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Le recenti modifiche dei procedimenti relativi ai delitti con finalità di terrorismo o di eversione

Un intervento di Gianni Melillo, sostituto Procuratore Nazionale Antimafia su:

1. - Le ragioni dell’intervento legislativo. 2. - Le attività di ricerca della prova. a) - Segue: la disciplina delle intercettazioni. b) Segue: le operazioni sotto copertura. 3. - Le intercettazioni preventive. 4. - Il coordinamento investigativo, la competenza nella fase delle indagini preliminari e le disposizioni residue.


1. Una prima valutazione della complessa vicenda legislativa originata dall’emanazione del decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, non può non muovere dalla constatazione che l’assetto finale del testo risultante dalla conversione è largamente diverso da quello varato dal Governo .
Non vi stato articolo (se si eccettua l’art. 7, dettato al limitato fine di calibrare le condizioni di applicabilità della disposizioni in tema di misure di prevenzione sulla mutata dimensione della nozione legale di finalità di terrorismo) che non abbia subito modificazioni nel corso dell’esame parlamentare. In non pochi casi l’assetto finale delle soluzioni normative risulta profondamente diverso da quello inizialmente concepito dall’esecutivo.
L’estensione e la profondità del fronte delle correzioni di disciplina si riflettono direttamente sul piano del giudizio complessivo. Benché residuino incertezze ed incoerenze sistematiche che la delicatezza della materia (e la serietà delle istanze di adeguamento della politica criminale dello Stato imposte da fenomeni criminali, collegati alla drammatica evoluzione di più ampi scenari di conflitto internazionale, la gravità dei quali era da tempo segnalata dall’osservazione criminologica e dall’esperienza processuale, non solo italiana) avrebbero consigliato di rimuovere, ciò non di meno alcuni, persino allarmanti, tratti fondamentali dell’ispirazione originaria del provvedimento risultano notevolmente smussati e quasi cancellati.
Il riferimento cade immediatamente su quelle soluzioni normative sintomatiche di più generali tendenze ad una valorizzazione della funzione di prevenzione generale e delle prerogative degli organi di polizia realizzata a detrimento dell’effettività del ruolo di direzione investigativa del pubblico ministero, ma anche della funzione di garanzia connessa all’incisività ed alla tempestività del controlli giudiziari sull’agire di polizia. Il successivo esame delle novità introdotte nella conversione delle specifiche disposizioni dettate in tema di attività under covered ovvero di intercettazioni preventive varrà a riconoscere con particolare evidenza l’importanza dell’opera correttiva in tal modo realizzatasi.
Al valore di ciò si aggiunga che, se pure è vero che l’ampiezza (sino alle soglie dell’unanimità) dei consensi parlamentari non è in sé garanzia di ponderazione e saggezza (la produzione normativa in tema di processo penale realizzatasi nella XIII legislatura può offrire numerose conferme di ciò), il dibattito ha certamente risentito della condivisa consapevolezza che l’accelerazione della spinta repressiva provocata dal terrorismo internazionale pur sempre si muoveva lungo binari legislativi di sicura tranquillità costituzionale (e assolutamente lontani dalle torsioni, persino brutali, del sistema delle garanzie che, invece, hanno segnato le reazioni di altri ordinamenti), trattandosi, complessivamente, di definire condizioni e limiti di un sostanziale trasferimento nel campo della lotta al terrorismo (non solo internazionale) della strumentazione processuale sviluppatasi nell’ultimo decennio per contrastare le organizzazioni mafiose e le forme specifiche di criminalità organizzata oggetto di espressa equiparazione.
2. Il processo di assimilazione normativa al quale si è appena fatto cenno aveva già trovato rilevante espressione nelle innovazioni della disciplina del procedimento di proroga delle indagini preliminari, nonché della durata massima di queste (art. 1 d.l. 5 aprile 2001, n. 98), oltre che conferma nella riaffermazione (legge 13 febbraio 2001, n. 45) della rilevanza dei reati terroristico-eversivi nell’applicazione delle nuove norme in tema di protezione e trattamento di collaboratori e testimoni di giustizia (riducendosi appunto alle predette aree tipologiche la platea dei delitti rilevanti).
Con il d.l. 374/2001 quella tendenza si estende ora alle attività di ricerca della prova e ad altri significativi profili processuali, sino a giustificare una corrispondente modificazione del regime della legittimazione investigativa e della competenza del giudice per le indagini preliminari, ma si arrestata proprio sulla soglia dell’organizzazione normativa di una funzione di impulso e coordinamento investigativo affidata ad organi centrali l’importanza cruciale della quale era stata alla base della nascita del modello di riferimento.
a) Segue. L’articolo 3 proietta sulla materia in esame l’operatività della speciale disciplina delle intercettazioni di cui art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, altrimenti possibile soltanto sul presupposto dell’espansione logico-interpretativa della nozione “delitti di criminalità organizzata” contenuta in tale norma .
La scelta legislativa sembra dunque orientata verso un obiettivo di equiparazione normativa avuto di mira, però, sul presupposto di una chiara delimitazione, anche terminologica, dei campi criminali in rilievo.
Nella valutazione dell’opzione legislativa, occorre considerare, da un lato, l’assenza di una nozione generale di delitto criminalità organizzata (essendo questa rinvenibile all’esito di una compiuta ricognizione del quadro legislativo in contesti diversificati, oltre che, spesso, adoperata preservando una distinzione fra l’area precettiva in tal modo definita e la criminalità politica ); dall’altro lato, il valore dell’esigenza di circoscrivere, in coerenza con il principio di tassatività, la portata semantica di una nozione potenzialmente latissima .
Coerentemente, quel medesimo intento di equiparazione quoad effectum di ipotesi diverse è realizzato anche a proposito della disciplina della perquisizione di interi edifici o blocchi di edifici di cui all’art. 25-bis del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (art. 1, comma 2, del d.l. n. 374 del 2001) e dell’ammissibilità delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti al fine delle ricerche di un latitante (art. 6 del d.l. citato) pure originariamente prevista dal comma 3-bis dell’art. 295 c.p.p. con esclusivo riferimento ai reati di criminalità organizzata individuati attraverso il rinvio all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
b) Segue. La disciplina di cui all’art. 4 del d.l. n. 374 del 2001, dando vita ad un’ulteriore ipotesi speciale di operazioni sotto copertura riservata alle attività finalizzate all’acquisizione di elementi di prova in ordine ai delitti con finalità di terrorismo, conferma un’ormai consolidata tradizione di diffidenza per soluzioni normative unitarie ai delicati problemi posti dall’uso di queste tecniche investigative. Ancora una volta si è privilegiata l’esigenza di specifica considerazione dei peculiari profili problematici che le operazioni under covered assumono in relazione ai diversi settori di intervento.
Ciò non di meno, nella prospettiva di adattamento normativo interno connessa all’adozione della Convenzione integrativa sull’assistenza giudiziaria in campo penale dell’Unione Europea (Bruxelles, 29 maggio 2000) occorrerà, prima o poi, confrontarsi con la scelta di vincolare ciascuno Stato membro a garantire che, su richiesta di un altro Stato membro, possano essere effettuate consegne sorvegliate nel suo territorio “nel quadro di indagini penali relative a reati passibili di estradizione” (art. 12 Conv. cit.), ciò che equivale all’obbligo per ciascuno Stato di riconoscere nel proprio ordinamento l’ammissibilità di impiego di quelle particolari tecniche d’indagine in un amplissimo campo di ipotesi delittuose .
Quanto agli specifici contenuti delle disposizioni in rassegna, va immediatamente notato che esse sono quelle che più evidentemente riflettono lo sforzo parlamentare di attutire le originarie spinte governative verso l’esaltazione delle funzioni di polizia di prevenzione.
Tracce profonde di tale tendenza erano, infatti, rinvenibili nelle disposizioni del testo originario del decreto legge che prevedevano l’obbligo dell’amministrazione di polizia di dare comunicazioni al pubblico ministero limitatamente alla fase genetica dell’operazione sotto copertura e, una volta esauritasi questa, ai risultati della medesima, null’altro disponendo salvo l’ovvio richiamo alla necessità dell’autorizzazione dell’ufficio del p.m. al fine dell’eventuale differimento dell’esecuzione di atti coercitivi derivante dall’estensione alla materia in esame dell’applicabilità delle disposizioni dell’art. 10 del d.l. 31 dicembre 1991, n. 410, dettate per i reati di riciclaggio, estorsione ed usura.
In altri termini, si affacciava normativamente una concezione dell’istituto in esame sganciata da una obiettiva considerazione della concreta realtà investigativa (nella quale, sovente, le operazioni sotto copertura si innestano in un tronco già sviluppato e non precedono l’acquisizione della notizia di reato, tanto più se relative ad associazioni criminose, le quali, se pure rivolte programmaticamente alla commissione di delitti futuri, in sé concernono condotte già penalmente rilevanti), poiché insofferente alle ragioni di uno stretto raccordo fra le prerogative dell’amministrazione di polizia e quelle tipiche dell’autorità giudiziaria, invero del tutto ordinarie sul piano dei riferimenti di diritto comparato e già recepite dalle leggi speciali, secondo schemi differenziati che, dalla iniziale previsione dell’emanazione di “disposizioni di massima per il controllo degli sviluppi originarie” (art. 97 d.P.R. 309/1990), giungono all’estremo della necessità della preventiva autorizzazione del p.m. (art. 14 l. 269/1998) .
Le tracce più consistenti di quelle tendenze (alle quali, invero, hanno non poco contribuito pericolose concezioni invasive del ruolo del pubblico ministero nella concreta gestione di operazioni del genere di quelle in esame) sono state espunte dalla formulazione finale della novella legislativa ed il significato di ciò è ancora più significativo se si considera che l’esercizio delle competenze e delle funzioni di cui all’art. 4 del d.l. in parola deve comunque, come ovvio, raccordarsi con l’ordinario articolarsi dei rapporti fra pubblico ministero e polizia giudiziaria attorno al ruolo direttivo di quello (art. 327 c.p.p.)
In definitiva, se l’operazione è necessariamente approvata a monte da organi sottratti al rapporto di dipendenza funzionale tipico delle funzioni di p.g. e titolari esclusivi della responsabilità dell’attività di prevenzione generale, la realtà rivela la maggiore complessità degli interessi in gioco e la conseguente, intima correlazione fra l’organizzazione delle funzioni di prevenzione e la direzione delle indagini preliminari del pubblico ministero.
L’evidenza di ciò è tale che, in ogni caso, la reale portata delle scelte normative originari appariva comunque destinata a sfumare nella concreta esperienza applicativa, poiché la realtà delle indagini ordinariamente rivela che ben difficilmente un’operazione delicata e rischiosa quale quella che si realizza under covered può realizzarsi (e, di fatto, si realizza, salvo che nelle ipotesi di minor rilievo) senza un preliminare contatto con l’ufficio del p.m. finalizzato a sondare la non contraddittorietà dei fini e dei metodi dell’operazione preordinata rispetto alle complessive acquisizioni investigative e, non da ultimo, la sostanziale disponibilità del medesimo organo inquirente a riconoscere l’astratta corrispondenza dell’intervento ipotizzato a criteri che valgano a fondare il successivo riconoscimento dell’esimente speciale.
Ed infatti, pur in mancanza di diretti riferimenti ai generali poteri di direzione investigativa del pubblico ministero ovvero a più specifiche facoltà di impartire disposizioni del genere di quelle richiamate dal citato art. 97 del testo unico in materia di stupefacenti, quella medesima realtà contribuisce a rendere ancor più evidente il significato della specifica previsione secondo la quale l’organo che dispone l’esecuzione dell’operazione (che è comunque tenuto a “dare preventiva comunicazione al pubblico ministero competente per le indagini” dell’operazione medesima, indicando “se necessario o se richiesto” anche il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria responsabile e degli eventuali ausiliari impiegati) deve comunque informare “senza ritardo” il pubblico ministero “nel corso dell’operazione delle modalità e dei soggetti che vi abbiano partecipato, nonché dei risultati della stessa”.
Al di là del dubbio rigore della costruzione sintattica (se l’informativa è dovuta “nel corso dell’operazione” il riferimento ai soggetti partecipi non avrebbe dovuto essere reso con una formula verbale che presuppone l’avvenuto completamento delle medesime attività), la dettagliata regolamentazione dell’oggetto, dei tempi e delle modalità delle comunicazioni spettanti al pubblico ministero rivela la sua obiettiva funzionalità proprio alla luce dell’esigenza prima richiamata di imporre un continuo raccordo delle prerogative degli organi di polizia e di quelle dell’ufficio giudiziario titolare della potestà direttiva delle indagini preliminari, oltre che in relazione a concorrenti preoccupazioni di tutela dell’effettività dei limiti legali posti, in funzione di garanzia, all’utilizzazione di così incisive tecniche investigative.
Non sembra, invece, avere destato particolare attenzione nel dibattito parlamentare la disposizione del decreto legge che obbliga gli organismi investigativi specializzati nella lotta al terrorismo chiamati a dare attuazione alle operazioni disposte dal vertice delle rispettive strutture amministrative a dare a queste ultime “immediata comunicazione dell’esito dell’operazione”.
La norma, priva di precedenti (non soltanto riferiti alla specifica materia delle operazioni sottocopertura), trova evidente ispirazione nell’esigenza che l’organo titolare della responsabilità di dare avvio all’operazione speciale abbia anche, formalmente quanto tempestivamente, conoscenza dei risultati conseguiti onde orientare l’esercizio di autonome prerogative .
Non sembra, tuttavia, che il concreto adempimento del dovere di comunicazione appena richiamato possa prescindere dall’osservanza delle ordinarie norme in tema di segreto investigativo, sì che, se pure l’introduzione di uno speciale titolo di conoscenza di fatti e circostanze suscettive di rilievo processuale legittima la conoscenza dei contenuti e delle modalità della specifica operazioni, in ogni caso la rappresentazione dei fatti resa ai fini predetti non potrà automaticamente proiettarsi oltre i confini obiettivi delle attività autorizzate, così coinvolgendo il contenuto di fonti di prova ancora riservate, ciò che assume speciale rilievo nei casi nei quali il delitto per il quale si procede, per sua natura o per le concrete modalità di realizzazione, si inquadra in più ampi scenari investigativi che necessariamente coinvolgono le responsabilità del pubblico ministero .
A finalità di maggiore controllo dell’agire investigativo di polizia va ricondotta anche la scelta parlamentare di ammettere la possibilità di un intervento della polizia giudiziaria nelle operazioni finalizzate ad acquistare, ricevere, sostituire, occultare denaro, armi, documenti, beni ovvero cose che siano oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o comunque ne ostacolino l’individuazione della provenienza o ne consentano l’impiego (art. 4, comma 1) “anche per interposta persona” anziché “anche indirettamente”, come prevedeva il testo originario.
La variazione descrittiva appena ricordata è tutt’altro che priva di rilievo, poiché implica la possibilità di un più incisivo controllo giudiziario e difensivo sulle modalità di simulazione delittuosa, esigendosi la specifica indicazione del canale di interposizione soggettiva, ma, soprattutto, la possibilità di ricondurre l’azione del soggetto interposto direttamente alla sfera di controllo della struttura di polizia che svolge l’attività di infiltrazione, sì da agevolare, attraverso la precisa delimitazione dei contorni obiettivi e soggettivi dell’intermediazione, l’accertamento delle condotte effettivamente ascrivibili ai partecipi delle attività delittuose oggetto d’indagine.
Né il richiamo alla possibilità di interposizione soggettiva (ovviamente, di regola, ricercata, nei medesimi ambienti nei quali l’azione sotto copertura si svolge), né, tanto meno, la previsione dell’impiego di “ausiliari” (che è nozione tecnica non suscettiva di applicazioni improprie) possono, in ogni caso, valere ad individuare nuove possibilità di soluzione ai delicati problemi connessi alla sorte processuale dei soggetti legati alla polizia giudiziaria operante da rapporti confidenziali e per ciò in vario modo coinvolti in attività di collaborazione operativa rilevanti sul piano giuridico-penale.
L’aspettativa di impunità per tale ultimo genere di condotte resta dunque interamente affidata all’operatività delle cause di giustificazione generali.
Piuttosto, va sottolineato che, essendo riservata ai soli ufficiali di polizia giudiziaria l’esimente speciale di cui al comma 1, il successivo comma 2 discorre della facoltà, questa volta attribuita sia agli ufficiali che agli agenti di polizia giudiziaria, di utilizzare, per “le stesse indagini di cui al comma 1”, “documenti, identità o indicazioni di copertura”, tale possibilità prevedendo “anche” al fine di “attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione”.
La contraddizione tra le due disposizioni appare obiettiva ed è acuita dall’ulteriore tassativo riferimento ai soli ufficiali di p.g. contenuto nel comma 4 che pure rinvia alle “operazioni indicate nei commi 1 e 2”.
Essendo le norme in tema di esimenti non suscettive di dilatazioni interpretative, deve ritenersi che l’effettuazione delle operazioni sotto copertura continui ad esigere, anche in questa materia, il possesso in capo al soggetto operante della qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, sì che la citazione del ruolo degli agenti di polizia giudiziaria deve ritenersi riferita al solo uso di documenti , identità o indicazioni di copertura strumentali all’esecuzione delle operazioni di attivazione dei contatti telematici previste dal comma 2, senza ulteriori coinvolgimenti investigativi. La delicatezza della materia avrebbe comunque suggerito maggiore rigore espressivo del legislatore.
Brevi considerazioni vanno riservate alle riserve di normazione secondaria di cui alle ultime parti del quarto comma dell’art. 4.
La previsione concernente la definizione, affidata ad un decreto interministeriale, dei criteri di autorizzazione all’uso temporaneo di beni mobili ed immobili e di documenti di copertura, oltre che delle relative modalità corrisponde ad obiettive quanto opportune esigenze di responsabilizzazione dell’amministrazione di polizia sul terreno del concreto apprestamento dei mezzi materiali non raramente nella prassi occupato da pericolosi quanto impropri coinvolgimenti del pubblico ministero.
Sarebbe, anzi, auspicabile che l’operatività delle previsioni secondarie appena evocate fosse estesa anche alle attività organizzative strumentali ad operazioni sotto copertura realizzabili in forza di altri titoli normativi.
Parimenti opportuna appare, con riferimento alla riserva di regolamentazione relativa alle modalità di coordinamento degli organismi investigativi abilitati alle operazioni under covered, la soppressione dell’ambiguo riferimento contenuto nel testo originario del decreto alla considerazione dovuta al suddetto fine per non meglio indicate “specifiche esigenze investigative”.
Considerazioni terminali vanno riservate al tema della tutela della segretezza dell’identità degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che agiscono sotto copertura.
Al suddetto fine, l’ultimo comma dell’art. 5 introduce una nuova figura incriminatrice consistente nella rivelazione indebita dell’identità degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria che effettuano le operazioni sotto copertura realizzata “nel corso delle operazioni” medesime.
L’ambito della tutela della segretezza dell’identità soggettiva appare dunque temporalmente limitato, sì da restare prive di considerazione le istanze di tutela dell’incolumità fisica dell’agente provocatore connesse al pericolo di ritardate ritorsioni criminali, ma anche l’esigenza pratica di non “bruciare” l’ufficiale di polizia giudiziaria rivelatosi concretamente idoneo all’esecuzione di incarichi così delicati e di consentirne un reimpiego investigativo .
Essendo oltremodo problematica la possibilità di prevedere che l’esame in dibattimento dell’agente provocatore (e di chi, richiesto, gli abbia prestato assistenza o collaborazione) possa svolgersi, sul modello della legislazione tedesca o svizzera o spagnola, con modalità tali da precluderne l’identificazione soggettiva da parte della difesa e del giudice, la sicurezza dell’operatore di polizia potrebbe, forse, trovare maggiore considerazione in un sistema che prevedesse la conoscibilità dei dati identificativi da parte soltanto del difensore (ad esempio, prevedendosi la conservazione dei dati in appositi registri riservati, conservati presso l’ufficio del p.m., ma accessibili al difensore) .
3. L’art. 5 estende all’attività di prevenzione dei delitti con finalità di terrorismo e di eversione (in generale individuati nel decreto attraverso il sistematico rinvio all’art. 407, comma 2, lett. a, n. 4, c.p.p.) la possibilità di impiego dello strumento delle intercettazioni in precedenza riservata alla materia dei “delitti di mafia”, nel contempo riscrivendo le regole in tema di presupposti e limiti delle relative attività, avendo di mira esigenze di garanzia la considerazione delle quali era da tempo sollecitata nella prospettiva della valorizzazione dello strumento .
La collocazione prescelta per l’inserimento della nuova disciplina generale delle intercettazioni preventive (l’art. 226 disp. att. c.p.p., dettato al fine di preservare la legittimazione assegnata in questa materia all’Alto Commissario per il coordinamento della lotta alla delinquenza mafiosa dall’art. 1 del d.l. n. 629 del 1982 in relazione all’art. 226-sexies del codice previgente) appare impropria (dal momento che non si rinvengono le finalità tipiche delle disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di rito) e contraddittoria (atteso che analogo effetto di equiparazione normativa è realizzato nel medesimo decreto intervenendo sul testo normativo fonte della disciplina che si innova, come dimostra la lettura dell’art. 3).
Più adeguata ed agevole sede normativa era offerta dall’art. 25-ter del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, invece abrogato dopo averne trasferito contenuti e finalità nella nuova disciplina.
Il primo comma dell’articolo 5 presenta un corpo normativo complesso, disciplinando: la legittimazione degli organi richiedenti (estesa, rispetto alle previsioni del 1992, al comandante provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza), le finalità della richiesta (la necessità di acquisire notizie utili alla prevenzione dei delitti di terrorismo e di mafia), l’oggetto della medesima (la captazione di comunicazioni o conversazioni, anche telematiche, nonché fra persone presenti, anche in luoghi di dimora privata), nonché la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria titolare dell’insostituibile potere di autorizzazione.
A tale ultimo proposito, va osservato che i criteri accolti (la competenza spetta al procuratore della Repubblica presso il tribunale avente sede nel capoluogo del distretto nel quale si trova il soggetto da sottoporre a controllo, ovvero, se la determinazione territoriale non è possibile per tale via, del distretto nel quale sono emerse le esigenze di prevenzione) sembrano rivelare una sorta di non dichiarata, ma obiettiva propensione a favorire la concentrazione del flusso delle richieste dinanzi al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Il rilievo di ciò emerge obiettivamente se si considerano, da un lato, i limiti obiettivi della capacità di “presa” del criterio principale connessi alla diffusione della telefonia cellulare ed alla moderna mobilità delle persone e, dall’altro lato, gli effetti della scelta di cristallizzare in via sussidiaria la competenza con riferimento al distretto nel quale “emergono” le esigenze di prevenzione, così aprendosi la strada ad interpretazioni tese a privilegiare il luogo di acquisizione ed elaborazione delle notizie che fondano l’iniziativa di polizia (sì che il criterio in parola potrebbe sprigionare tutte le sue intrinseche inclinazioni applicative, in ragione dell’ordinaria confluenza dei flussi informativi, soprattutto quelli di origine estera e di maggiore rilievo, innanzitutto verso le sedi centrali dei servizi di informazione, oltre che del Ministro dell’interno e dei servizi centrali di polizia).
Al di là del valore letterale della formula adoperata, l’interpretazione del criterio anzidetto riferita al luogo nel quale le esigenze di prevenzione vengono individuate potrebbe trarre alimento indiretto dalla valutazione del significato storico del rigetto degli emendamenti tesi a riequilibrare il riparto delle competenze introducendo la preliminare considerazione del luogo “al quale si riferiscono le esigenze di prevenzione” e riservando l’operatività di quello della “emersione” delle medesime esigenze al solo caso della riferibilità di queste ultime a più distretti .
Nella valutazione della portata semantica dell’ambigua espressione descrittiva adoperata non potrà, tuttavia, non considerarsi il valore della rimozione della originaria divaricazione tra la sfera territoriale dell’ufficio titolare della legittimazione alle indagini sui delitti di terrorismo e di mafia (nel testo del Governo lasciata a tutte le procure della Repubblica) e quella dell’organo titolare della specifica potestà autorizzatoria (in ogni caso, il procuratore presso il Tribunale del capoluogo del distretto) e, per tale via, dunque, il rilievo dell’esigenza, di indubbio risalto sistematico, di evitare improprie sovrapposizioni e valutazioni inadeguate delle esigenze di prevenzione, poiché non sorrette dalle conoscenze che progressivamente si accumulano sul piano investigativo.
Il comma 2 regola le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione richiesta. La nozione di “sospetto” originariamente proposta dal Governo (e sopravvissuta all’esame in prima lettura della Camera dei Deputati) è stata sostituita da quella di “elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione”, in ciò dovendosi con evidenza scorgere un preventivo giudizio di inidoneità di quanto appartiene al mondo delle congetture e delle illazioni.
L’introduzione della successiva locuzione “e lo ritenga necessario”, riferita al sistema di valutazioni dell’autorità giudiziaria, equivale ad un aperto ripudio altresì delle forzature insite nelle originarie previsioni governative che tendevano, invece, ad esaurire la discrezionalità giudiziaria nella valutazione della mera sussistenza dei sospetti prospettati dall’organo titolare del potere di iniziativa, con conseguente esclusione di ogni profilo di opportunità investigativa.
Alle esigenze di garanzia prima richiamate corrisponde l’obbligo di motivare il rilascio delle autorizzazioni e delle successive, eventuali proroghe. Generali principi di trasparenza dell’esercizio di funzioni pubbliche (tanto più se riferite al bilanciamento di interessi di rango costituzionale) fondano l’opportunità di documentare anche le ragioni dell’eventuale diniego.
Ad analoghe istanze di rigorosa documentazione e verificabilità della corrispondenza dell’agire preventivo ai limiti dell’autorizzazione ricevuta corrisponde il regime di documentazione stabilito dalle norme del secondo capoverso dell’articolo in esame.
Il mancato richiamo del comma 2 in sede di definizione delle condizioni e delle modalità di autorizzazione al tracciamento delle comunicazioni telefoniche e telematiche, nonché all’acquisizione dei dati esterni relativi alle medesime comunicazioni (art. 4, quarto comma) non vale a modificare i requisiti obiettivi del potere di apprezzamento discrezionale del procuratore della Repubblica, né ad esonerare il medesimo dall’onere di motivazione ivi prescritto. Lo impone il rango costituzionale del bene individuale esposto ad invasione autoritativa, ma lo suggerisce anche l’esigenza di raccordo sistematico delle disposizioni in esame, vieppiù rilevante se stimata a stregua della scelta generale di modellare il regime delle intercettazioni preventive su quello delle analoghe attività a fini di prova.
Incerta appare invece la soluzione da dare ai delicati problemi connessi alla disciplina dell’utilizzazione degli esiti delle captazioni preventive.
La ragionevole lettura offerta all’indomani dell’emanazione del d.l. in esame , secondo la quale l’inutilizzabilità, anche nella fase delle indagini preliminari, delle intercettazioni non escludeva la possibilità di documentare le notizie di reato per quella via acquisite deve ora fare i conti con la complessità e la contraddittorietà delle inserzioni operate nella fase della conversione del decreto.
In tale fase, infatti, accanto all’espressa menzione della utilizzabilità a “fini investigativi” degli elementi acquisiti attraverso le intercettazioni sono stati introdotti, nel chiaro sforzo di sbarrare ogni accesso, per quanto indiretto e limitato, alla cognizione del giudice, divieti (di menzionare in atti d’indagine le attività di intercettazione e le notizie acquisite a seguito delle stesse, ma anche di rendere le une e le altre oggetto possibile di deposizione) che finiscono per svuotare di pratica operatività le finalità investigative che pure si dichiara di voler preservare.
Il divieto di menzione degli esiti delle intercettazioni in “atti d’indagine”, in particolare, rende assai problematica, infatti, l’utilizzabilità dei medesimi per aprire la strada a successive attività di ricerca della prova, valendo l’impossibilità di documentazione che ne discende ad impedire che gli elementi acquisiti in sede di indagine preventiva possano non soltanto concorrere a giustificare il ricorso ad intercettazioni probatorie (come invece si è costantemente ritenuto in costanza dei regimi previgenti), ma anche, preliminarmente, a giustificare l’avvio delle indagini preliminari, non potendo i medesimi concorrere alla formazione di notitiae criminis come tali oggetto di doverose comunicazioni scritte.
Infine, la tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti nelle comunicazioni captate a fini di prevenzione è alla base della novità dell’incriminazione delle condotte di divulgazione indebita e di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni.
4. La complessità della manovra legislativa si coglie appieno passando in sintetica rassegna le altre modifiche apportate alla disciplina dei procedimenti relativi ai delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
a) Notevole è il peso delle modificazioni apportate al testo originario in punto di legittimazione investigativa e competenza.
L’importanza del tema del coordinamento, soprattutto con riguardo alle indagini in materia di terrorismo internazionale, al centro di circuiti di collaborazione internazionali che naturalmente prediligono riferimenti nazionali unitari, era rimasta priva di ogni considerazione all’atto dell’emanazione del decreto legge.
La concentrazione della legittimazione investigativa in capo agli uffici di procura distrettuali (ma non alle direzioni distrettuali antimafia che dei medesimi sono articolazione funzionalmente proiettata verso l’esercizio dell’azione penale nei soli casi individuati dal comma 3-bis dell’art. 51 c.p.p.), introdotta in sede di conversione dalla Camera dei Deputati, vale senz’altro a ridimensionare la serietà delle preoccupazioni suscitate dalla scelta originaria, rimanendo irrisolto, tuttavia, il nodo del coordinamento interdistrettuale, non risultando appagante il rinvio alla debole strumentazione offerta dall’art. 118-bis disp. att. c.p.p. e a modelli di organizzazione delle relative funzioni la tendenziale atrofia dei quali è spesso rivelata dalla prassi.
In ogni caso, la distrettualizzazione della legittimazione alle indagini ha trovato una coerente integrazione, nel corso dell’esame del Senato, nella ulteriore previsione che riserva l’esercizio delle funzioni di giudice per le indagini preliminari ai magistrati del tribunale del capoluogo del distretto (art. 328, comma 1-ter, c.p.p.), secondo regole di riparto di natura funzionale equiparate a quelle in tema di competenza per materia .
b) Le ultime osservazioni concernono le norme in tema di notificazioni degli atti e, infine, una serie di eterogenee disposizioni, che, al pari di altre già richiamate, partecipano alla realizzazione del più generale processo di assimilazione normativa perseguito dal legislatore avendo di mira la disciplina dei procedimenti relativi ai delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
A tale categoria residuale appartengono le norme in tema di: partecipazione al dibattimento a distanza (art. 8, comma 1, lett. a), di esame in dibattimento delle persone che collaborano con la giustizia (art. 8., comma 1, lett. b), nonché delle persone indicate dall’art. 210 c.p.p. (art. 8, comma 1, lett. c), nonché, infine, di disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato (art. 10-bis, comma 4, ultima parte).
Non ha trovato il consenso parlamentare la disposizione del comma 2 dell’art. 8 del testo originario che (abrogando l’art. 6 del d.l. 7 gennaio 1998, n. 11 e succ. mod.) rendeva permanente l’efficacia sia delle norme di in tema di partecipazione alle attività processuali a distanza e di esame mediante video-conferenza di collaboratori di giustizia e imputati di reati connessi sia, per effetto del richiamo di cui al comma 1-bis, del regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen.
La soppressione della citata disposizione vale a precludere la rinnovazione del dibattito sulla compatibilità di quegli istituti con le garanzie costituzionali in tema di diritto alla difesa, agevolmente riconoscibile sul presupposto dell’eccezionalità di quelle regole e del valore temporalmente limitato del loro impatto derogatorio. Nel contempo, la soluzione acuisce l’esigenza di stabile armonizzazione degli speciali regimi normativi.
Infine, quanto alla materia delle notificazioni, l’effetto di pratico sconvolgimento delle prassi giudiziarie connesso all’iniziale, mera previsione del divieto per il giudice di avvalersi della polizia giudiziaria nei casi di urgenza è stato notevolmente ridimensionato attraverso l’introduzione di un più articolato piano di previsioni integrative volte a contemperare le esigenze processuali con quella, esaltata dalla nuova emergenza criminale, di sollevare gli organi di polizia dal peso di compiti burocratici.
Innanzitutto, è ora ammessa in via generale (dal novello comma 2-bis dell’art. 148 c.p.p.) la possibilità di eseguire “con mezzi tecnici idonei” notificazioni ed avvisi al difensore, correlativamente riducendosi la portata applicativa del più timido art. 150 c.p.p. (a questa novità è obiettivamente connessa la coeva abrogazione della rigida e ormai ingiustificata prescrizione di cui all’art. 65 delle disposizioni di attuazione del codice di rito.
In secondo luogo, è stata reintrodotta (ex art. 148, comma 2-ter c.p.p.) la facoltà per il giudice di utilizzare in caso di urgenza della notificazione la polizia giudiziaria nei procedimenti davanti al tribunale del riesame, ancorché circoscrivendo il vincolo funzionale al personale delle sezioni di polizia giudiziaria presso le procure.
Ulteriori semplificazioni delle attività di notificazione derivano, limitatamente alle procedure che si svolgono dinanzi alla magistratura di sorveglianza (ma secondo schemi suscettivi di future, più ampie applicazioni ), dalla norma (art. 8, comma 2-bis) che impone al condannato che non sia detenuto di dichiarare od eleggere domicilio all’atto dell’istanza di concessione di misura alternativa alla detenzione o di altro provvedimento attribuito dalla legge alla magistratura di sorveglianza.

Giovanni Melillo
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