suscettibile di rilievo officioso, è quella relativa alla legittimazione ad agire, che il giudice ritenga insussistente pur in mancanza di eccezione di parte. Si immagini poi che il giudice rilevi la nullità del contratto costitutivo della servitù, a tutela della quale è stata esercitata un’azione confessoria (art. 1079 c.c.); tale rilievo può plausibilmente giustificare la scelta dell’attore di porre a fondamento della domanda non più il contratto, ma l’usucapione della servitù stessa, talchè si rende necessaria un’impostazione difensiva completamente nuova. con la conseguente necessità di spendere poteri di allegazione e deduzione istruttoria [63].

Va peraltro precisato [64] che la distinzione tra questioni di fatto e di diritto di regola rileva solo dopo la provocazione del contraddittorio da parte del giudice, poiché a fronte di una medesima rilevazione del giudice, la parte interessata potrebbe difendere la sua posizione sostanziale solo argomentando in termini giuridici – ed allora si tratta di questione di diritto -, ovvero svolgendo nuove allegazioni in fatto con le correlate istanze istruttorie.

La portata del significato da attribuire all’espressione “questioni rilevabili d’ufficio” muta poi, in senso più o meno restrittivo, a seconda degli orientamenti interpretativi sinora formatisi al riguardo. Vi è chi osserva [65] che di questione rilevante ai sensi dell’art. 101, 2° comma, deve parlarsi soltanto quando la questione medesima rientri nell’ambito applicativo dell’art. 279, 2° comma, nn. 1, 2, 3 e 4. Si tratterebbe dunque, come spiegato da questa autorevole dottrina, delle questioni litis ingressum impedientes, idonee a provocare la definizione del giudizio in rito, ed anche di quelle di merito inerenti all’esistenza o inesistenza di un fatto costitutivo, estintivo, impeditivo o modificativo del diritto fatto valere in giudizio. Secondo tale prospettazione, pertanto, il giudice non ha l’obbligo di segnalazione alle parti di una questione già affrontata dalle parti stesse, ma alla quale il giudice intenda attribuire una soluzione giuridica differente e originale; e l’adozione di una soluzione giuridica estrinseca rispetto ai termini del dibattito processuale si giustifica facendo una lineare applicazione del principio iura novit curia. Il divieto della terza via non dovrebbe inoltre operare con riguardo ai provvedimenti ordinatori, che pure siano effetto della risoluzione di questioni processuali rilevabili d’ufficio, come accade in caso di ordine di integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 [66].

Sempre su questa linea - per cui l’ambito delle questioni rilevabili d’ufficio viene fatto coincidere con quello delle questioni pregiudiziali di rito (ad es. nullità della domanda principale ovvero riconvenzionale, questione di giurisdizione ovvero competenza) e preliminari di merito (v. supra) -, si evidenzia [67] che potrebbero altresì porsi questioni pregiudiziali di merito; si tratta cioè dell’accertamento di rapporti giuridici pregiudiziali o incompatibili con quello dedotto in giudizio. E si fa proprio l’esempio (assai emblematico per questo tema) del rilievo officioso di nullità del contratto dedotto in giudizio per azionare il diritto all’adempimento della prestazione con esso pattuita. Ora, un tale rilievo potrebbe fondare l’interesse attoreo a conseguire un accertamento con efficacia di giudicato (ex art. 34) dell’insussistenza della nullità, così da poter impedire alla controparte di contestare in altre sedi giudiziarie la validità (sotto il profilo controverso) del contratto medesimo. Poiché però la domanda avanzata ex art. 34 ha comunque carattere di novità, talchè è proponibile di regola solo all’udienza ex art. 183, si pone il problema di conciliare tale scansione processuale col rilievo officioso che sia tardivo; e al riguardo si osserva ragionevolmente che la ratio della nuova norma dovrebbe giustificare il superamento dello sbarramento processuale relativo alle domande nuove, quando l’interesse a proporle si fondi proprio sul rilievo tardivo della questione pregiudiziale di merito.

Altra dottrina, poi, arriva finanche ad ipotizzare l’obbligo di provocazione del contraddittorio per le risultanze istruttorie non appartenenti alla categoria delle prove storiche, talchè il giudice avrebbe l’obbligo di segnalare anche l’eventuale utilizzo in decisione delle presunzioni e degli argomenti di prova [68]. Seconda questa tesi, poiché le prove presuntive vengono in evidenza e si manifestano solo in sede decisoria, allorchè il giudice opera la necessaria inferenza logica partendo da un qualsiasi fatto secondario ritenuto idoneo allo scopo, la parte se ne potrà accorgere solo a decisione già presa, senza aver potuto interloquire ad es. sull’attendibilità della massima di esperienza utilizzata; anche dell’utilizzo degli argomenti di prova la parte avrà contezza solo dopo l’istruttoria, giacchè vi è la facoltà, e non già l’obbligo, di porre a fondamento della decisione le condotte di cui all’art. 116, 2° comma. La questione dunque inerisce all’efficacia probatoria da attribuire ad uno strumento di accertamento del fatto che viene in evidenza solo al momento della decisione.

 

 

14.2. La dinamica processuale e gli effetti della rilevazione delle questioni.

 

Quanto alle modalità pratiche di rilevazione della questione, il giudice non dovrà ovviamente manifestare un fermo convincimento circa la nuova ipotesi decisoria, magari sostenendo, ad es., che di certo il contratto dedotto in giudizio è nullo [69]. Rilevare una questione significa indicare alle parti che ai fini della decisione è altresì plausibile una qualificazione della fattispecie, o comunque una soluzione giuridica ed interpretativa differente da quella oggetto del dibattito processuale sin lì svoltosi; il giudice deve arricchire tale dibattito di questa nuova prospettiva decisoria, non certo anticipare il giudizio [70]. Il fermo convincimento del magistrato circa la congruenza di una determinata soluzione giuridica (mai prima ipotizzata dalle parti), lo porterà conseguentemente a fondare la decisione su di essa; prima, però, va comunque sollecitato il contraddittorio, in modo da illustrare detto convincimento in termini di possibile ulteriore soluzione, e non di anticipazione del giudizio.

Ora, bisogna chiaramente differenziare il contenuto concreto delle facoltà processuali da riconoscere alle parti in esito al rilievo officioso della questione da parte del giudice; il diritto di difesa delle parti, cioè, può esplicarsi diversamente a seconda che la questione rilevata d’ufficio renda rilevanti o meno dei fatti nuovi e diversi rispetto a quelli considerati nel processo fino a quel momento. In concreto può accadere che la sollecitazione del contraddittorio operata dal magistrato nel segnalare la questione, induca le parti ad argomentare soltanto sul piano logico e giuridico, in modo da difendere adeguatamente la rispettiva posizione alla luce della nuova soluzione giuridica prospettata dal magistrato; in tal caso di regola è sufficiente un riesame dei fatti allegati in causa. Ma l’interessato, a fronte del rilievo del giudice, può avere la necessità di allegare fatti nuovi e diversi, con le conseguenti richieste istruttorie; la parte, cioè, per difendere la sua posizione sostanziale in esito al rilievo della questione, può avere la necessità di introdurre nel processo nuovi fatti per la prova dei quali è ovviamente consentita sia la produzione di documenti, sia la richiesta di prove costituende [71].

Se per esempio [72] il giudice rileva d’ufficio la nullità di una clausola contrattuale perché vessatoria ai sensi del codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005), il professionista interessato ad affermarne la validità ed efficacia può allegare la circostanza (nuova) che la clausola aveva formato oggetto di specifica contrattazione - infatti ai sensi dell’art. 34, 4° comma, d.lgs. cit., “non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale” -;  il professionista potrebbe altresì confutare la tesi della nullità allegando il fatto (nuovo) che la sua controparte negoziale non aveva contrattato in qualità di consumatore, sibbene di professionista (così affermando, ad es., che il computer acquistato dall’avvocato era destinato all’installazione nello studio legale, e non a casa). Ancora, riprendendo l’esempio del rilievo di nullità del contratto costitutivo di una servitù di passaggio, la nuova impostazione della difesa attorea che intenda dimostrare l’usucapione della servitù, comporterà naturalmente l’allegazione delle circostanze di fatto relative, con le conseguenti istanze istruttorie (una c.t.u. dimostrativa dell’apparenza, la prova testimoniale sull’effettività del passaggio ecc.). E anche nel caso, pure già esaminato, in cui la c.t.u. inerente ai vizi dell’appalto dimostri che la responsabilità sul piano tecnico è ascrivibile al contenuto del progetto, a fronte del rilievo del giudice (il quale intenda valorizzare questo nuovo dato) il professionista per difendersi avrà diritto di fornire le necessarie prove a discolpa. Va detto poi che la nuova allegazione indotta dalla provocazione giudiziale del contraddittorio, potrebbe inoltre riguardare anche fatti concorrenti rispetto a quelli allegati in via principale a fondamento della pretesa avanzata in giudizio [73].

E’ subito evidente che quando il rilievo della questione rende necessaria l’ulteriore trattazione del giudizio, con le relative novità in punto di allegazioni e prove, si determina tipicamente un contrasto tra il principio del contraddittorio e quello di preclusione, cui pure è ispirato l’attuale modello processuale. Deve convenirsi, al riguardo, sulla prevalenza dell’indefettibile esigenza di tutela del contraddittorio, talchè ciascuna parte deve poter comunque spendere i necessari poteri processuali in relazione al rilievo fatto dal giudice; e deve poterlo fare a prescindere dalla maturazione delle preclusioni e dalla necessità di rimessione in termini, proprio perché l’iniziativa del giudice deve inderogabilmente consentire l’operatività del principio del contraddittorio [74].

Quanto agli ulteriori riflessi processuali, quando in sede decisoria la questione rilevata d’ufficio rende a sua volta rilevanti fatti nuovi, il giudice dovrà rimettere la causa in istruttoria, per consentire se del caso la formazione del nuovo thema decidendum e del conseguente thema probandum, ovvero soltanto l’elaborazione degli argomenti logici e giuridici consequenziali; come visto, infatti, di regola al momento del rilievo della questione il giudice non sa quali saranno le conseguenti scelte processuali delle parti.

Quando il rilievo officioso della questione avviene all’udienza dell’art. 183, è congruente che le conseguenti osservazioni delle parti siano contenute nelle memorie ex art. 183, 6° comma, n. 1 [75]. E’ infatti conforme a logica ed economia processuale che dette memorie, seppure destinate istituzionalmente alle c.d. emendationes libelli, possano altresì assolvere questa ulteriore funzione; diversamente si avrebbe una inutile duplicazione di atti difensivi, in una fase processuale – appunto l’udienza dell’art. 183 c.p.c. – all’esito della quale tipicamente le parti domandano il termine per depositare le memorie c.d. di emendamento.

E’ ben possibile inoltre che la questione venga rilevata dal giudice all’atto di ammissione delle prove costituende, e tipicamente dopo il deposito delle tre memorie di cui all’art. 183, 6° comma, nn. 1, 2 e 3, quando sono compiutamente fissati sia il thema decidendum sia il thema probandum. In questo caso pertanto il magistrato concederà alle parti il termine per le memorie di cui all’art. 101, 2° comma, le quali presenteranno (come al solito) il contenuto conseguente alla portata della questione rilevata dal giudice.

Sempre in omaggio al fondamentale principio del contraddittorio, la dottrina ha anche auspicato che, con riferimento alle ipotesi di nuove allegazioni e prove indotte dal rilievo del giudice, il novellato art. 101 venga interpretato nel senso di autorizzare la concessione di due termini alle parti; ciò per l’esigenza di consentire l’articolazione delle necessarie difese sul piano della replica, con la conseguente deduzione delle relative prove contrarie [76].

E’ dunque evidente che l’esercizio del potere-dovere di indicare le questioni rilevabili d’ufficio sin dall’udienza dell’art. 183 c.p.c., postula che il magistrato abbia studiato il fascicolo processuale anteriormente alla prima udienza; ciò che realisticamente non accade ancora con la necessaria frequenza. Perciò non deve stupire troppo se anche in testi giuridici istituzionali capita di leggere osservazioni amare e fortemente critiche verso alcune prassi giudiziarie censurabili: si consideri, ad es., il radicale scetticismo di certa dottrina, la quale addirittura paventa che l’elusione sistematica della norma in questione non sarà impedita neppure dalla previsione espressa di nullità [77]. E’ evidente infatti che la disattenzione del giudice nel rilevare questioni di cui si avvede solo successivamente, in sede decisoria, può determinare un notevole appesantimento del processo, con riapertura dell’istruzione probatoria quando, come visto, la questione nuova giustifica un’integrazione del thema decidendum e del thema probandum. Va giustamente sottolineato pertanto che l’applicazione diretta dell’art. 101, 2° comma, evidenziando una tardiva attivazione del contraddittorio, dovrebbe essere eccezionale, in ragione dei rilevanti costi che comporta in termini di durata [78].

 

 

14.3. Violazione del divieto di decisioni c.d. “della terza via”: nullità “inoffensive” e profili disciplinari.

L’art. 101, 2° comma statuisce chiaramente, e senza eccezioni di sorta, che le sentenze c.d. “della terza via” sono nulle; infatti la provocazione del contraddittorio sulla questione rilevata officiosamente è esplicitamente imposta al giudice “a pena di nullità”. Si tratta però di verificare se tale vizio basti di per sé a giustificare ad es. l’accoglimento dell’appello contro la sentenza emessa sulla base di rilievi sottratti alla dialettica processuale del primo grado, ovvero se una tale violazione del contraddittorio debba presentare un quid pluris sul piano della lesività in concreto.

La Cassazione a Sezioni Unite ha preso chiaramente posizione al riguardo, quantunque la nuova norma non fosse ovviamente applicabile per ragioni temporali alla fattispecie concretamente esaminata (ma non cambia nulla ai fini che qui interessano); essa ha chiaramente escluso che la mancata attuazione del contraddittorio integri per sé sola, a prescindere cioè da una concreta compromissione dell’attività difensiva delle parti, un vizio della sentenza suscettibile di denuncia in fase di gravame. Viene escluso ogni automatismo al riguardo, talchè l’errore del giudice diventa rilevante (ovviamente in sede di gravame) solo se ricorre altresì una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa [79].

Si è conseguentemente osservato che quando l’interessato non ricolleghi al mancato contraddittorio un contenuto e uno scopo reale, si realizza così una fattispecie di sanatoria della nullità. L’invalidità della sentenza, cioè, viene sanata quando dall’impugnazione emerga che se anche il contraddittorio fosse stato provocato in primo grado, il medesimo si sarebbe rivelato conclusivamente inutile perché privo di scopo e contenuto sostanziale. Ciò significa per es. che la parte appellante deve dimostrare l’effettività e concretezza della lesione subita con riguardo alle sue prerogative processuali, indicando e illustrando quale attività assertiva e/o di deduzione probatoria avrebbe altrimenti utilmente svolto, in vista di una verosimilmente diversa soluzione della questione. Si fa questione pertanto di causalità del vizio in termini di concreto pregiudizio per la parte soccombente, la quale è onerata di dimostrare l’effettiva lesione del proprio diritto di difesa; il che val quando dire che l’impugnante deve indicare con una certa precisione quale attività di trattazione o istruzione gli sia stata concretamente preclusa, e mostrarne la virtuale fruttuosità [80].

Le conseguenze della possibile omissione del magistrato al riguardo, ineriscono non solo agli effetti giuridici, che come visto possono essere conclusivamente inconsistenti, ma altresì alla possibile responsabilità disciplinare. Sul punto la Cassazione sembra assai perentoria, talchè è opportuno prestare una certa attenzione in quest’ottica: basti considerare che anche nelle pronunce in cui viene negata (ovviamente ante riforma) l’invalidità delle sentenze c.d. “a sorpresa”, si dà comunque per scontato che ricorra una violazione deontologica del giudice che abbia omesso di provocare il contraddittorio. Si consideri, ad es., la fattispecie in cui la Suprema Corte, pur avendo negato la nullità della sentenza in un caso in cui il giudice aveva esaminato d'ufficio una questione di puro diritto, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l'apertura della discussione, nondimeno ha ritenuto che ricorresse pacificamente una violazione deontologica da parte del magistrato [81]. Ora, se si considera che attualmente la nullità della sentenza c.d. “della terza via” è sancita espressamente dal legislatore, a maggior ragione deve prestarsi attenzione ai profili disciplinari. Sembra comunque ragionevole ritenere che una tale responsabilità non possa legittimamente ascriversi in ragione del singolo episodio, quanto piuttosto nei casi in cui la violazione rifletta un certo modo distorto di lavorare: si dovrebbe trattare cioè del giudice che, magari spinto a forzature interpretative per fini marcatamente deflattivi (v. supra), adotti con una discreta sistematicità decisioni affatto estranee al dibattito processuale.

 

dott. Lucio Munaro

giudice del Tribunale di Treviso

 

 

 

_______________________________

Testo scritto della relazione svolta alla prima settimana di studio relativa al tirocinio ordinario in materia civile riservata ai magistrati nominati con d.m. 5.8.2010, Roma 21 – 25 febbraio 2011

 

 


[1] Questa la ferma linea seguita dalla giurisprudenza di legittimità: per tutte, Cass. n. 18783/2009, la quale evidenzia che il petitum può dunque rinvenirsi anche“nella parte espositiva e non necessariamente in quella destinata a riportare le conclusioni”.

[2] Cass. n. 15299/2005, nell’applicare il generale principio di conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.) ad una domanda giudiziale di riassunzione, in motivazione ha spiegato, rifacendosi peraltro ad altre pronunce di legittimità, che “È invero da affermare che le disposizioni previste per l'interpretazione dei contratti hanno per oggetto dichiarazioni di volontà dirette a conseguire effetti giuridici normativamente tutelati; e, poiché anche la domanda giudiziale è dichiarazione di volontà diretta alla produzione di effetti giuridici tutelati dall'ordinamento (Cass. 10 ottobre 1997 n. 9875), il suo contenuto è definibile anche attraverso l'applicazione (in via di proiezione analogica) delle regole di ermeneutica contrattuale (Cass. 27 gennaio 1999 n. 719). Ed in particolare, il generale principio di conservazione degli atti giuridici (e specificamente l'art. 1367 cod. civ., ritenuto applicabile anche in materia testamentaria - Cass. 24 giugno 1974 n. 1902 - ed in materia di atti amministrativi - Cass. 22 novembre 1984 n. 6020), che per il suo fondamento (consentire alla volontà di conseguire, pur nell'invalidità dell'atto, un effetto giuridico, nella misura corrispondente alla validità) trascende lo spazio negoziale, è ben applicabile, come ritenuto dalla sentenza impugnata, alla domanda giudiziale di riassunzione".

[3] Cass. n. 4754/2004, per contro, afferma che ai fini dell'interpretazione della domanda giudiziale - che comunque costituisce un apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice del merito - non sono applicabili i criteri ermeneutici dettati in campo contrattuale dall'art. 1362 c.c. poiché non esiste una comune intenzione delle parti da individuare, ma soprattutto perché, quale che sia la soggettiva intenzione della parte, uno dei fondamenti della regola di corrispondenza tra chiesto e pronunciato posta dall'art. 112 c.p.c. deve essere individuato nel rispetto del principio del contraddittorio, garantito solo dalla possibilità per il convenuto di cogliere l'effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti e di svolgere dunque una effettiva difesa (Cass. 06/07/2001, n. 9208)”.

[4] Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, I, Padova 2009, 373. Si tratta comunque di posizione ampiamente condivisa in sede dottrinale.

[5] In tal senso Cass. n. 17023/2003, la quale in motivazione afferma che l'identificazione dell'oggetto della domanda va operata avendo riguardo all'insieme delle indicazioni contenute nell'atto di citazione e dei documenti ad esso allegati”.

[6] In tal senso Cass. n. 29241/2008, la quale, in relazione ad una fattispecie di deduzione in giudizio di un diritto eterodeterminato, in motivazione afferma che “vertendo su diritti di credito vale a dire su diritti cosiddetti eterodeterminati, richiede l'esatta individuazione del ‘petitum’ e della ‘causa petendi’ attraverso una corretta ed esaustiva esposizione dei fatti posti a sostegno della domanda - La ‘ratio’ della norma è evidente, risiedendo nell'esigenza di porre il convenuto nella necessità di apprestare le proprie difese sulla base del contenuto dell'atto di citazione, prima ancora della produzione documentale da parte dell'attore che avviene successivamente, ai sensi dell'art. 165 c.p.c., al momento della sua costituzione con finalità meramente probatorie”.

[7] Cass. S.U. n. 2435/2008 ricorda che deve ribadirsi - in conformità, del resto, ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice - che il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte, interessata, ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di controdedurre e per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (cfr. Cass. 16 agosto 1990, n. 8304). Poiché nel vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall'iniziativa della parte e dall'obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei limiti delle domande delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti comunque esistenti in atti determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove queste non siano specificate nella domanda, o - comunque - sollecitate dalla parte interessata (cfr. Cass. 12 febbraio 1994, n. 1419; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1385. Nel senso che perché il giudice possa e debba esaminare documenti versati in atti lo stesso deve accertare, oltre la ritualità della produzione, cioè verificare che la produzione stessa sia avvenuta nel rispetto delle regole del contraddittorio, anche la esistenza di una domanda, o di una eccezione, espressamente basata su quei documenti, Cass. 22 novembre 2000, n. 15103, specie in motivazione)”.

[8] Condivisibile il rilievo di Graziosi C., Fase introduttiva del giudizio, relazione all’incontro di studio “Seconda settimana di studio relativa al tirocinio ordinario per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con d.m. 6 dicembre 2007”, Roma, 5 – 9 maggio 2008, la quale osserva che la durata dei termini di comparizione “è stata scelta dal legislatore come unità di misura temporale per un contraddittorio effettivo, e non formale: convocare le parti per una udienza anteriore al decorso di tali termini realizza, invece, un contraddittorio non conforme alla valutazione legislativa”.

[9] Arieta, Trattato di diritto processuale civile. Le tutele sommarie. X, Padova 2010, 237 ss., afferma infatti che in sede di sospensione della provvisoria esecutività ex art. 649, “al giudice dell’opposizione sono attribuiti poteri sommari non cautelari”.

[10] Favorevole a tale prassi, tra gli altri, Conte, Codice di procedura civile commentato (diretto da Consolo), III, Milano 2010, 113.

[11] Cass. n. 5904/2005 chiarisce infatti che “se è vero che la costituzione nel procedimento cautelare non può valere certamente, sic et simpliciter, come costituzione nel giudizio di merito, non può tuttavia escludersi che le due costituzioni intervengano in un unico atto qualora la parte abbia in tale unico atto compiutamente preso posizione rispetto ad entrambi i giudizi.
Nella specie, dalla lettura della costituzione in sede cautelare, risulta che la parte si è difesa compiutamente anche in relazione al giudizio di merito”.

[12] In tal senso, Cass. n. 1935/2003 e Cass. n. 13746/2002.

[13] Sulla netta distinzione tra le due ipotesi v. Cass. n. 13746/2002.

[14] L’esplicita affermazione, con riguardo al termine di 5 giorni, si trova in Cass. n. 16526/2003.

[15] Criscuolo M., Le verifiche e i controlli preliminari della fase introduttiva, relazione all’incontro di studio “Il punto sul rito civile”, Roma, 13 – 15 marzo 2006; Graziosi C., Fase introduttiva del giudizio, cit.

[16] Per tutte, Cass. n. 4598/2006, nella quale si spiega chiaramente che ai fini della identificazione della ‘causa petendi’, posta dalla parte a base della domanda, non rilevano tanto le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio, bensì l'insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta”.

[17] Questa l’attenta analisi di Ricci G.F., Diritto processuale civile, II, Torino 2009, 7, il quale osserva che la previsione della nullità della domanda per mancata indicazione dei fatti (artt. 163, 3° comma, n. 4 e 164, 4° comma, c.p.c.) costituisce la necessaria conseguenza della creazione di un processo civile con preclusioni; e rileva, a conferma della sua ricostruzione, che prima della riforma del ’90 la carenza di allegazione circa i fatti non determinava la nullità dell’atto introduttivo, ma tutt’al più il rigetto della domanda nel merito.

[18] Cass. n. 7878/2000 precisa infatti che la attività di allegazione non si soddisfa nella affermazione di un fatto generico, ma comporta l'individuazione di un fatto specifico”.

[19] Si veda, ad es., Cass. n. 14581/2007, la quale in motivazione ha ben chiarito che le allegazioni di fatto devono avere luogo al massimo entro il termine ultimo entro il quale nel processo di primo grado si determina definitivamente il thema decidendum … e probandum, e cioè entro la prima udienza di trattazione ovvero entro il termine perentorio eventualmente fissato dal giudice ex art. 183 cit. ‘...per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell'altra parte....’ e ‘...per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime...’ (tale principio di diritto è stato così esposto con riferimento all'art. 183 cit. non novellato in quanto è questo quello applicabile nella causa in esame; il medesimo principio vale però anche con riferimento all'art. 183 novellato che prevede un termine perentorio per fini corrispondenti)”. Tale pronuncia, in linea peraltro con la prevalente giurisprudenza (che appunto limita in tal senso lo svolgimento dell’attività assertiva), si pone in continuità con diverse altre precedenti pronunce, tra cui Cass. n. 9323/2004, la quale in motivazione rimarca nitidamente il confine tra attività di deduzione dei fatti e deduzione probatoria, osservando che “le richieste istruttorie dirette a provare le circostanze di fatto rilevanti secondo il rispettivo onere probatorio” vanno fatte sulla base del thema decidendum così fissato, e cioè “con la chiusura dell'udienza di prima trattazione o alla scadenza dei termini di cui al quinto comma dell'art. 183 c.p.c.” (si trattava ovviamente di fattispecie dedotta in giudizio secondo il “penultimo” rito, in cui il completamento dell’attività assertiva coincideva con le memorie ex art. 183, 5° comma). Si veda anche, in precedenza e sempre sulla stessa linea interpretativa, Cass. n. 4376/2000.  

[20] Così Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari 2010, 63, il quale pertanto conclude nel senso che la preclusione (implicitamente) desumibile dall’art. 183 riguarda solo l’allegazione di nuovi fatti principali implicanti la proposizione di domande o eccezioni (in senso stretto) nuove, oppure la modifica (emendatio) di quelle (compiutamente e validamente già proposte.

[21] Monteleone, Diritto processuale civile, Padova 2002, prefazione: “L’Italia è l’unica nazione … in cui le cause si fanno non per essere decise, ma per essere istruite anche quando non ve n’è alcun bisogno ! Tanto che potrebbe profilarsi un grave conflitto di attribuzioni, se il Ministero di Grazia e Giustizia rivendicasse a sé con buon diritto il titolo di Ministero della Pubblica Istruzione”.

[22] Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino 2010, 45 ss.

[23] Molto chiaro sul punto Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 2009, 141 ss., il quale sottolinea che “Non è quindi sufficiente, perché sussista l’errore di fatto, dimostrare che la realtà storica è diversa da quella confessata … Occorre cioè dimostrare che, quando è stata resa la confessione, la volontà di chi l’ha resa era diretta a dichiarare certi fatti, e ne sono stati dichiarati altri”; la dinamica concreta pertanto è quella dell’errore ostativo, sicchè la revoca è ammessa quando “volevo dire 1000 e ho detto 100; volevo scrivere 10 e ho scritto 1000, etc.”.

Così anche Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, cit., 162, il quale, dopo avere precisato che la violenza va intesa “quale violenza morale ossia compulsiva (art. 2732)”, rileva che la fattispecie normativa ha ad oggetto “più che una potestà di revoca dell’atto … una sorta di potere di invalidazione dell’effetto confessorio, alla lontana simile alla querela di falso”.

[24] Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, cit., 46, descrive bene e con efficace realismo le dinamiche che tipicamente caratterizzano le audizioni delle parti personalmente, rilevando che “durante questo dialogo … è chiaro che una parte può, quasi fatalmente, mostrare qualche volta la corda, o altre volte invece mostrarsi molto convincente, molto persuasiva; soggiunge pertanto che il magistrato può di certo “tener conto in sede decisoria delle impressioni che gli hanno dato le due parti nel rispondere alle sue domande, nel dialogare con lui”, sicchè ricaverà utilmente argomenti di prova dal modo in cui (le parti) hanno retto l’impatto del dialogo”. Se dunque l’interrogatorio libero non può fondare confessioni giudiziali, cionondimeno dalle risposte, dal loro grado più o meno convincente, più o meno disinvolto, più o meno ‘trasparente’, il giudice può ricavare e utilizzare in sede di decisione, quando deve risolvere la quaestio facti, i cosiddetti argomenti di prova”.

[25] Così la giurisprudenza di legittimità: Cass. n. 15915/2007, la quale ha negato che la citazione sia nulla per mancata indicazione del titolo in funzione del quale è stata esercitata l’azione di rivendicazione di un immobile; sulla stessa linea Cass. n. 3089/2007, relativamente ad una fattispecie in cui, facendosi applicazione dell’indicato principio, è stata ritenuta ininfluente, sotto il profilo della novità della domanda, la circostanza che l'attore, nel richiedere la rimozione di un'aiuola posta dal vicino su una strada, in primo grado avesse dedotto la comproprietà della strada e, in grado di appello, un diritto di servitù di passaggio.

[26] L’affermazione è generalizzata in sede interpretativa e si rinviene esplicitamente in Cass. n. 26662/2007.

[27] Un riferimento ad allegazioni integrative svolte dal convenuto, e potenzialmente rilevanti nel senso della sanatoria, si trova in Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2006, 230.

[28] Così Tarzia Lineamenti del processo civile di cognizione, Milano 2009, 138 s., che esplicita chiaramente la corretta dinamica processuale conseguente alla lineare applicazione dell’art. 164, 6° comma, invero non chiarissimo; l’autore soggiunge poi che non può applicarsi il più lungo termine a difesa per i casi di notifica all’estero, “poiché la costituzione rende il convenuto legalmente presente nella circoscrizione del giudice adito”.

[29] Favorevole alla immediata estinzione, ad es., Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, I, cit., 372, il quale pone sullo stesso piano la mancata rinnovazione e la rinnovazione nulla.

Al contrario, sembra ritenere invece che il giudice possa ulteriormente disporre la rinnovazione, Verde G., Diritto processuale civile. 2. Processo di cognizione, Bologna 2010, 14, il quale peraltro dà conto del rilievo secondo cui talvolta la reiterazione del vizio o financo l’inserimento di qualche altro vizio, può plausibilmente corrispondere all’intento di allungare maliziosamente i tempi processuali (si pensi all’interesse dilatorio che muove un’azione di accertamento negativo del credito); l’autore sembra avallare la tesi secondo cui, in base alla lettera dell’art. 164, 2° comma, il giudice non potrebbe dichiarare l’estinzione e dovrebbe disporre un’ulteriore rinnovazione. E anche Luiso, Diritto processuale civile, II, cit., 13, pur dando atto che il problema è aperto, ritiene preferibile la tesi della rinnovazione ripetuta.

[30] Così Graziosi C., Fase introduttiva del giudizio, relazione all’incontro di studio “Seconda settimana di studio relativa al tirocinio ordinario per i magistrati ordinari in tirocinio nominati con d.m. 6 dicembre 2007”, Roma, 5 – 9 maggio 2008.

[31] Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, I, cit., 178.

[32] Si veda infatti Cass. n. 12558/1999, la quale ammette che (fermo il rispetto della tempistica processuale prevista per le riconvenzionali), in conformità ai principi di economia processuale e di concentrazione dei giudizi, la domanda proposta con la comparsa di costituzione, da un convenuto contro altri convenuti è ammissibile”.

[33] In tal senso, ad es., Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino 2009, 48, nota 89; Luiso, Diritto processuale civile, II, cit., 20 s.

[34] Vullo, La domanda proposta da un convenuto contro l’altro: condizioni di ammissibilità, termini e forme, in Giur. it., 2002, 8-9.

[35] Vullo, La domanda proposta da un convenuto contro l’altro: condizioni di ammissibilità, termini e forme, in Giur. it., cit., contesta giustamente l’affermazione secondo cui diversamente il diritto di difesa del litisconsorte verrebbe leso, poiché “non avrebbe ragione di attendersi una domanda proveniente da un convenuto nello stesso processo e, quindi, non sarebbe tenuto a prendere visione degli atti difensivi depositati in cancelleria dalle altre parti, al momento della costituzione”; l’autore risponde all’obiezione ricordando che tale onere di leggere gli atti difensivi, oltre ad apparire tutt’altro che gravoso (!), è identico a quello imposto all’attore. E richiamando una condivisibile affermazione dottrinale (Ronco) sul punto, liquida l’argomento (favorevole alla inutile vocatio in ius) rammentando che lo stesso “si risolve in una petizione di principio, in quanto muove dall’assunto, che rappresenta invece ciò che si dovrebbe dimostrare, secondo il quale nel nostro sistema processuale esiste una regola per cui la domanda di un convenuto debba essere proposta con le modalità di cui all’art. 269 c.p.c.”.

[36] Cass. S.U. n. 4309/2010 evidenzia infatti che resta ferma “la natura di regola facoltativa del litisconsorzio nelle obbligazioni solidali” e non vi è “l’esigenza di trattare unitariamente le domande di condanna introduttive della causa con quelle di manleva dei convenuti (Cass. 21 novembre 2008 n. 27856 e 10 marzo 2006 n. 5444), con conseguente separabilità dei due processi, non diversa da quella consentita anche prima della novella del 1990, ex art. 103 c.p.c., che comporta la scindibilità delle cause pure ai fini delle impugnazioni delle parti (art. 332 c.p.c.)”; su queste basi, conclude affermando che “Il giudice cui sia tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa, in manleva o in regresso, del terzo, può quindi rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo … motivando la trattazione separata delle cause per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo intrinseci ad ogni sua scelta, dopo la novella dell’art. 111 Cost. del 1999”.

[37] Amendolagine, La chiamata in causa del terzo formulata dal convenuto ai sensi dell’art. 269, comma 2, c.p.c.: il giudice può rigettarla nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo ?, in Giur. it., 2010, 11, rimarca che l’opzione interpretativa della Suprema Corte potrebbe arrecare un vulnus a quei medesimi principi di economia processuale che ne fondano la motivazione; ciò che potrebbe accadere qualora il convenuto che si sia visto respingere la richiesta di chiamata di terzo, attraverso la successiva e autonoma azione giudiziale finisca per dar luogo ad una duplicazione di attività processuali e proliferazione di contenziosi, che la trattazione unitaria nello stesso processo tende invece ad evitare”.

[38] Per esempio Arieta, Trattato di diritto processuale civile. Le tutele sommarie. X, cit., 214 ss., sostiene fermamente questa tesi, osservando che la contraria posizione della giurisprudenza di legittimità “non tiene conto della natura del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e sembra, anzi, essere espressione della concezione ‘impugnatoria’ di questo giudizio”.

Sulla stessa linea ad es. Santangeli, Sui criticabili indirizzi della Cassazione a proposito di chiamata di terzo da parte dell’opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, Judicium.it, il quale obietta che la tesi della Cassazione “risulta contraria ai dettami costituzionali, se si pensa che così operando in pratica si sottopone all’autorizzazione del giudice istruttore la richiesta dell’opponente (che è di fatto il convenuto) di citare un terzo, mentre nel processo ordinario proprio l’art. 269 c.p.c. consente al convenuto di chiamare un terzo senza dover sottoporre la sua volontà ad alcuna preventiva autorizzazione”.

In verità tale argomento risulta ora agevolmente confutabile, poiché il suo fondamento logico-giuridico, e cioè l’automatismo di chiamata da parte del convenuto, come si è visto è venuto meno a partire da Cass. S.U. n. 4309/2010.

[39] Ex multis, Cass. n. 1920/2011; Cass. n. 4800/2007 e Cass. n. 1185/2003.

[40] Ex multis, Cass. n. 1522/2006 e Cass. n. 4145/2003.

[41] Esemplare la fattispecie esaminata da Cass. n. 998/2009, la quale ha escluso che potesse operare la presunzione in discorso – talchè dunque la domanda non poteva estendersi automaticamente verso un soggetto diverso dalla “compagnia convenuta” - a fronte delle seguenti conclusioni attoree: "il giudice dovrà condannare al pagamento del risarcimento dovuto soltanto ed interamente dalla compagnia convenuta e procedere ad un'eventuale graduazione delle colpe, rilevanti nei rapporti interni tra i corresponsabili".

[42] La distinzione è generalmente affermata dalla Suprema Corte; vi veda, per tutte, Cass. n. 23308/2007, relativa ad una fattispecie di danni da infiltrazione di acque luride (proveniente da una fognatura) verificatisi in una autorimessa di proprietà di Tizio. In concreto il condotto fognario era utilizzato sia da Caio, sia da Sempronio. Ora, il convenuto Caio, condannato in primo grado e poi appellante, non aveva mai contestato di dover rispondere dei danni in questione, avendo invece censurato la decisione di primo grado nella parte in cui l'aveva condannato a risarcirli in solido con gli altri titolari della servitù, invece che per la sola parte a suo carico. La Cassazione ha affermato che la domanda attorea, non essendo stata avanzata specificamente ed espressamente anche contro Sempronio, non poteva estendersi automaticamente a quest’ultimo in virtù della chiamata in causa fatta da Caio, perché la volontà di Caio (quale emergente dalla domanda avanzata contro Sempronio) non era quella di individuare Sempronio quale unico responsabile.

[43] Cass. n. 5057/2010, che per certi versi sembra porsi in contraddizione con le affermazioni giurisprudenziali cit. in ordine agli effetti delle domande volte ad accertare la corresponsabilità per l’evento dannoso. La recente pronuncia evidenzia comunque l’importanza e delicatezza dell’operazione di interpretazione della domanda e delle relative conclusioni. Nel caso di specie doveva stabilirsi, in sintesi, se le conclusioni formulate dal convenuto (Caio) nella domanda rivolta al terzo (Sempronio), rivelassero l’intento di esercitare un’azione di garanzia, ovvero di regresso ovvero ancora di attribuzione di corresponsabilità, con quanto ne consegue sul piano dell’applicazione del principio in discorso. In concreto era stata dedotta dagli eredi di Tizio una responsabilità risarcitoria da morte del loro congiunto, avvenuta a seguito di folgorazione nell'esecuzione di opere di riparazione di una linea elettrica di proprietà di Sempronio; evento addebitato, con sentenza penale di condanna passata in giudicato, al convenuto in qualità di caposquadra (Caio), dipendente di Sempronio. Queste le conclusioni formulate da Caio "(Voglia il tribunale) … in via subordinata valutare la marginale incidenza della condotta (di Caio stesso) e determinare il danno risarcibile nella misura minima che equitativamente vorrà liquidare ed in tal caso ritenere e dichiarare (Sempronio) responsabile per il danno arrecato … manlevando da ogni responsabilità (Caio) relativamente all'incidente per cui è causa". Ora, la Cassazione, confutando la tesi del giudice di appello (il quale aveva qualificato detta azione come di regresso, traendone la conseguenza dell’inapplicabilità del principio in esame) ha rilevato che Caio non poteva comunque sottrarsi alla responsabilità affermata nei suoi confronti, essendosi formato un giudicato in sede penale. Ne consegue che l’intento di Caio, con la chiamata in causa di Sempronio, non poteva avere altra finalità che quella di individuare un ulteriore soggetto corresponsabile dello stesso evento dannoso occorso a Tizio. La finalità della chiamata di Sempronio, pertanto, era quella di condividere con un altro soggetto la responsabilità per l'evento, 
ciascuno per la parte di responsabilità accertata; di qui l’affermazione favorevole all’applicabilità del principio di estensione automatica della domanda risarcitoria attorea.

[44] Luiso, Diritto processuale civile, II, cit., 56, ricorda efficacemente che “se il giudice è particolarmente solerte e gli avvocati non sono pigri, la causa può benissimo passare in decisione fin dalla prima udienza (art. 80-bis disp. att. c.p.c.) Quindi tutta la trattazione si può esaurire in una sola udienza”.

[45] Cass. n. 9169/2008 afferma il principio secondo cui non basta la mera violazione procedimentale a giustificare la caducazione della sentenza, e spiega che dovendo il giudice d'appello pronunciarsi sul merito della controversia, l'appellante, allorquando deduca un vizio in procedendo, non può limitarsi alla mera indicazione del vizio stesso, riservandosi di specificare in prosieguo le attività che sarebbero state compromesse o pregiudicate dalla violazione della regola processuale, ma deve indicare specificamente dette attività. In particolare, allorquando venga dedotto, come nella specie, il vizio della sentenza di primo grado, per avere il Tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il thema decidendum e il thema probandum, l'appellante non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il thema decidendum sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare, ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all'art. 183 c.p.c., comma 5, e quali prove sarebbero state dedotte”.

[46] Così Morlini, La riforma e l’udienza ex art. 183 c.p.c., relazione all’incontro di studio del C.S.M. del 26 gennaio 2007, il quale peraltro ricorda che “la definitiva versione della riforma operata dalla l. n. 263/2005 abroga la previsione della necessaria assunzione in riserva,, limitandosi a prevedere che la decisione tramite ordinanza riservata sia solo una delle opzioni possibili”.

[47] Così, molto chiaramente, Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 409, il quale soggiunge che quando la prova da assumere inerisca ad un fatto secondario, il giudice è chiamato “non solo ad anticipare la soluzione della quaestio iuris, ma anche ad anticipare in via ipotetica l’idoneità del fatto secondario, una volta provato, a servire da base per la deduzione del fatto principale ignoto”.

[48] Così Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, cit., 83 s., il quale sottolinea molto nitidamente che “questa ‘anticipazione’ è sempre consentita (ed anzi imposta) al giudice istruttore”, ricordando peraltro che “si tratta di un’anticipazione del tutto provvisoria, tenuto conto che il relativo provvedimento riveste la forma dell’ordinanza e pertanto … non può mai pregiudicare la decisione della causa”.

[49] Morlini, relazione all’incontro di studio del C.S.M. del 26 gennaio 2007, cit., La riforma e l’udienza ex art. 183 c.p.c, cit. il quale soggiunge che in tal modo si riduce “la possibilità di istanze di revoca dell’ordinanza ammissiva conseguenti a sempre possibili errori fattuali od omissioni”.

[50] Cfr., per tutte, Cass. n. 15194/2008, la quale motiva la nullità rilevando che il Giudice il quale ritenga di decidere la lite in base ad una questione rilevata di ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle rispettive difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere, deve astenersi dal decidere solitariamente e deve procedere alla segnalazione della questione che intende rilevare di ufficio, riaprendo su di essa il dibattito e dando spazio alle consequenziali attività, in quanto, in caso contrario, si avrebbe violazione del diritto di difesa in ragione del mancato esercizio del contraddittorio”.

[51] Cfr., per tutte, Cass. n. 15705/2005, secondo cui non è affetta da nullità e non è oggetto di alcuna censura la sentenza che si fonda su una questione rilevata di ufficio al momento dell'assunzione della decisione e non sottoposta dal giudice al preventivo contraddittorio delle parti con l'indicazione alle stesse parti di detta questione. Non può infatti essere pronunciata la nullità per inosservanza di atti del processo se la nullità non è comminata dalla legge: una disposizione in tal senso manca nell'articolo 183 c.p.c. come sanzione dell'omessa indicazione alle parti delle questioni rilevabili di ufficio (nei sensi suddetti sentenze 29/4/1982 n. 2712; 18/4/1998 n. 3940; 28/1/2004 n. 1572, ove, in particolare, si esclude che l'articolo 183 c.p.c. come sopra interpretato, si ponga in contrasto con i principi di cui all'articolo 24 Costituzione)”.

[52] Balena, La riforma della giustizia civile, Torino 2009, 29 ss.

[53] Luiso, Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio, Judicium.it, § 2, il quale osserva come la norma di cui all’art. 183, 4° comma, resti quella fondamentale in materia.

[54] Taruffo, Lezioni sul processo civile – Il processo ordinario di cognizione, I, Bologna 2011, 449, osserva che la prima udienza di trattazione è evidentemente il momento privilegiato per questa attività del giudice … poiché … le parti precisano le loro posizioni (eventualmente in sede di interrogatorio libero se si tiene l’apposita udienza), ed inoltre integrano, modificano e precisano le loro domande, eccezioni e conclusioni”.

[55] In tal senso, Ricci G.F., La riforma del processo civile, Torino 2009, 22.

[56] Così Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorché emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur., 3/2010, 362 ss.

Si veda sul punto anche Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, cit., 173, il quale inquadra “la nuova previsione di legge più semplicemente come uno strumento ulteriore a disposizione delle parti, diretto a spiegare il proprio funzionamento in situazioni di carattere eccezionale e per così dire patologico”.

[57] Cass. n. 21108/2005 in motivazione rileva che la regola posta dall’art. 183, 4° comma, vale per l'intero corso del processo, dovendosi osservare per tutto il suo sviluppo dal giudice, in posizione di terzietà, il dovere di collaborazione con le parti ed essendo intrinseco al corretto svolgimento di un giusto processo il principio del contraddittorio (art. 111 Cost.)”.

[58] Giordano A., La sentenza della “terza via” e le “vie” d’uscita. Delle sanzioni e dei rimedi avverso una “terza soluzione” del giudice civile, in Giur. it., 2009, 911 ss., osserva peraltro che La mancata trattazione, da parte del difensore, del punto controverso potrebbe imputarsi ad una mera negligenza, come potrebbe rappresentare il frutto di una strategia difensiva ad hoc. La nullità fungerebbe da rapida scorciatoia, facilmente agibile da difensori spregiudicati; il giudizio potrebbe subire un ritardo pari al tempo di un’impugnativa pretestuosa; la macchina processuale potrebbe ingolfarsi e rendere un prodotto contrario a giustizia”.

[59] Buoncristiani, Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, Judicium.it, § 3, nella sua chiara e articolata analisi, utilizza al riguardo la definizione di fatti c.d. avventizi, così rifacendosi alla dottrina francese. Anche nella giurisprudenza di legittimità si dà conto esplicitamente di tali fatti, e per es. al riguardo Cass. n. 14581/2007 ricorda in motivazione le allegazioni ‘silenti’ (espressione usata da parte della dottrina)” per qualificare quei fatti “di cui le parti (si noti: tutte le parti) non hanno consapevolezza (ad es. perché emergenti da documenti prodotti per dimostrare fatti del tutto diversi)”.

[60] Buoncristiani, Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, cit., § 3.

[61] Sul rispetto di tali limiti, inerenti ai principi fondamentali che governano il processo civile, v. per es. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 98; Buoncristiani, Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, cit., § 3; Luiso, Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio, cit., § 2.

[62] Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 98;

[63] Luiso, Questione rilevata di ufficio e contraddittorio: una sentenza rivoluzionaria ? Nota a Cass. n. 14637/2002, Judicium.it, § 4.

[64] Così Luiso, Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio, cit., § 2.

[65] Balena, La riforma della giustizia civile, cit., 30.

[66] Balena, La riforma della giustizia civile, cit., 30, il quale peraltro precisa che “in questi casi nulla escluderebbe un recupero ex post del contraddittorio ed una conseguente revoca o modifica del provvedimento ad opera dello stesso giudice che l’aveva pronunciato”.

Al contrario, per es., Taruffo, Lezioni sul processo civile. I. Il processo ordinario di cognizione, cit., 449 s. ricollega la possibile violazione del divieto di decisioni c.d. “a sorpresa” anche al mutamento, da parte del giudice, del nomen iuris della fattispecie.

[67] Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorché emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur., cit., 363;

[68] Ricci G.F., La riforma del processo civile, cit., 23. Ma anche per es. Taruffo, Lezioni sul processo civile. I. Il processo ordinario di cognizione, cit., 449 s., osserva che le violazioni del contraddittorio sotto il profilo della terza via possono altresì dipendere dalla formulazione di presunzioni idonee a determinare la prova di un fatto rilevante per la decisione”.

[69] In tal senso, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, cit., 48.

[70] In generale, sulle cautele che il giudice deve osservare per prevenire indebite anticipazioni di giudizio, magari tali da imporre la qualifica di un’ordinanza come sentenza, come tale immediatamente impugnabile, si veda Verde G., Diritto processuale civile. 2. Processo di cognizione, cit., 35 e 47.

[71] Così, per esempio, Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, cit., 173; Luiso, Diritto processuale civile, II, cit., 172; si tratta comunque di affermazione generalmente condivisa dagli interpreti.

[72] Luiso, Poteri di ufficio del giudice e contraddittorio, cit., § 2.

[73] Buoncristiani, Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, cit., § 5, ipotizza che il rilievo officioso possa giustificare, a fondamento di un credito pecuniario, la deduzione di un titolo giuridico diverso rispetto a quello su cui è fondata l’azione originaria: “se l’attore chiede il pagamento di una somma di denaro in base ad un contratto e il giudice rileva d’ufficio che c’è un difetto di procura di chi ha sottoscritto il contratto in nome e per conto del convenuto ovvero che c’è nullità per vizio di forma, l’attore potrà reagire non soltanto replicando in fatto che il convenuto ha comunque ratificato l’operato del presunto falsus procurator ovvero in diritto che la forma scritta è richiesta soltanto ad probationem e, comunque, chiedere ammissione di interrogatorio formale dell’avversario sull’effettiva stipula del contratto, ma potrà anche introdurre una fattispecie costitutiva concorrente della pretesa azionata, quale l’ arricchimento senza causa”.

[74] Condivisibile pertanto l’osservazione di Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, Judicium.it, § 6, il quale osserva che “se trattasi di una questione dalla quale emerge la necessità di una nuova trattazione, comprendente attività di allegazione di fatti, nonché di produzione di nuovi mezzi di prova o di presentazione di nuove istanze istruttorie, è chiaro che il giudice dovrà darvi corso. Né ad una simile riapertura di attività potrebbe opporsi l’avvenuto maturarsi di preclusioni, perché il principio del contraddittorio prevale sempre sul principio di preclusione, ossia ogni parte deve poter reagire, allegando e provando, ai rilievi del giudice, a prescindere dal momento in cui questi siano sollevati, senza la necessità di passare da un previo provvedimento di rimessione in termini”.

[75] così Ricci G.F., Diritto processuale civile, II, cit., 32

[76] Buoncristiani, Il principio del contraddittorio nel rapporto tra parti e giudice, cit., § 5.

[77] Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, I, cit., 392, il quale osserva (pur dopo la legge di riforma n. 69/2009) che “riteniamo molto probabile che continuerà ad essere seguita la ben consolidata prassi, per la quale il giudice non studia la causa anteriormente alla prima udienza, ragione per cui egli, di norma, non sarà in grado né di chiedere chiarimenti né di indicare questioni da trattare prioritariamente in quella udienza”.

[78] Senz’altro condivisibile pertanto l’auspicio di Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorché emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur., cit., 362 ss.

[79] Cass. S.U. n. 20935/2009 ha infatti ritenuto che la nullità processuale non possa essere, ipso facto, sempre e comunque predicata quale conseguenza indefettibile di tale omissione, sicchè il soccombente può utilmente dolersi della decisione soltanto “sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove (o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini)”; e ha soggiunto che “per l’ipotesi di sentenza di primo grado appellabile, non può ritenersi sufficiente che il giudice abbia rilevato d’ufficio una questione senza sottoporla al previo contraddittorio delle parti, ma occorre che la relativa rilevazione officiosa abbia determinato ipotesi di sviluppo della res litigiosa, fino a quel ‘momento’ processuale non considerati dalle parti sotto il profilo della prova”.

[80] Così Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorché emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur., cit., 355 ss., il quale, con riguardo all’impugnazione della sentenza emessa in violazione del divieto in parola, osserva che “L’errore si rivelerà decisoriamente nocivo e così tale da determinare la riapertura del nuovo grado (o in sede di rinvio a valle della cassazione della sentenza) della trattazione della causa, ogni qual volta la mancata concessione di adeguati spazi dialettici alle parti per il compimento di atti causativi abbia arrecato un reale vulnus al loro diritto di difesa, ossia abbia impedito di svolgere allegazioni o di richiedere istanze istruttorie conferenti e così tali che avrebbero potuto portare – con un adeguato grado di verosimiglianza – ad una diversa soluzione della questione”.

[81] Si veda infatti Cass. S.U. n. 20935/2009, la quale in motivazione ritiene: indiscussa la violazione ‘deontologica’ da parte del giudicante che decida pronunciando sentenza sulla base di rilievi non previamente sottoposti alle parti (all'udienza ex art. 183 c.p.c., ovvero, se emersi o comunque acclarati diacronicamente rispetto ad essa, anche in un momento successivo del processo)”.

Share