CORTE D’ASSISE D’APPELLO di VENEZIA SECONDA SEZIONE Ordinanza 20 marzo 2006
questione di legittimità costituzionale dell’art. 593. 1 e 2 comma c.p.p., nel
testo modificato dall’art. 1 della legge n. 46 del 20.2.2006, in riferimento
agli artt. 3 e 111.2 Cost., nella parte in cui non consente l’appello del
pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, anche nei casi diversi
da quello solo previsto dal secondo comma.
CORTE D’ASSISE D’APPELLO di VENEZIA
SECONDA SEZIONE
La Corte,
composta dai Magistrati
Luigi LANZA Presidente
Carlo CITTERIO Consigliere estensore
Graziano RASCACCI Giudice popolare
Sandro SANDRI “
M.Teresa VIZZOTTO “
Osvaldo ZAUPA “
Enrico GRENDENE “
Sergio DE RIVA “
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel procedimento a carico di MINCIUNA RUSLAN alias POSTULAKI YURI, n. a Straseni
(Moldavia) il 23.6.1980, contumace;
1. Il MINCIUNA è accusato di avere, in concorso con altri, ucciso a sprangate un
cittadino italiano e tentato di uccidere un cittadino tunisino, anche rapinato.
Con sentenza del 23 maggio - 8 luglio 2005 la Corte d’assise di Verona lo ha
assolto da tutte le imputazioni, richiamando anche nel dispositivo i criteri di
valutazione della prova di cui al capoverso dell’art. 530 c.p.p.. Il Pubblico
ministero, che ne aveva chiesto la condanna all’ergastolo con isolamento diurno,
ha proposto un articolato atto di appello nel quale oltre che contestare la
logicità delle argomentazioni del primo Giudice, propone deduzioni che
dovrebbero sorreggere un apprezzamento di merito del tutto diverso, in
particolare sul punto centrale del processo, l’attendibilità da attribuire ai
due testi che hanno dichiarato di aver riconosciuto l’imputato come compartecipe
dell’aggressione.
Nelle more della trattazione di questo processo in secondo grado è entrata in
vigore la legge 20.2.2006 n. 46, che ha escluso il potere della parte pubblica
di impugnare con il mezzo dell’appello le sentenze di proscioglimento, salvo il
caso qui non pertinente della prova nuova scoperta nel periodo che va dalla
deliberazione della sentenza di primo grado alla scadenza del termine per
impugnare, così innovando l’art. 593 c.p.p..
Tale legge ha pure espressamente disciplinato il regime transitorio,
differentemente da quanto era accaduto con la provvisoria precedente
modificazione introdotta allo stesso articolo 593 c.p.p. dall’art.18 legge
24.11.1999 n. 468, prevedendo al primo comma dell’art. 10 l’applicazione anche
ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, e quindi
prevedendo ai commi 2 e 3 le modalità della dichiarazione di inammissibilità
degli appelli avverso le sentenze di proscioglimento non definiti, e una sorta
di restituzione nei termini per proporre, in tali casi, il ricorso per
cassazione.
Oggi questa Corte distrettuale dovrebbe pertanto deliberare l’ordinanza di
inammissibilità di cui al secondo comma dell’art. 10.
La parte pubblica ha tempestivamente depositato memoria con cui chiede sia
sollevata la questione di legittimità del nuovo testo dell’art. 593 c.p.p. e
della disciplina transitoria, con riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost..
Oggi le parti hanno concluso come in atti.
2. Poiché la deliberazione di inammissibilità dell’appello costituisce
certamente momento di esercizio della giurisdizione, deve prendersi
preliminarmente atto della rilevanza della questione nel presente giudizio: la
sua decisione, infatti, è idonea ad imporre la cessazione o la prosecuzione di
questo specifico processo di appello.
3. Osserva questo Giudice distrettuale che vi è già una giurisprudenza della
Corte delle leggi che consente una prima ‘scrematura’ dei possibili punti
dell’argomentare tecnico-logico anche riproposto dalla parte pubblica nella sua
memoria.
In sintesi, la Corte costituzionale ha finora insegnato che <la diversità dei
poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all’imputato ed al pubblico
ministero, è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro
assicurata dagli artt. 24 e 112 della Costituzione>. E anche se <il potere di
impugnazione è un’estrinsecazione ed un aspetto dell’azione penale (la cui
obbligatorietà è costituzionalmente imposta e quindi garantita dall’art. 112
Cost.), tuttavia è escluso che esso debba configurarsi in modo simmetrico
rispetto al diritto di difesa dell’imputato>, perchè <le funzioni (del pubblico
ministero) non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate
all’imputato dall’art. 24 della Costituzione, il quale non riguarda l’organo di
accusa>, mentre <solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero
risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 Cost>
potrebbe essere censurata per irragionevolezza la configurazione dei poteri del
pubblico ministero (Sentenza n.98 del 1994, con riferimento anche alle Sentenze
177 del 1071 e 363 del 1991).
Ancora, la Corte ha ribadito in particolare che <il potere di appello del
pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale
come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado
abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa - una proiezione
necessaria ed ineludibile … un’estrinsecazione e una conseguenza necessaria,
configurante un nuovo dovere, il dovere di esercitare l’azione penale> (Sentenza
n. 280 del 1995, anche con riferimento alla sentenza 177 del 1971). Sia solo
consentito osservare che l’affermazione è pienamente condivisibile, laddove
altrimenti si dovrebbe necessariamente concludere per la costituzionalizzazione
del doppio grado di giurisdizione di merito per la sola parte pubblica, in virtù
dell’art. 112 Cost..
Che pertanto né l’art. 3 né l’art. 112 della Costituzione costituiscano, per sé,
parametri costituzionali idonei ad imporre l’assoluta omogeneità della
disciplina del potere di impugnazione tra la parte privata-imputato e la parte
pubblica-p.m. è affermazione/insegnamento che può darsi ormai per acquisito.
Ciò pure dopo la modifica dell’art 111 Cost., perché la stessa Corte
costituzionale ha ribadito tale insegnamento anche successivamente a
quell’innovazione costituzionale, già con la Sentenza n.115 del 2001 ma
specialmente con l’Ordinanza n. 421 del 3 - 21 dicembre 2001.
Con tale ultima pronuncia il Giudice delle Leggi ha espressamente avvertito che
<l’attuale secondo comma dell’art 111 Cost, inserito dalla legge costituzionale
23 novembre 1999 n.2 - nel conferire veste autonoma ad un principio, quale
quello della parità delle parti, pacificamente già insito nel pregresso sistema
dei valori costituzionali - non ha inciso sulla validità dell’affermazione, cui
si è costantemente ispirata in precedenza la giurisprudenza di questa Corte, in
forza della quale il principio di parità tra accusa e difesa non comporta
necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e
quelli dell’imputato: infatti una disparità di trattamento può risultare
giustificata … sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico
ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse
alla corretta amministrazione della giustizia>.
Ciò vale anche, in particolare, per determinati casi di preclusione dell’appello
del pubblico ministero, <nella cornice di un sistema nel quale il doppio grado
di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale e il
potere di impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione
necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale> (affermazione
ormai appunto consolidata; tra le altre, Ordinanze n. 83 del 2002, n.165 del
2003 e n. 46 del 2004).
L’Ordinanza 421/01 attesta quindi un ulteriore contenuto dell’insegnamento ormai
costante della Corte delle Leggi sulla materia del potere di impugnazione, che
merita di essere ben evidenziato: per nessuna delle parti del processo esiste un
diritto al doppio grado di giurisdizione nel merito che abbia fonte
costituzionale o internazionale e pertanto che, per sé, giustifichi ed anzi
imponga il diverso trattamento delle parti (ciò con riferimento in particolare
agli artt. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui
alla legge n. 881 del 1977; 5, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 2 del suo protocollo n
7, che anzi prevede l’espressa possibilità della limitazione del diritto al
doppio grado di giurisdizione in materia penale nel caso di condanna che segua
una precedente sentenza di proscioglimento).
Altro corollario che emerge dalla richiamata Ordinanza n 421 del 2001 è la
reiezione della tesi di chi sostiene che il riferimento alla parità delle parti,
introdotto nell’art. 111 Cost., sarebbe limitato al contraddittorio.
Quando infatti la Corte delle Leggi insegna che il principio introdotto nel
secondo comma dell’art. 111 è null’altro che la veste autonoma data al principio
già pacificamente insito nel sistema dei valori costituzionali (con riferimento
inequivoco all’art. 3 Cost. ed alle sue applicazioni anche in materia
procedimentale), conferma che quel principio ha ambito assolutamente generale,
non limitato alla sola posizione delle parti rispetto al diritto al
contraddittorio. Del resto, anche la lettera della norma del comma 2 dell’art.
111 Cost. conferma che la successione delle enunciazioni è successione di
diritti distinti e con contenuto differente (il diritto al contraddittorio, il
diritto al pari trattamento - nel limite della ragionevolezza già proprio
dell’art. 3 Cost. -, il diritto ad avere un giudice terzo ed imparziale - non
solo per ciò che attiene il contraddittorio!-).
4. Può quindi esservi un trattamento differenziato tra le parti processuali, con
attribuzione di poteri diversi, anche per quanto riguarda specificamente il
potere di impugnare, senza che tale diversità, per sé sola, si ponga in
contrasto con la Costituzione.
E certamente il parametro costituito dall’art. 112 della Costituzione non fonda,
per se stesso, un diritto costituzionalmente garantito o addirittura imposto per
riconoscere alla parte pubblica il potere di impugnare sempre e con ogni mezzo
possibile, in particolare con l’appello volto ad ottenere un secondo giudizio di
merito.
5. L’insegnamento giurisprudenziale della Corte delle Leggi, secondo cui è
costituzionalmente ammissibile il trattamento differenziato tra le parti
processuali, con attribuzione di poteri diversi anche per quanto riguarda
specificamente il potere di impugnare, è stato tuttavia fino ad oggi sempre
accompagnato da una fondamentale precisazione e delimitazione: il limite della
ragionevolezza con riferimento:
- alla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero
- alla funzione a lui affidata
- ad esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
Questi tre parametri - insegnati per la prima volta nella Sentenza 190 del 1970,
quando la Corte ha chiarito che, pur agendo a tutela dell’interesse generale
all’osservanza della legge, il pubblico ministero di fronte al giudice doveva
essere considerato parte, risultando quel suo interesse comunque dialetticamente
contrapposto a quello dell’imputato - erano stati individuati come ragioni che
giustificavano l’attribuzione di maggiori e comunque diversi poteri alla parte
pubblica (nel caso di specie eliminando la preclusione allora vigente per la
partecipazione del difensore all’interrogatorio dell’imputato davanti al giudice
istruttore, ritenuta non correlata ad alcuno dei tre parametri).
Nella giurisprudenza successiva essi risultano richiamati anche per
giustificare, sempre sul piano della ragionevolezza, la contrazione dei poteri
del pubblico ministero rispetto a quelli accordati all’imputato, tuttavia sempre
precisandosi che la differenziazione di cui volta per volta si trattava doveva
trovare giustificazione in un parametro/valore/contesto specifico che desse
ragionevolezza alla contingente disparità di trattamento.
L’esame della giurisprudenza anche prima richiamata - se si è riusciti a
ricostruirla fedelmente - impone infatti di constatare che ogniqualvolta la
Corte delle Leggi ha, fino ad oggi, dichiarato conforme all’art. 3 (e poi anche
all’art. 111.2 Cost.) la limitazione del potere di appello attribuito al
pubblico ministero, contestualmente non solo ha richiamato in via di principio
l’esigenza della ragionevolezza per la differenziazione, ma anche ha ogni volta
espressamente indicato la ragione sistematica che nel singolo caso giustificava
quella differenziazione.
Ciò è accaduto in tutte le pronunce che hanno respinto le questioni
reiteratamente proposte, afferenti i limiti all’appello principale ed
all’appello incidentale della parte pubblica avverso le sentenze di condanna
conseguenti a giudizio abbreviato.
In sintesi, la Corte costituzionale ha sostanzialmente sempre affermato che
quelle limitazioni erano ragionevoli posto che, per contro, vi era l’obiettivo
primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo
grado secondo quel rito alternativo, rito che implicava una decisione fondata,
in primis e per scelta dell’imputato, sul materiale probatorio raccolto fuori
delle garanzie del contraddittorio dalla parte che subisce poi la limitazione
(ex plurimis, Ord. 421/2001).
Non sembra esistere pertanto ad oggi un’affermazione/insegnamento della Corte
delle Leggi che possa essere invocato per affermare esservi già nel sistema il
principio della conformità a Costituzione di una disparità di poteri basata
sulla mera diversa qualità della parte pubblico ministero o imputato.
Anzi, potrebbe paradossalmente concludersi che, allo stato, vi è l’affermazione
di un principio opposto; perché altrimenti risulterebbero superflue e
irrilevanti le argomentazioni finora utilizzate dalla Corte per dare compiuto e
specifico conto, appunto volta per volta, del peculiare contesto procedimentale
che, solo, rendeva razionale la differenziazione sottoposta al suo contingente
esame.
Approccio e fatica motivazionale che sarebbero stati del tutto inutili, ove la
mera diversa qualità (l’uno imputato, l’altro parte pubblica) avesse, per sé,
giustificato la disparità di trattamento.
6. Tutto questo spiega perché, per adempiere all’obbligo di valutazione che è
riservato a questo Giudice di appello, quello della non manifesta infondatezza
della questione proposta, occorra verificare la sussistenza di ragioni che
rendano palesi la ragionevolezza del nuovo intervento legislativo, laddove ha
eliminato il potere di appello del pubblico ministero, al di fuori del limitato
ed invero eccezionale caso di una prova nuova e decisiva che venga scoperta nel
limitatissimo tempo intercorrente tra la deliberazione della sentenza di
proscioglimento e la scadenza del termine per impugnare.
6.1 Sembra a tale scopo corretto e doveroso muovere dalla fonte costituita dal
testo integrale della Relazione sulla proposta di legge n 4604-C, allegata al
verbale della seduta 30.1.2006.
Dando anche conto dei rilievi sul punto contenuti nel messaggio del Capo dello
Stato alle Camere del 20.1.2006, le ragioni giustificanti la nuova disciplina
sembrano potersi riassumere nei seguenti argomenti:
- la giurisprudenza costituzionale;
- la riconducibilità del solo appello dell’imputato contro una sentenza di
condanna ad un diritto di rilevanza costituzionale (il diritto di difesa);
- l’impossibilità di riconoscere dignità costituzionale all’eventuale intento di
ottenere pervicacemente una sentenza di condanna nei confronti di un soggetto
già riconosciuto innocente al termine di un processo regolare;
- l’introduzione, con la nuova legge, del principio del ragionevole dubbio come
impedimento della sentenza di condanna, e la conseguente impossibilità di negare
tale ragionevole dubbio quando, per lo stesso fatto e per le stesse prove,
l’imputato sia già stato giudicato innocente da un giudice, specialmente quando
la riforma possa avvenire da parte di un giudice di appello che valuta solo
sugli atti, a fronte di una sentenza di primo grado emessa da un giudice in
presenza del quale le prove si sono formate.
La relazione spiega poi che l’eccezione relativa alla prova nuova sopravvenuta è
stata giustificata da <ragioni di giustizia sostanziale> mentre il mantenimento
del potere di impugnare le sentenze di condanna, da parte del pubblico
ministero, è giustificato dal fatto che pur con soccombenza parziale la
questione della colpevolezza è risolta nel senso positivo.
Orbene, sui punti del contenuto attuale della giurisprudenza costituzionale
sulla questione e della mancata costituzionalizzazione del doppio grado di
giurisdizione di merito per entrambe o anche una sola delle parti si è già
detto.
Gli argomenti sulla sofferenza che il processo penale impone e sulle
implicazioni del principio dell’ ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ provano invece,
come suol dirsi, ‘troppo’. E’ infatti ben vero che il processo penale è comunque
già in sé una sofferenza (anche per i notevoli costi economici che impone); ma
il sistema previsto ora dal Legislatore finisce con il comportare un aumento dei
gradi di giudizio ed un aumento dei suoi costi (di sofferenza e finanziari),
laddove rispetto ad una serie <primo grado – appello – cassazione>, si indica in
alternativa quella <primo grado – cassazione – ulteriore primo grado – appello –
cassazione>.
E se fosse condivisibile l’assunto sugli ‘inevitabili’ effetti di una prima
assoluzione in relazione al nuovo operare del principio dell’ ‘oltre ogni
ragionevole dubbio’, l’unica soluzione coerente sarebbe quella di limitare ogni
ulteriore seguito del processo al solo ricorso in cassazione per violazione di
legge, che non può essere evitato solo perché imposto dal penultimo comma
dell’art 111 Cost..
Il nuovo sistema, invece, mantiene integra la possibilità di una diversa
decisione di merito, sulla base delle stesse prove e per i medesimi fatti, solo
modificando come visto il percorso procedimentale.
E’ poi vero che l’attuale struttura del giudizio di appello risente
dell’originaria incapacità del legislatore del 1989 di adeguare questo grado di
impugnazione di merito ai mutati principi del processo in primo grado. Oralità
ed immediatezza per il primo grado, tendenzialmente “carta” per il giudice
d’appello (ancorché, va opportunamente evidenziato, il problema si pone solo per
i processi che in primo grado sono stati celebrati con il rito dibattimentale,
poiché per quelli svoltisi con rito abbreviato il comune confronto con le stesse
carte processuali priva di significativo rilievo l’osservazione, sicchè
l’osservazione stessa non ha comunque una valenza generale).
Si tratta però di un’incongruenza strutturale che sussiste anche nel caso di
riforma con accoglimento dell’appello dell’imputato, senza che possa qui
invocarsi il principio del favor rei, che attiene solo alla valutazione della
prova e non anche alla possibilità di utilizzare a proprio favore delle
eventuali disfunzioni della procedura, comuni e generalizzate.
La discussione parlamentare sulla legge 46/2006 ha pure sfiorato il dibattito
dottrinale e giurisprudenziale sull’esigenza della cosiddetta ‘doppia conforme’:
tesi per cui non si potrebbe essere condannati se non a seguito di due conformi
sentenze di merito, per dar modo all’imputato di non trovarsi ‘spiazzato’ da una
sentenza di condanna che intervenga per la prima volta in grado di appello,
quando pertanto non è poi più possibile controbattere eventuali nuovi
apprezzamenti di stretto merito contenuti nella sentenza di prima condanna.
Sul punto deve tuttavia osservarsi:
a) che la stessa giurisprudenza di legittimità che ha posto il problema ha
contestualmente indicato una soluzione tendenzialmente efficace (le memorie
integrative della motivazione della sentenza assolutoria, anche a fronte degli
argomenti contenuti nell’appello della parte pubblica; il riferimento è a Cass.
S. U. 45276/2003);
b) che il nuovo ricorso per cassazione consente alla parte l’introduzione nel
giudizio di legittimità di valutazioni che necessariamente coinvolgono
apprezzamenti sull’adeguatezza del quadro probatorio;
c) che la soluzione propugnata dalla maggior parte dei sostenitori della cd
‘doppia conforme’ non era tanto l’abolizione dell’appello del pubblico ministero
quanto piuttosto l’attribuzione al giudice di appello, che condividesse la
fondatezza delle censure di merito contenute nell’appello avverso la sentenza di
proscioglimento, del potere di annullare quella prima sentenza indicando al
nuovo primo giudice i criteri di valutazione probatoria pertinenti. Il tutto, si
noti, con un contestuale indispensabile intervento sul regime della
prescrizione.
Insomma, in tutti i casi si trattava di soluzioni che consentivano la permanenza
per entrambe le parti del doppio grado di apprezzamento del merito e che, ciò
che qui rileva, attestavano come la soluzione dell’abolizione del potere di
appello del pubblico ministero non fosse la soluzione necessitata per
salvaguardare gli interessi della parte privata ritenuti meritevoli di ulteriore
tutela nella discrezionalità legislativa.
Da ultimo, nel medesimo dibattito parlamentare si è indicata la ritenuta
positiva conseguenza della riduzione dei tempi del procedimento penale,
affermandosi che l’abolizione del grado di appello, consentendo una più
ravvicinata conclusione del processo, rispondesse anche al principio di
ragionevole durata. Sul punto tuttavia deve richiamarsi l’osservazione già
svolta: in realtà, avendo lasciato al pubblico ministero la possibilità di
ricorrere per cassazione, e con un ricorso ‘allargato’, i tempi complessivi del
processo di fatto dovrebbero allungarsi, specialmente nei casi di accoglimento
del ricorso con conseguente ripresa del processo dal nuovo giudizio di primo
grado.
6.2 Giudica allora questa Corte distrettuale veneta che dal dibattito
parlamentare non emergano ragioni sistematiche che possano costituire evidenti
argomenti a favore della ragionevolezza dell’esclusione del potere di appello
del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento.
Ed è tale aspetto che induce questa Corte serenissima a valorizzare e
riconsiderare il senso ultimo del messaggio del Presidente della Repubblica alle
Camere.
Non è infatti tanto la forte contrazione del potere di impugnazione del pubblico
ministero, in sé e per sé, che pone problemi di costituzionalità. Sono la
disorganicità e l’asistematicità della riforma approvata che finiscono con
l’incidere sulla mancanza di evidente ragionevolezza della soluzione
radicalmente discriminatoria adottata, impedendo di individuare con immediata
evidenza un equilibrato, ponderato e “ragionevole” regolamento degli interessi
contrapposti. Tali sono quello dell’imputato a difendersi e non essere
<pervicacemente> e inutilmente sottoposto al peso del processo, ma anche quello
della collettività e della vittima del reato - il cui stesso potere ex art. 572
c.p.p. risulta corrispondentemente e sintomaticamente vanificato - al
perseguimento di una decisione finale che elida il più possibile la ‘forbice’
tra verità processuale e verità sostanziale, in un contesto di ragionevole
durata ed efficienza del processo, esso stesso autonomamente bene di rango
costituzionale, come più volte insegnato dalla Corte delle Leggi (per tutte,
Sent. n. 353 del 1996).
Né si ritiene di poter individuare nel contesto normativo più recente ragioni
sistematiche a sostegno di questo differente trattamento. Paradossalmente
potrebbe affermarsi che vi sono indicazioni normative in senso contrario:
a) con la legge n. 251 del 2005, ed in particolare con le modifiche agli artt.
157, 160 e 161 c.p., sono stati ridotti i termini della prescrizione per
numerosi reati della ‘fascia’ con pena temporalmente intermedia, il che riduce
obiettivamente la possibilità di giungere ad una sentenza definitiva di merito,
e non in rito, all’esito del percorso previsto ora dal Legislatore nel caso di
un’impugnazione del pubblico ministero, avverso la sentenza di proscioglimento,
che risulti fondata;
b) se il Legislatore intendeva perseguire la regola, o la ratio, della “doppia
conforme”, sarebbe priva di giustificazione la permanente possibilità che,
attraverso l’operatività dell’art. 580 c.p.p., possa tuttora verificarsi il caso
di una condanna che intervenga per la prima volta in grado di appello, quando ad
esempio di due coimputati nel medesimo reato uno sia stato prosciolto e venga
fatto oggetto di ricorso in cassazione del pubblico ministero, l’altro sia stato
condannato e abbia proposto appello, se il giudice di appello ritenesse fondato
il motivo di ricorso originariamente proposto dalla parte pubblica. In tal caso,
in altri termini, la possibilità o meno di avere una doppia pronuncia di merito
sulla condanna dipenderebbe dalle autonome scelte del coimputato; a maggior
ragione ove si dovesse ritenere tuttora possibile l’appello della parte civile
(o quando, più adeguatamente, questo dovesse essere reintrodotto dall’eventuale
dichiarazione di incostituzionalità dell’avvenuta esclusione del relativo
potere); ciò, in un contesto processuale complessivo dove la separazione delle
posizioni dei coimputati, per scelte meramente procedurali discrezionali dei
singoli, è ormai la regola generalizzata;
c) si è abolito il potere di appello del pubblico ministero per le sentenze
penali del giudice di pace (e tuttavia, e significativamente quanto alla
disorganicità dell’approccio legislativo, solo a seguito del rilievo del Capo
dello Stato), ma contestualmente con altra recentissima norma (artt. 26 e 27
d.lvo 40/2006) il Legislatore ha introdotto con la modifica dell’art. 23 della
legge 689/81 il doppio grado di merito avverso le sentenze del giudice di pace
in materia di sanzioni amministrative, con la conseguenza obiettivamente
singolare, sul piano della coerenza sistematica e dei valori del sistema
giurisdizionale, che mentre nel caso di illecito penale la parte pubblica (lì il
Pm) non può chiedere il secondo giudizio di merito, ciò può fare (qui
l’Amministrazione) nei casi di illeciti depenalizzati;
d) non sembra poi estranea al tema della ragionevolezza la considerazione del
fatto che i processi di primo grado sono oggi per la maggior parte attribuiti al
giudice monocratico; il più delle volte in udienza non vi è il pubblico
ministero che ha deciso per l’esercizio dell’azione penale; spesso giudicante e
o pubblico ministero di udienza sono magistrati onorari; nei processi per reati
di competenza della corte d’assise (dove frequentemente l’alternativa
decisionale è tra l’assoluzione e la condanna a pena elevatissima) il rito
abbreviato si svolge davanti ad un giudice monocratico che giudica sulle carte.
E’ vero che si tratta di situazioni che per lo più attengono ad un contesto di
fatto; ma l’efficienza del processo (rispetto agli scopi che ad esso
attribuiscono i principi costituzionali) è stata più volte riconosciuta bene
costituzionale, mentre il contesto concreto in cui la Giustizia è amministrata e
realizzata non pare francamente possa costituire aspetto totalmente estraneo
alla ragionevolezza delle scelte legislative (non parrebbe ardito richiamare
qui, per esemplificare il senso dell’osservazione che precede, la relazione tra
il primo ed il secondo comma dell’art. 3 Cost.);
e) da ultimo, sembrerebbe che la stessa recente Riforma dell’Ordinamento
giudiziario guardi obiettivamente con sfavore al giudice che esercita le
funzioni in primo grado, avendogli inibito ogni possibilità di accesso diretto a
qualsiasi incarico semidirettivo e direttivo.
7. Orbene, quando il parametro della valutazione di conformità ai principi ed
alle norme costituzionali è quello della ragionevolezza, individuare il punto
che separa la legittimità (appunto la conformità alla Costituzione)
dall’apprezzamento di merito (estrinsecazione del potere di discrezionalità
proprio del Legislatore) è istituzionalmente delicato e oggettivamente
difficile.
Sul contenuto del giudizio di ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. è
certamente prezioso l’insegnamento contenuto nella Sentenza della Corte
costituzionale n. 89 del 1996, secondo cui <la disamina della conformita' di una
norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico,
incentrandosi sul "perche'" una determinata disciplina operi, all'interno del
tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi
trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo. Il
giudizio di eguaglianza, pertanto, … e' in se' un giudizio di ragionevolezza,
vale a dire un apprezzamento di conformita' tra la regola introdotta e la
"causa" normativa che la deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti
dalla funzione che la stessa e' chiamata a svolgere nel sistema e ometta,
quindi, di operare il doveroso bilanciamento dei valori che in concreto
risultano coinvolti, sara' la stessa "ragione" della norma a venir meno,
introducendo una selezione di regime giuridico priva di causa giustificativa e,
dunque, fondata su scelte arbitrarie che ineluttabilmente perturbano il canone
dell'eguaglianza>. E quanto in particolare alle soluzioni normative che
introducono differenti trattamenti < non puo' quindi venire in discorso, agli
effetti di un ipotetico contrasto con il canone della eguaglianza, qualsiasi
incoerenza, disarmonia o contraddittorieta' che una determinata previsione
normativa possa, sotto alcuni profili o per talune conseguenze, lasciar
trasparire, giacche', ove cosi' fosse, al controllo di legittimita'
costituzionale verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di
opportunita', per di piu' condotta sulla base di un etereo parametro di
giustizia ed equita', al cui fondamento sta una composita selezione di valori
che non spetta a questa Corte operare. Norma inopportuna e norma illegittima
sono pertanto due concetti che non si sovrappongono, dovendosi il sindacato
arrestare in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che
consenta di rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione
di una libera scelta che soltanto il legislatore e' abilitato a compiere>.
Proprio la ‘delicatezza istituzionale’ della valutazione sulla sussistenza di un
contesto di ragionevolezza, che renda conforme a Costituzione l’abolizione per
una sola delle parti processuali della possibilità di appellare la sentenza che
ha respinto la propria domanda, tenuto conto del principio della parità
tendenziale delle parti nel processo (principio che va necessariamente inteso
con riferimento alla pronuncia finale-conclusiva sulla propria domanda), impone
al giudice ordinario di limitarsi strettamente all’aspetto dell’eventuale
manifesta infondatezza della questione proposta.
Giudica in proposito e conclusivamente questa Corte d’Assise d’Appello, nella
pienezza della sua espressione collegiale, che:
I) non si rinvenga allo stato la possibilità di sussumere nella precedente
giurisprudenza della Corte costituzionale - tenuto conto dei casi, dei contesti
procedimentali e delle argomentazioni che hanno sostenuto le varie decisioni –
la ‘copertura’ della scelta fatta dal Legislatore;
II) non si rinvengano nelle argomentazioni addotte nel corso del dibattito
parlamentare assorbenti considerazioni univocamente attestanti tale
ragionevolezza;
III) non si rinvengano, dall’esame intrinseco della nuova normativa ed alla luce
degli orientamenti dell’ultima legislazione in qualche modo utilizzabili come
manifestazione di scelte di valore sistematicamente rilevanti, autonome
considerazioni per sé manifestazione della ragionevolezza.
E’ quindi indispensabile sottoporre la questione alla Corte costituzionale,
perché esprima quel giudizio sulla ragionevolezza di questa nuova, diversa e
radicale discriminazione tra i poteri attribuiti alle parti, che la Costituzione
le riserva.
Va pertanto dichiarata, oltre che rilevante nel presente giudizio per quanto
prima argomentato, non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 593, primo e secondo comma, nel testo introdotto
dall’art. 1 della legge n. 46 del 20 febbraio 2006, nella parte in cui non
consente l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento,
con riferimento agli artt. 3 e 111.2 Cost., anche nei casi diversi da quello
solo previsto dal secondo comma.
La soluzione richiesta alla Corte delle Leggi appare priva di alcun contenuto
discrezionale, ed imposta dal sistema: ove la Corte adìta dovesse ritenere
l’irragionevolezza dell’attuale disciplina, sembra infatti imporsi l’integrale
ripristino del precedente potere, libero poi rimanendo il Legislatore di
intervenire con ulteriori modifiche rispondenti a ragionevolezza sistematica.
Valuterà eventualmente la Corte adìta le implicazioni della proposta questione
di legittimità costituzionale, sulla disciplina transitoria di cui all’art. 10
commi 1 e 2, nella parte in cui rende applicabile ai processi in corso la nuova
disciplina, ai sensi dell’art. 27 seconda parte legge 11.3.1953 n. 87.
Devono essere adottati i provvedimenti ordinatori di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Visto l’ art. 23 della legge n. 87 dell’11.3.1953,
dichiara rilevante nel presente giudizio e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 593. 1 e 2 comma c.p.p., nel
testo modificato dall’art. 1 della legge n. 46 del 20.2.2006, in riferimento
agli artt. 3 e 111.2 Cost., nella parte in cui non consente l’appello del
pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, anche nei casi diversi
da quello solo previsto dal secondo comma.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Sospende il presente processo.
Ordina che, a cura della Cancelleria, l’ordinanza sia notificata all’imputato
contumace, al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti
delle due Camere del Parlamento.
Letta in pubblica udienza, alla presenza del Procuratore generale e del
Difensore dell’imputato.
Venezia-Mestre, aula bunker, li 20. 3. 2006
Il Cons. est. Il Presidente
dr. Carlo Citterio dr. Luigi Lanza
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