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Anticipiamo sul nostro sito il contributo del prof. Carmelo Restivo sul tema

I POTERI DEL GIUDICE NELLA GESTIONE DELLA CRISI DI IMPRESA “IL RUOLO DEL GIUDICE NEL CONCORDATO PREVENTIVO”

in corso di pubblicazione sulla Rivista Giustizia Insieme

http://www.movimentoperlagiustizia.it/component/content/article.html?id=693:giustizia-insieme

 

 

IL RUOLO DEL GIUDICE

NEL CONCORDATO PREVENTIVO

 

Carmelo Restivo

Professore aggregato di Diritto Commerciale

presso l’Università degli Studi di Palermo

 

 

Con la riforma della legge fallimentare il legislatore si è sforzato di offrire nuove risposte al problema della crisi dell’impresa. Alle rigidità della vecchia disciplina, che affrontava l’insolvenza con un approccio prevalentemente liquidatorio, è subentrata una logica conservativa tesa a risanare l’impresa; ciò al fine di evitare la dispersione del valore produttivo dell’azienda e di prevenire le ricadute negative che l’insolvenza di un operatore, propagandosi, ha sul mercato.

In questa cornice si colloca, per un verso, la predisposizione di strumenti negoziali di soluzione della crisi di impresa – gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di risanamento – e, per altro verso, la rivisitazione di un istituto, il concordato preventivo, già noto all’ordinamento ma sempre frenato nelle sue potenzialità, perché sclerotizzato da vincoli assai stringenti che, ad esempio, imponevano il pagamento integrale dei creditori privilegiati e il pagamento dei creditori chirografari in una misura pari almeno al 40% del debito.

 

Proprio al concordato preventivo saranno dedicate le considerazioni che seguono: è infatti innegabile che esso rappresenti una specola privilegiata per comprendere come si atteggi oggi, dopo i numerosi interventi normativi che hanno interessato la materia, il rapporto tra i due poli dialettici – l’autonomia privata e il controllo del giudice – che si contendono il governo della crisi di impresa.

In effetti, l’intento di rivitalizzare il concordato preventivo poteva essere perseguito solo disegnando una disciplina più flessibile e agile, che consentisse, anche in nome di esigenze di efficienza economica, di modellare le soluzioni in funzione delle specificità del caso concreto. E agilità e flessibilità potevano essere assicurate solo accrescendo il ruolo dell’autonomia privata nell’equilibrio complessivo dell’istituto. Così la nuova disciplina ha valorizzato i profili negoziali del concordato preventivo, ampliando gli spazi di azione che l’ordinamento ha aperto al libero dispiegarsi della volontà delle parti coinvolte e, simmetricamente, arretrando la soglia di intervento del giudice, il cui ruolo si risolve ora nel controllo della legittimità della procedura.

 

Non è possibile in questa sede affrontare in modo approfondito il problema, rilevante sul piano della individuazione della disciplina applicabile in presenza di eventuali lacune, della natura giuridica del concordato preventivo. Ma è certo che la riforma ha segnato uno slittamento del baricentro dell’istituto in una direzione che ne accentua la dimensione negoziale, laddove la precedente disciplina restituiva l’immagine di una procedura che, anche per il più incisivo ruolo demandato al giudice, presentava più marcati connotati pubblicistici.

Ciò però non significa che con la riforma il legislatore abbia ricondotto il concordato preventivo ad una dimensione prettamente negoziale. A ciò osta, infatti, l’esigenza di tutelare i creditori che, sebbene dissenzienti, risultano vincolati al concordato, ove questo sia approvato con le maggioranze prescritte; esigenza – questa – che si traduce sul piano normativo in una serie di regole procedimentali tese, per un verso, ad assicurare ai creditori una informazione completa e adeguata che consenta loro di esprimere un consenso (o un dissenso) consapevole; e, per altro verso, conservando al giudice un ruolo di controllo e di garanzia.

 

Conviene ora portare l’attenzione sugli snodi della disciplina della procedura in cui assume rilievo l’intervento dell’organo giudiziario.

 

Il primo di questi è rappresentato dal giudizio sulla ammissibilità della proposta di concordato (artt. 162 e 163 l.fall.), all’esito del quale il Tribunale dichiara aperta la procedura.

Si tratta di un passaggio molto delicato, poiché pone un filtro preliminare teso a tutelare i creditori, arrestando ad esempio proposte di concordato dilatorie. Giova infatti ricordare che dal momento della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese ai creditori è inibito iniziare e proseguire azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore (art. 168 l.fall.); e non bisogna dimenticare, sempre nella prospettiva del pregiudizio cui i creditori sono esposti, la sospensione della disciplina dettata per la riduzione e la perdita del capitale nelle società di capitali (art. 182 sexies l.fall.).

Il dato normativo individua l’oggetto del sindacato del giudice nella verifica della ricorrenza dei presupposti indicati dagli artt. 160 e 161 l.fall. (art. 162, comma II, l.fall.). Sembrerebbe dunque che il Tribunale sia chiamato ad accertare solo la legittimità formale, cioè la completezza e la regolarità, della proposta, verificando che l’imprenditore abbia depositato, insieme ad un piano descrittivo del concordato, l’articolata documentazione indicata dall’art. 161 l.fall. (tesa ad offrire un quadro completo della situazione economica in cui versa l’impresa), ivi compresa la relazione di un professionista «che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano»; ciò al fine di garantire che ai creditori siano fornite le informazioni necessarie ad un esercizio consapevole del voto.

Tuttavia, tra le pieghe della (apparente) linearità del dato normativo si cela un nodo interpretativo assai complesso, sul quale si è acceso un ampio dibattito. La questione è stabilire se, ed eventualmente entro quali limiti, il Tribunale debba sindacare anche la fattibilità del piano (già asseverata dal professionista).

Non mancano, in effetti, gli argomenti per affidare al Tribunale un controllo penetrante che investa anche la valutazione prognostica della concreta realizzabilità del piano. In questo senso deporrebbe, secondo taluni, la circostanza che il Tribunale possa concedere un termine «per apporre integrazioni al piano e produrre nuovi documenti (art. 162, comma I, l.fall.): questo potere potrebbe essere letto come elemento e traccia di un disegno normativo che assegna al giudice un ruolo critico e propositivo che sconfina dal recinto di un controllo di legittimità formale.

La delicatezza del problema, e i contrasti interpretativi che si erano registrati anche nella giurisprudenza di legittimità, ha sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Civ., sez. un., 23 gennaio 2013 n. 1521).

Secondo questa pronuncia compete al Tribunale un sindacato sulla fattibilità giuridica del piano, che dovrà essere esclusa ove esso si ponga in contrasto con norme inderogabili o con l’atteggiarsi, sul piano della titolarità o della disponibilità, delle situazioni giuridiche relative a beni aziendali.

Più complesso è l’aspetto della fattibilità economica del piano. Il problema è stabilire se il Tribunale, sulla base di un giudizio prognostico divergente rispetto a quanto asseverato dal professionista, possa valutare negativamente la possibilità che le operazioni in cui il piano si articola siano realizzate nei termini, con le modalità e con gli esiti indicati dal ricorrente. Al riguardo la Corte, nel tentativo di dissipare i profili di incertezza che emergono dal dato normativo, ha affermato che tale aspetto è suscettibile del sindacato del Tribunale solo nella misura in cui ciò sia funzionale a valutare l’idoneità della proposta a realizzare la causa propria del concordato preventivo, causa individuata, per un verso, nel superamento della crisi dell’impresa e, per altro verso, nel soddisfacimento dei creditori in una misura che abbia una «sia pur minimale consistenza» e in tempi ragionevolmente contenuti. Solo nei limiti di un controllo sull’aderenza della proposta allo schema causale del concordato preventivo il giudice può dunque verificare la fattibilità economica del piano. Tuttavia la Corte si è preoccupata di delimitare i confini di questo sindacato, sottolineando che esso non consiste nel riconsiderare criticamente la possibilità che il piano si realizzi con successo, compiendo dunque una valutazione che si sovrapponga a quella del professionista e che, eventualmente, se ne discosti: l’organo giudiziario dovrebbe verificare solo «la correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano», nonché la coerenza delle conclusioni prospettate con i dati indicati.

Esula invece dal sindacato del Tribunale – e questo costituisce un punto fermo, sul quale dottrina e giurisprudenza convergono – la valutazione della convenienza economica della proposta, che compete solo ai creditori.

 

Il giudizio del Tribunale in sede di ammissione alla procedura presenta poi un ulteriore profilo ove il piano preveda la suddivisione dei creditori in classi, per le quali possono, ma non devono, essere previsti trattamenti differenziati (art. 160, comma I, l.fall.): in questa ipotesi infatti il sindacato ricomprende anche la «valutazione della correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi» (art. 163, comma I, l.fall.).

Detta valutazione risponde all’esigenza di evitare che una suddivisione in classi non conforme a criteri di ragionevolezza costituisca un espediente per alterare gli esiti del voto dei creditori. A tal fine le classi non possono essere costruite in modo arbitrario, ma devono rispondere a criteri oggettivi, individuati in funzione della

omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici dei creditori.

Peraltro, ove per le classi siano previsti trattamenti differenziati, solo il riferimento a tali criteri giustifica la deroga in questo modo introdotta al principio della par condicio, evitando che la formazione delle classi determini una irragionevole disparità di trattamento.

È da dire che, secondo l’opinione prevalente, il Tribunale deve verificare solo l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici del creditori riuniti nella stessa classe; non può invece sindacare l’opportunità e la convenienza della suddivisione in classi prevista dalla proposta né, tantomeno, il trattamento economico riservato a ciascuna di esse. Per altro verso, deve escludersi che il Tribunale possa censurare la scelta di non predisporre classi distinte di creditori essendo questa una mera facoltà (Corte Cost. 12 marzo 2010 n. 98). In effetti, il trattamento indifferenziato di tutti i creditori (chirografari) – quale regola generale, direttamente discendente dal principio della par condicio – rappresenta una vicenda fisiologica e non pone una specifica esigenza di tutela cui rispondere con un più ampio sindacato giudiziario. Al contrario, l’articolazione del ceto creditorio in classi costituisce deroga consentita solo nel rispetto del criterio della omogeneità e dunque soggetta ad un vaglio di ragionevolezza.

Occorre poi domandarsi se il Tribunale, a fronte di una proposta che contempli la formazione di classi, possa contestare che non ne sia stata prevista una specifica per un determinato gruppo di creditori. A questo problema, ad avviso di chi scrive, non può essere data una soluzione univoca: se la suddivisione in classi è solo facoltativa, la mancanza di una classe rileva non in sé, ma quale riflesso della disomogeneità nelle posizioni giuridiche e negli interessi economici dei creditori di una classe. Pertanto il Tribunale non può dichiarare inammissibile una proposta perché ritenga che un gruppo di creditori fossero meritevoli di una distinta considerazione, se la più ampia classe in cui essi sono stati inseriti rispetta comunque il canone dell’omogeneità; il che può accadere, visto che l’omogeneità dei crediti, considerata alla luce della posizione giuridica e degli interessi economici, non esclude che essi possano essere ritenuti meritevoli di distinta considerazione sulla base di una valutazione di merito che risponda a ragioni ulteriori. Dirimente, a tal fine, è stabilire quale sia il grado di differenziazione (delle posizioni giuridiche e degli interessi economici) che impone la creazione di una specifica classe; compito, questo, che grava sull’interprete, difettando una indicazione normativa che specifichi il criterio della omogeneità.

 

Un altro aspetto del sindacato esercitato dal Tribunale emerge poi sul fronte dei finanziamenti funzionali alla realizzazione del piano concordatario. A questi finanziamenti è infatti riservato, in seguito alle modifiche introdotte dal d.l. 22 giugno 2012 n. 83 (convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012 n. 134) il regime della prededucibilità. Si vuole così facilitare all’imprenditore l’accesso al credito, diminuendo il rischio cui si espone chi eroga la liquidità necessaria al concordato.

Ovviamente la prededucibilità dei finanziamenti in parola comporta un sacrificio a carico degli altri creditori concorsuali, perché riduce la misura del loro soddisfacimento; ciò spiega perché sia prescritta l’autorizzazione del Tribunale.

In particolare, sono prededucibili i crediti discendenti da finanziamenti contemplati dal piano concordatario e funzionali alla presentazione della domanda di ammissione alla procedura, purché la loro prededucibilità sia espressamente disposta dal decreto di ammissione: il che implica un previo accertamento, da parte del Tribunale, della effettiva funzionalità del finanziamento alla procedura (art. 182 quater, comma II, l.fall.).

Analogamente, l’autorizzazione del Tribunale costituisce condizione necessaria affinché abbiano carattere prededucibile i crediti discendenti da finanziamenti previsti dal piano che il ricorrente abbia chiesto di potere contrarre, purché un professionista «verificato il complessivo fabbisogno finanziario dell'impresa sino all'omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori» (art. 182 quinquies, comma I, l.fall.).

Le due ipotesi differiscono perché si riferiscono a finanziamenti che al momento della presentazione del ricorso, in un caso, sono già stati ottenuti e, nell’altro, non sono stati ancora richiesti. Tuttavia entrambe sono accomunate dal sindacato particolarmente penetrante cui il Tribunale è chiamato, mediato – nel secondo caso – dall’attestazione del professionista.

 

Il ruolo del giudice non si esaurisce una volta che, ritenuta ammissibile la proposta, sia stata aperta la procedura concordataria. Il Tribunale può infatti revocare la procedura «se in qualunque momento risulta che mancano le condizioni prescritte per l’ammissibilità» della proposta (art. 173, comma III, l.fall.). Vi è dunque una persistenza nel tempo della posizione di controllo attribuita all’organo giudiziario; e deve ritenersi, per ragioni di coerenza logica e sistematica, che il sindacato di cui il Tribunale è investito in questa fase successiva presenti la stessa estensione e le stesse caratteristiche che lo connotano in sede di ammissione alla procedura, atteggiandosi prevalentemente quale controllo di legittimità. Un esito diverso, in assenza di indici normativi che ne giustifichino la asimmetricità, sarebbe irragionevole.

Con la riforma della legge fallimentare il Tribunale (melius, il giudice delegato) non risulta più investito della direzione della procedura. È previsto soltanto che «il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa sotto la vigilanza del commissario giudiziale» (art. 167, comma I, l.fall.). È stato però riservato al giudice delegato un margine di controllo sulla procedura, sia pure limitato agli snodi in cui si pone una maggiore esigenza di tutela del ceto creditorio.

In particolare, è soggetto all’autorizzazione del giudice l’esercizio della facoltà di sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione riconosciuta al debitore dall’art. 169 bis l.fall.. E devono essere autorizzati anche gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (art. 167, comma II e III, l.fall.). L’atto posto in essere in difetto di autorizzazione è (non invalido, ma) inopponibile ai creditori anteriori all’ammissione alla procedura; tuttavia il suo compimento può determinare, secondo una logica chiaramente sanzionatoria, la revoca della procedura.

Al Tribunale, ove la proposta sia stata approvata dai creditori con le maggioranze prescritte, compete poi l’omologazione del concordato. Il giudizio di omologazione si risolve in un controllo di legittimità teso a verificare la regolarità della procedura e l’esito delle votazioni. Solo in una ipotesi, di cui non sfugge il carattere eccezionale, la legge (art. 180, comma IV, l.fall.) consente che il sindacato del Tribunale si estenda anche al merito della proposta. Detta ipotesi si verifica quando la convenienza della proposta è contestata da un creditore appartenente ad una classe dissenziente o, nel caso in cui non sia prevista la loro suddivisione in classi, da più creditori che rappresentino complessivamente il 20% dei crediti ammessi al voto: in questa ipotesi il Tribunale potrà omologare il concordato solo qualora ritenga che esso assicuri il soddisfacimento dei creditori in parola in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili.

 

Il quadro fin qui tracciato deve essere riconsiderato alla luce delle novità introdotte nella disciplina del concordato preventivo dal d.l. 22 giugno 2012 n. 83 (convertito con modificazioni in l. 7 agosto 2012 n. 134), nonché di quelle previste dal d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (non ancora convertito alla data in cui si scrive). Una prima lettura di queste modifiche potrebbe infatti indurre a ritenere che esse abbiano accresciuto il ruolo del giudice, riconoscendo al suo intervento un’ampiezza e una incisività che supera la soglia di un controllo di legittimità e che, in alcuni passaggi, sembra assumere i tratti di un sindacato sul merito della proposta; onde risulterebbe ridisegnato l’assetto dell’istituto, nella direzione del ridimensionamento dei suoi profili negoziali.

In particolare è stata introdotta la figura del concordato con riserva, o con effetto prenotativo (art. 161, comma VI, l.fall.), caratterizzata dalla presenza di uno iato temporale – la cui ampiezza, determinata dal Tribunale, non può eccedere complessivamente i sei mesi – tra il momento in cui si presenta la domanda di ammissione alla procedura e il momento in cui si deposita la proposta concordataria, con il piano e con tutta la documentazione prescritta. In questo intervallo il Tribunale, per un verso, può autorizzare gli eventuali atti urgenti di straordinaria amministrazione, attribuendo in questo modo natura prededucibile ai crediti che da tali atti sorgano. Per altro verso, al fine di evitare gli abusi cui il concordato con riserva si presta, esercita un controllo sulla procedura attraverso le informazioni periodiche – relative alla gestione finanziaria dell'impresa e all’attività compiuta ai fini della predisposizione della proposta e del piano – che lo stesso Tribunale abbia prescritto al ricorrente di fornire. Tale controllo, quando risulta che l’attività compiuta dall’imprenditore sia manifestamente inidonea alla predisposizione della proposta, può tradursi nella decisione di abbreviare il termine entro il quale questa deve essere presentata; ciò al fine di tutelare i creditori da proposte meramente dilatorie.

Ancora più rilevante è il ruolo attribuito al Tribunale nel concordato con continuità aziendale (art. 186 bis l.fall.). In questa ipotesi il piano presentato dal ricorrente deve contenere anche un'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività d'impresa, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura; e la relazione del professionista deve attestare anche che la prosecuzione dell'attività d'impresa sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. È indubbio che il più articolato contenuto della proposta influisce sul sindacato che il Tribunale deve svolgere ai fini dell’ammissione della procedura, incidendo in particolare sul modo in cui si atteggia la valutazione della fattibilità del piano e integrandola con un giudizio, compiuto attraverso il diaframma dell’attestazione del professionista, teso a verificare se la prosecuzione dell’attività sia conveniente nella prospettiva dell’interesse dei creditori. Per altro verso, il Tribunale può in qualunque momento revocare la procedura ove l'esercizio dell'attività d'impresa sia cessato o risulti manifestamente dannoso per i creditori.

Le prerogative descritte rendono particolarmente invadente il sindacato del Tribunale, collocandolo ben oltre la soglia di un controllo di legittimità.

Tuttavia, come è stato osservato dalla Cassazione (Cass. Civ., sez. un., 23 gennaio 2013 n. 1521) le modifiche introdotte dal d.l. 22 giugno 2012 n. 83, pur avendo ampliato l’area di intervento del giudice, non hanno ridefinito il modo in cui si atteggia, nel concordato preventivo, la dialettica tra autonomia privata e controllo giudiziario.

Invero, il più incisivo ruolo del Tribunale nel concordato con riserva e nel concordato con continuità aziendale rappresenta semplicemente il contrappeso di misure – l’anticipazione di taluni effetti della procedura e la prosecuzione dell’attività di impresa – che, ove la procedura abbia esito negativo, potrebbero risultare pregiudizievoli per i creditori, aggravando il dissesto dell’imprenditore o ritardandone il fallimento. Tuttavia, se si considera che le due figure in esame sono state introdotte quali strumenti utili ad una soluzione concordataria della crisi di impresa, allora si deve riconoscere che la più ampia latitudine qui assunta dal sindacato giudiziario, in funzione di presidio degli interessi del ceto creditorio, risulta non già contrastante, ma convergente con un approccio che valorizzi la dimensione negoziale dell’istituto.

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