L’Amministrazione di sostegno nuova frontiera del welfare
Anticipiamo uno stimolante e competente contributo sulle esperienze di concreta applicazione dell'istituto dell'Amministrazione di sostegno, dell'avv. Mirco Ghirlanda del Foro di Verona, che, con la 'seconda voce' del cons. Franco De Stefano, già giudice a Salerno ed ora consigliere della Corte di cassazione, è in corso di pubblicazione sul numero 3/2010 della nostra Rivista Giustizia Insieme.
A sette anni di distanza dall'introduzione, nel nostro ordinamento, dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, si cominciano a fare i primi bilanci sulla efficacia di tale strumento, atteso ed agognato per anni e che tante attese intendeva soddisfare.
Valorizzazione delle capacità delle persone deboli, sostegno alle fragilità, aiuto nella realizzazione delle aspirazioni di chi, da solo, persona fragile, anziana, disabile fisico o psichico, alcolista, tossicodipendente, non ce la può fare. Il tutto inserito in una rete di relazioni familiari, sociali ed istituzionali volta a garantire che la persona umana, con difficoltà, non sia abbandonata a se stessa, e, ancora di più, che la famiglia che deve occuparsi di aiutare il familiare in tale situazione non sia lasciata sola.
Queste, ed altre impossibili da elencare tutte in questa sede, ma accomunate dall'intento di salvaguardare la persona umana anche nella sua condizione di difetto di autonomia, erano, e sono, le aspirazioni e le finalità della legge nr. 6 del 9 gennaio 2004.
Entusiasmava, soprattutto, l'idea di uno strumento, snello dal punto di vista procedurale, rivolto non soltanto a salvaguardare il patrimonio della persona debole, ma, anche, e forse soprattutto, a consentire la piena realizzazione della persona umana debole e fragile. Tale fine, infatti, non connotava le già esistenti figure dell'interdizione e dell'inabilitazione, strumenti di garanzia del patrimonio, più che di tutela della persona, che non lasciavano, soprattutto l'interdizione, spazio alcuno all'autodeterminazione di chi conservava una capacità di agire, seppure limitata.
Sotto altro profilo, la nuova normativa faceva intravedere, tra le pieghe della legge, la possibilità del fattivo coinvolgimento di una serie di soggetti istituzionali chiamati ad intervenire in sinergia con le famiglie e le associazioni del terzo settore. Convinceva e convince ancora ad oggi l'idea che la situazione di difficoltà, in cui una persona si possa trovare, temporaneamente o permanentemente, possa trovare un interessamento concreto e un monitoraggio da parte delle istituzioni territoriali, tramite i servizi sociali, chiamati non solo a segnalare e sorvegliare i casi in cui necessita un aiuto concreto per evitare l’emarginazione e le sue gravissime conseguenze sulla persona e sulla famiglia di riferimento, ma anche a seguirne le vicende, predisponendo un progetto personalizzato sull’individuo.
La sinergia dei diversi attori coinvolti dovrebbe consentire al magistrato, chiamato ad assumere provvedimenti limitativi della capacità di agire della persona, ai Servizi territoriali stessi, alle strutture che se ne debbono eventualmente occupare, e a tutti coloro che, comunque, a vario titolo, hanno cura della persona in difficoltà, di farlo con cognizione di causa specifica, sulla base di informazioni e disposizioni che caratterizzano il singolo caso e che consentono, così, di predisporre e porre in atto un intervento mirato, relativo ai soli aspetti dove vi è la necessità del sostegno da parte di terzi, ma salvaguardando la residua capacità del singolo, in modo che questi possa essere libero di continuare a gestirsi nello spazio di autonomia.
Proprio la predisposizione del progetto personalizzato sull’individuo è l’elemento di assoluta novità che ha ribaltato la prospettiva di applicazione delle norme: al primo posto vi è la persona umana intorno alla quale ruota tutto il sistema.
Uno Stato sociale, quindi, che si pone al servizio del proprio cittadino, aiutandolo dove serve e non limitandolo dove non serve, consentendogli, così, di poter esercitare la propria autonomia e far valere la propria volontà sin dove essa possa trovare spazio.
Il sistema così delineato muove dall’intento di evitare interventi inutilmente invasivi nella vita della persona fragile, debole, in difficoltà, realizzando intorno ad essa una “rete” che ammortizza la caduta, talvolta rovinosa, della persona nella malattia e nella conseguente difficoltà a gestire gli aspetti della propria esistenza.
Questo strumento giuridico ha, altresì, l'aspettativa di rispondere, in modo concreto, alle esigenze delle famiglie, nel cui ambito vi sono componenti portatori di disabilità fisiche e/o mentali, per quanto concerne l'aspetto del "dopo di noi", aspetto connesso alle preoccupazioni per il futuro dei propri congiunti allorché i famigliari non saranno più in grado di occuparsene (per anzianità o malattia).
Tale ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno è stato, forse, uno dei principali motori che hanno spinto quest'istituto a trovare una sempre maggior applicazione.
Si è intravista, infatti, la possibilità, per ogni singola famiglia e, in particolare, per il familiare che si occupa del proprio congiunto (figlio, genitore, parente, ecc..), di poter realizzare, insieme agli Enti e alle Autorità preposte, un progetto personalizzato non solo valevole per il presente, ma proiettato nel futuro, che consenta di "tracciare la rotta", soprattutto in relazione alla quotidianità, anche per il momento in cui la famiglia non sarà più in grado di accudire il proprio membro in situazione di debolezza. Chi verrà dopo la famiglia, infatti, potrà usufruire dell'organizzazione e della predisposizione di una serie di strumenti di gestione della quotidianità già individuati e collaudati, rispondenti alle migliori aspettative di vita possibili in un dato momento storico, per essere ciò che di meglio il familiare ha potuto reperire ed individuare.
Sotto altro profilo, risulta rassicurante per la famiglia il fatto di sapere che l’operato di chi verrà dopo sarà soggetto ad un vaglio esterno da parte del Giudice tutelare e che, laddove ritenuto non conforme al rispetto e alla valorizzazione delle migliori esigenze di vita della persona in difficoltà, l'intervento del giudice tutelare garantirà l’adozione di misure idonee, finanche la sostituzione dell’amministratore nominato con altra persona maggiormente attenta a tali aspetti.
La predisposizione di un progetto personalizzato, infatti, consente al giudice tutelare, chiamato a verificare annualmente (in genere il periodo tipico per il deposito del rendiconto) che la situazione della persona in difficoltà corrisponda sempre alle sue migliori aspettative di vita, di intervenire attivamente laddove tali aspettative non vengano rispettate per incapacità, inerzia, disinteresse, cattiva gestione dell'amministratore di sostegno nominato.
L’esistenza di tale strumento di controllo ha dato alle famiglie la speranza di non essere sole e, soprattutto, che il loro famigliare non sarà lasciato solo quando le stesse non potranno più occuparsene.
A tutto ciò, si unisce, da un lato, la snellezza del procedimento rispetto a quello previsto dal legislatore per l'interdizione, dall’altro, la possibilità di interloquire direttamente con il giudice tutelare, con forme semplici e, talvolta, immediate; così come estremamente utile è risultata la possibilità di risolvere problemi pragmatici, di natura quotidiana, in tempi molto più contenuti rispetto al passato ed alle altre procedure. Neppure va trascurato il vantaggio connesso con l'abbattimento dei costi di procedura.
Se da un lato l’amministrazione di sostegno ha fornito alle famiglie uno strumento di aiuto concreto, dall’altro esso si è dimostrato di ausilio anche per le strutture di accoglienza dei malati, a partire dai nosocomi, per passare alle case di riposo, alle RSA e a tutte le altre strutture preposte all’accoglienza e alla residenzialità diurna e notturna delle persone malate, disabili, fragili.
L’amministrazione di sostegno ha consentito, in molti casi, di risolvere il problema di individuare il soggetto con cui relazionarsi e condividere le decisioni afferenti il singolo ospite, da quelle concernenti la quotidianità a quelle, ben più complesse e difficili, delle scelte terapeutiche.
Le strutture, infatti, a volte (e non così raramente) si trovavano costrette ad affrontare schiere di parenti, divisi tra loro in fazioni o addirittura gli uni contro gli altri, così che, ad esempio, se una decisione andava bene ad alcuni, non soddisfaceva gli altri; parenti talvolta litigiosi anche ai piedi del letto del povero congiunto, impegnati, con aggressività e protervia, in discussioni tipiche di coloro che si stavano preparando a regolare faccende successorie e spartizioni di patrimoni, più che preoccupati della cura del proprio congiunto bisognoso, al contrario, di dolcezza e comprensione.
In tale clima, le strutture erano chiamate ad assumere decisioni cariche di responsabilità, in modo veloce, senza supporto concreto da parte di chi avrebbe dovuto coadiuvarle.
In altri casi, si assisteva al fenomeno della “fuga dei familiari”, connessa al sospetto che occuparsi del proprio congiunto equivalesse al rischio di assumere oneri economici personali. In tali frangenti si verificava la succitata fuga, rappresentata dal disinteresse e dal disimpegno dai più elementari doveri (non solo giuridici) derivanti dai rapporti parentali.
L’amministrazione di sostegno ha consentito di risolvere, in parte, tali problematiche, consentendo di individuare, in tempi ragionevoli, un soggetto referente che abbia, in un contesto di possibili verifiche e controlli, la possibilità di assumere decisioni afferenti l’ospite-famigliare, coadiuvando le strutture stesse nella gestione della persona ospite o paziente.
La nuova figura, in questi anni di concreta applicazione, ha dato, certamente, tante risposte alle plurime attese, migliorando la situazione esistente anteriormente all'entrata in vigore della legge nr. 6 del 2004.
Non si può nascondere, d’altra parte, che, se tanto si è fatto, ancora moltissimo deve essere fatto per regolare e migliorare la situazione. Anche questo strumento giuridico ha manifestato, infatti, nel corso di questi anni, alcune criticità sulle quali bisogna interrogarsi e adoperarsi al fine di eliminarle o, quanto meno di ridurle, per procedere spediti verso l’obiettivo di uno Stato sociale a misura di persona.
Tra le situazioni di criticità sulle quali appare opportuno riflettere, vi è quella legata al rischio che la nomina dell'amministratore di sostegno, soprattutto quando avvenga al di fuori dell'ambito parentale, determini una deresponsabilizzazione degli altri soggetti coinvolti nelle vicende della persona in difficoltà. I parenti dell’amministrando, talora, convocati innanzi al giudice tutelare per la nomina dell’amministratore di sostegno, dichiarano di non essere disponibili, per i più svariati motivi, ad occuparsi del proprio congiunto.
Questa indisponibilità, cela, a volte, la volontà di delegare ad un amministratore di sostegno esterno, nominato dal giudice, ogni rapporto con il beneficiario, disinvestendo sul progetto di intervento e delegando all’amministratore terzo ogni rapporto che riguardi il beneficiario, lasciando al primo la gestione di tutte le problematiche che sorgono di conseguenza.
Altro profilo che ha manifestato criticità è quello relativo alla formazione degli amministratori di sostegno, volontari o famigliari, i quali spesso assumono l’incarico senza avere piena consapevolezza del compito, dei poteri e delle responsabilità che esso comporta. L’amministratore di sostegno, nell’esercizio del suo incarico, deve affrontare questioni molto semplici, ma anche problematiche talora particolarmente complesse e rispetto alle quali si trova sprovvisto delle necessarie competenze. Diventa, quindi, indispensabile che il nominato amministratore possa avere almeno un bagaglio di base che gli consenta di rivolgersi, laddove necessario, alle figure professionalmente qualificate per risolvere i singoli problemi “tecnici”.
Una adeguata preparazione, infatti, dovrebbe favorire una collaborazione fra amministratori e attori istituzionali, consentendo di individuare e raccordare i diversi compiti, senza che l’impegno di ciascuno risulti dispersivo ma rispondente, a pieno, alle esigenze delle persone in difficoltà.
Tale bagaglio deve essere fornito tramite veri e propri corsi di formazione, all’esito dei quali l’aspirante o il nominato amministratore possa avere un’idea delle problematiche che potrebbe essere chiamato a risolvere o ad affrontare.
Esperienze in questo senso sono già state avviate dagli Enti territoriali, in collaborazione con le associazioni del terzo settore e con il coinvolgimento dei servizi sociali. L’auspicio è che tali esperienze vengano moltiplicate sul territorio, attraverso programmi di formazione ed aggiornamento, e che esse possano costituire un’occasione vera di approccio all’istituto e alla figura dell’amministratore di sostegno, soprattutto per parenti, familiari e volontari.
Va segnalato, peraltro, che dovrebbe essere svolta una attività di informazione anche rispetto agli altri soggetti che, a diverso titolo, si interfacciano con l’amministratore di sostegno: spesso, infatti, questi si scontra con la scarsa conoscenza dell’istituto da parte degli operatori economici (per esempio banche ed uffici postali) che talora rendono difficoltoso ed inutilmente oneroso l’espletamento dell’incarico, sollevando dubbi sulla legittimazione dell’amministratore, richiedendo specifiche autorizzazioni anche per il compimento di attività che sono ricompresse nella gestione dell’ordinaria amministrazione affidata all’amministratore nominato.
Vi è, sotto altro profilo, anche la necessità di sensibilizzare gli amministratori stessi in ordine al fatto che la vocazione dell’istituto è, primariamente, quella di rispondere alle esigenze di carattere personale dell’amministrato, profilo che talora passa in secondo piano, o viene addirittura trascurato, sotto la spinta di motivazioni ed esigenze di carattere prevalentemente patrimoniale. Tale connotato dell’istituto emerge espressamente e chiaramente dall’intero testo normativo. Sintomatica, a titolo esemplificativo e concreto, è la previsione normativa relativa alla scelta dell’amministratore di sostegno, che deve essere individuato, preferibilmente, nel convivente del beneficiario, sia esso congiunto o meno. Significativamente, l’elemento della convivenza assurge a “titolo preferenziale” rispetto all’elemento della parentela.
Esaminando, poi, alcune problematiche di natura applicativa, si è potuto constatare nell’esperienza pratica che vi è necessità di un punto di contatto e di coordinamento tra l’amministratore di sostegno nominato e i diversi soggetti chiamati ad occuparsi del beneficiario. Spesso, già al momento della nomina dell’amministratore, non risulta ancora realizzato un progetto personalizzato che individui gli elementi che il magistrato, chiamato alla nomina, deve tenere in debito conto per lo specifico caso. Dopo la nomina, l’amministratore rischia di essere “tralasciato” dagli enti e servizi territoriali che non hanno occasioni concrete per coadiuvare il nominato nelle decisioni da assumere.
Proprio sotto tale profilo (della collaborazione tra i diversi soggetti coinvolti), sarebbe auspicabile, almeno nei casi più problematici, l’utilizzo sistematico dello strumento dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare (U.V.M.), che, come noto, è costituita da un gruppo di lavoro chiamato a valutare, sotto un profilo multidisciplinare, i bisogni sociosanitari complessi della persona cui deve darsi risposta attraverso la prestazione di servizi erogati da strutture organizzative diverse. I servizi socio sanitari utilizzano tale strumento per garantire la pratica attuazione dell'integrazione tra i servizi distrettuali, quelli dipartimentali sovradistrettuali, ospedalieri, residenziali e semiresidenziali ed i servizi sociali, sul presupposto che un progetto globale condiviso dal gruppo è maggiormente idoneo a consentire il raggiungimento dell’obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita del cittadino.
Auspicabile, quindi, che il ricorso alle U.V.M. venga “normativizzato” divenendo, così, un percorso doveroso per tutte le amministrazioni di sostegno (almeno quelle più problematiche), da seguire dopo l’avvenuta nomina dell’amministratore. Tale strumento consentirebbe al giudice tutelare, chiamato a verificare il caso concreto, di avere una cognizione approfondita della reale e specifica situazione del soggetto, sia sotto il profilo delle condizioni psicofisiche, che delle possibili e reali soluzioni individuabili come idonee per il medesimo.
Laddove si parla della cura della persona e delle possibili soluzioni applicabili al caso concreto bisogna, infatti, sempre chiedersi “chi” ha il diritto, “chi” deve fare “cosa”, “dove” e “come” deve farlo, entro quali tempi, con quali costi e “quali” e “quante” risorse attivare. L’amministratore di sostegno da solo non può fare tutto questo e gli stessi servizi socio-sanitari territoriali hanno la necessità di avere un interlocutore dalla parte della persona debole, che si faccia portatore del vissuto, delle aspettative, delle aspirazioni del beneficiario.
E’, infatti, tramite l’U.V.M., integrato con l’amministratore di sostegno nominato, che i servizi socio-sanitari possono predisporre il progetto personalizzato, compito loro demandato dall’ordinamento, essendo capillarmente presenti sul territorio e maggiormente a contatto con la realtà del disagio sociale. Essi potrebbero, così, riuscire, in sinergia con l’amministratore nominato, a delineare un piano individualizzato d’intervento con una proposta di soluzione concreta, comprendente linee di sostegno coordinato con enti e servizi che operano in tema di disagio psico-sociale, da sottoporre al vaglio del giudice tutelare.
In tal modo il progetto di protezione acquista dignità giuridica, evidenzia compiti, vincola con disposizioni giuridicamente rilevanti.
La situazione di disagio, inoltre, non incontra confini di cittadinanza. Merita fare un accenno, ad un altro aspetto che si sta affacciando nella realtà dei tribunali, connesso con i flussi migratori che rendono le società occidentali, compresa la nostra, multietniche: la richiesta di nomina di amministratore di sostegno in favore di cittadini extracomunitari, con i problemi connessi all’applicazione dell’istituto alla persona in difficoltà, in presenza di elementi di estraneità al nostro ordinamento giuridico. In questo caso assume rilevanza quanto previsto dalle singole legislazioni straniere, a volte difficilmente accertabili, dalle convenzioni bilaterali, dalle convenzioni internazionali, nonché dalle norme di diritto internazionale privato.
Di fronte a tanta complessità, vi è il rischio che l’applicazione di tale strumento di protezione si possa “incagliare” nelle problematiche connesse ai confini territoriali e su questo occorrerebbe una risposta unitaria che non lasci il singolo magistrato a se stesso.
Mirco GHIRLANDA – Avvocato in Verona