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IL GIUDIZIO PENALE D’APPELLO: STENOSI O PROVVIDO PIT STOP?

(pubblichiamo gli interventi del dott. ANTONIO DE NICOLO e dell’avv. EMANUELE FRAGASSO JR, tratti dall’ultimo numero della nostra Rivista, Giustizia Insieme, come contributo davvero interessante all’approfondimento di un tema ormai nevralgico, e ‘ultimativo’, per il senso e la funzionalità del processo penale)

 

Il processo penale d’appello: disfunzioni, rimedi, falsi miti

 

 

  1. Perché il processo penale d’appello non funziona

 

E’ noto a tutti gli operatori del diritto penale che, nell’attuale assetto processuale italiano, il giudizio d’appello costituisca il vero “collo di bottiglia” del sistema. Nel senso che la durata media di permanenza dei processi penali presso le Corti d’Appello ai fini della celebrazione del giudizio di secondo grado è – salvo eccezioni – intollerabilmente elevata, superando facilmente quel periodo di due anni generalmente considerato ragionevole dalle Corti d’Appello in sede d’applicazione della c.d. “Legge Pinto” (L. 24.3.2001 n. 89), e conducendo troppo spesso al melanconico risultato della maturazione del termine massimo di prescrizione: il che si traduce nella sistematica vanificazione degli sforzi compiuti dagli inquirenti prima, e dai giudici di primo grado poi, finalizzati a pervenire all’accertamento dei fatti e delle responsabilità.

 

Le cause di tale stato di fatto sono molteplici, ma a mio giudizio quattro sono quelle principali:

  • l’indiscriminata appellabilità di qualsivoglia pronuncia di condanna, salvo quella alla pena dell’ammenda: beninteso, deve trattarsi dell’ammenda originariamente prevista come tale, poiché la condanna alla pena dell’ammenda sostitutiva dell’arresto è, come noto, appellabile;

  • la decorrenza inesorabile del termine massimo di prescrizione anche quando v’è stata l’affermazione di responsabilità in primo grado e perfino quando il condannato si limita a contestare con l’impugnazione il solo trattamento sanzionatorio: la qual cosa rende l’impugnazione una scelta difensiva priva di rischi ed “a costo zero”, e dunque una sorta di “tappa obbligata”, la cui efficacia è direttamente proporzionale alle dimensioni dell’arretrato giacente negli uffici di secondo grado;

  • la scelta legislativa di applicare rigidamente il principio dell’oralità della discussione anche ad una tipologia di processo che si risolve di regola nella disamina critica di atti precedentemente formati e che pertanto sono cristallizzati in forma scritta – tranne che nei casi, quantitativamente marginali, di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale –;

  • la rigidità e la lentezza della risposta ordinamentale rispetto all’esigenza di sollecita distribuzione sul territorio dei magistrati assegnati alle sezioni penali delle Corti d’Appello in modo confacente alla quantità dei processi in attesa d’essere trattati.

 

Sotto tale ultimo profilo, mi pare illuminante l’esempio della Corte d’Appello di Venezia, presso la quale, a causa del numero palesemente inadeguato dei magistrati addetti alle sezioni penali (numero forse ragionevole nella prima metà del secolo scorso, quando il Veneto era regione a vocazione principalmente agricola ed era altresì caratterizzata da un non marginale fenomeno di emigrazione; ma del tutto insufficiente negli ultimi decenni, in cui tale regione è stata invece protagonista di uno sviluppo economico imponente e tumultuoso, con i correlativi risvolti in termini di aumento del contenzioso civile e di quello penale), la mannaia della prescrizione cala inesorabilmente ogni anno su un’elevatissima percentuale delle decisioni, giungendo a sfiorare, in taluni anni particolarmente sfortunati, quasi il 50% delle pronunce complessivamente emesse dalle sezioni penali della Corte. Il che, oltre ad essere un motivo di costante frustrazione per i magistrati che vi lavorano – soffocati dalla cappa di un debito giudiziario irrimediabilmente crescente, ad onta della produttività individuale generalmente molto buona –, costituisce un elemento distorsivo dell’adeguatezza della complessiva risposta giudiziaria nel Nord Est, essendo il deficitario distretto di Venezia collocato geograficamente fra due distretti notoriamente “virtuosi”, come quelli di Trento e di Trieste.

 

Ebbene, a tale complessiva situazione il sistema giudiziario italiano non appare in grado di apprestare una tempestiva risposta. Nel senso che, mentre una qualsiasi struttura aziendale, dopo avere individuato un anomalo punto d’ingorgo nella catena produttiva dovuto ad una carenza del personale ivi addetto, avrebbe rapidamente ridistribuito le proprie risorse umane potenziando immediatamente il punto d’ingorgo, il nostro sistema giudiziario risulta drammaticamente rigido e pressoché impermeabile a tale necessità ed all’urgenza che la contraddistingue: lo testimoniano le infinite difficoltà e le troppe sacche di resistenza frapposte ai tentativi, che pur sono stati effettuati nel corso degli anni, finalizzati ad arginare l’imponente debito giudiziario penale. Il risultato è che, purtroppo, la situazione di tante Corti d’Appello, e fra esse quella di Venezia, sia ben nota a tutti agli addetti ai lavori, venga regolarmente denunciata dai rispettivi Presidenti nel discorso d’inaugurazione di ogni anno giudiziario, ma continui a permanere sostanzialmente inalterata ormai da decenni, senza che s’intravveda lo spiraglio di una seria inversione di tendenza.

 

 

  1. I rimedi che si possono adottare subito

 

Quali rimedi si potrebbero concretare, nell’attuale avvilente situazione, per restituire funzionalità ed efficienza al grado d’appello penale, soffocato da un debito giudiziario sempre crescente poiché costantemente incrementato dalla sistematica ed indiscriminata ricerca, pressoché in ogni singolo caso, del comodo e salvifico risultato della prescrizione?

 

E’ necessario distinguere ciò che è possibile fare fin da subito, a legislazione invariata, da ciò che potrebbe venire attuato solo se il legislatore si decidesse ad intervenire per eliminare con decisione le palesi storture delle fasi di gravame nel processo penale – storture che hanno ormai stravolto la funzione di garanzia insita nella doppia rivisitazione del merito della vicenda giudiziaria, piegandola all’unico vero obiettivo sostanzialmente perseguito, che è il raggiungimento della declaratoria di prescrizione –.

 

A legislazione invariata, gli interventi a mio avviso attuabili dovrebbero seguire simultaneamente due direttrici:

  • quella – concernente l’assetto ordinamentale – di un’efficace collaborazione fra istituzioni (Consiglio Superiore della Magistratura, Consigli giudiziari e Capi degli Uffici giudiziari interessati) finalizzata a raggiungere due risultati minimi: la designazione a dirigenti delle sezioni penali delle Corti di magistrati aventi sicure e sperimentate capacità organizzative del lavoro proprio ed altrui; la rivitalizzazione degli istituti dell’applicazione sia distrettuale che extradistrettuale dei magistrati, da destinare prioritariamente alle sezioni penali delle Corti d’Appello più intasate, previa esecuzione di un duplice monitoraggio accurato ed obiettivo che riguardi “a monte” i flussi dei rispettivi uffici di provenienza e di destinazione, ed “a valle” i risultati ottenuti grazie all’applicazione nell’ufficio di destinazione;

  • quella – concernente l’aspetto processuale – di un’accorta sorveglianza, a partire dal deposito della sentenza di primo grado, dei procedimenti penali destinati al giudizio d’impugnazione, evitando per quanto possibile i “tempi morti”, e quella, strettamente correlata, di un’attenta calibratura dei ruoli e dei tempi dell’udienza d’appello.

 

Uno spiraglio di luce sotto il profilo del miglioramento dell’assetto ordinamentale potrà forse giungere dalla possibilità, prevista dall’art. 73 del D.L. 21.6.2013 n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, c.d. “decreto del fare”), di impiego degli stagisti non soltanto presso gli Uffici giudiziari di primo grado ma anche presso le Corti d’Appello, dove potrebbero contribuire all’incremento della produttività dei magistrati redigendo (o contribuendo a redigere) le sentenze più semplici ed effettuando le ricerche di giurisprudenza necessitate dai motivi d’appello, con parziale sollievo del lavoro dei singoli consiglieri relatori.

 

Da tale punto di vista, è probabilmente un peccato, e costituisce un’occasione mancata, il fatto che il legislatore non abbia avvertito l’utilità di estendere anche alla materia penale la sperimentazione dei giudici ausiliari, previsti per le Corti d’Appello dal “decreto del fare” agli articoli da 62 a 72 solo con riferimento ai procedimenti civili ed in materia di lavoro: poteva essere un tentativo percorribile nella strada dell’abbattimento pure del debito giudiziario penale delle Corti d’Appello – abbattimento che sarebbe potuto avvenire senza particolari rischi per il sistema complessivo, dal momento che la presenza nei collegi giudicanti di due magistrati togati sarebbe stata una sicura garanzia di decisioni ponderate, equilibrate ed allineate alla giurisprudenza di ciascun ufficio giudiziario –.

 

Per quanto concerne, invece, i rimedi in materia processuale, mi pare indispensabile, prima d’indicare gli interventi praticabili fin da subito, enunciare la seguente premessa.

 

E’ necessaria ed urgente una “rivoluzione copernicana” nei rapporti fra uffici di primo grado ed uffici di secondo grado: nel senso che vi deve essere una consapevolezza diffusa – e condivisa fra tutti i magistrati e tutti gli addetti alle cancellerie – del fatto che il sistema giudiziario, già messo a dura prova dalle continue riduzioni di personale determinate dal mancato rimpiazzo, perdurante da almeno una quindicina d’anni, dei cancellieri ed ausiliari collocati in quiescenza, può reggersi solo se si afferma l’idea di una visione complessiva del procedimento penale, a partire dal momento in cui esso viene avviato dal pubblico ministero e fino al momento in cui viene definito in cassazione.

Troppo spesso, invece, il singolo magistrato intende il proprio lavoro come una monade assoluta, indifferente a ciò che è stato fatto sia dai colleghi che lo hanno preceduto sia da quelli che seguiranno.

Troppo spesso il singolo ufficio giudiziario, la singola cancelleria o segreteria, conosce e comprende solo i propri problemi e non vuole né conoscere né comprendere quelli degli uffici che stanno a monte od a valle.

Troppo spesso chi si trova nei gradi successivi del giudizio si rende conto che un piccolo accorgimento, attuabile in pochi minuti, da parte dei magistrati e dei funzionari che hanno “lavorato” in precedenza il fascicolo, farebbe risparmiare ore di lavoro a chi deve accostarvisi successivamente.

Molti esempi si potrebbero fare a tal proposito, ma si uscirebbe dal tema di fondo di questo intervento: basterà osservare che la trattazione dei processi d’appello sarebbe certamente più spedita se i magistrati di primo grado continuassero a vigilare sul fascicolo processuale anche dopo avere depositato la propria sentenza e se gli addetti alle cancellerie di primo grado fossero consapevoli dell’esigenza di rendere il loro lavoro chiaramente percepibile non solo ai magistrati che stanno coadiuvando, ma anche ad altri magistrati che avranno una visione esclusivamente “cartacea” del processo, e che dunque esclusivamente dalle carte dovranno comprendere gli accadimenti processuali.

 

Fatta questa necessaria premessa, elenco i – pochi – interventi immediatamente attuabili a legislazione invariata:

  • gli uffici di primo grado dovrebbero collaborare con quelli dei successivi gradi del giudizio fornendo chiare, aggiornate ed immediatamente visibili indicazioni sull’ultimo domicilio dell’imputato, sull’attuale difensore, sui termini di prescrizione e sulle sospensioni di tale termine già verificatesi – oltre che sui termini delle eventuali misure sia custodiali sia coercitive non custodiali, e sulle eventuali sospensioni dei relativi termini –;

  • gli uffici di primo grado dovrebbero rispettare la prescrizione della norma – troppo spesso trascurata – dell’art. 590 c.p.p., la quale impone che la trasmissione degli atti alla Corte d’Appello avvenga “senza ritardo”: nella prassi, non è infrequente un lasso di tempo parecchio superiore ad un anno fra il deposito della sentenza di primo grado e la trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione;

  • sempre nel medesimo ordine d’idee e sempre per ragioni di tempestività, dovrebbe essere sperimentata dagli uffici di primo grado la possibilità di trasmettere gli atti alla Corte d’Appello non appena presentato l’atto d’impugnazione, senza attendere il completamento degli adempimenti – spesso assai laboriosi – previsti dall’art. 584 c.p.p. (e cioè le notifiche dell’impugnazione alle altre parti processuali), con riserva d’inoltro successivo di tali atti;

  • fin dal momento del loro arrivo alle Corti d’Appello, i relativi atti d’impugnazione dovrebbero venire esaminati con cura dal Presidente della sezione o dal magistrato da lui delegato, in modo che venga subito valutata la consistenza di ogni processo, venga altrettanto celermente calcolata la data di prescrizione e venga pertanto calibrato ragionevolmente il tempo d’attesa per la celebrazione del giudizio di secondo grado – tempo d’attesa che spesso risulta del tutto estemporaneo e sembra essere stato determinato al di fuori di ogni controllo razionale –;

  • andrebbe considerata l’opportunità di accorpare i processi che presentino problematiche comuni in “udienze tematiche”, onde agevolarne sia la speditezza di trattazione sia la completezza ed adeguatezza di motivazione;

  • andrebbe senz’altro stabilito un iter accelerato per le impugnazioni che attengono al solo trattamento sanzionatorio: poche cose danno un’immagine più desolante della giustizia quanto quella di una sentenza dichiarativa della prescrizione in grado d’appello in un processo la cui impugnazione voleva ridiscutere solo l’applicazione di aggravanti od attenuanti, o l’entità della pena, o il riconoscimento di benefici;

  • andrebbe, con prudenza e saggezza, guidata in udienza la discussione delle parti, le quali dovrebbero venire invitate a concentrarsi solo sui punti davvero controversi, senza ripetizioni pedisseque o parafrasi di ciò che è stato scritto nei motivi d’appello – motivi ai quali, essendo appunto “scritti”, il giudice d’appello ha comunque il dovere di fornire un’appagante risposta motivazionale, a prescindere dalla maggiore o minore efficacia ed esaustività della discussione orale: insomma, bisognerebbe che le parti fossero rese ben consapevoli del fatto che il principio devolutivo dell’appello e l’apprestamento di termini perentori per la sua presentazione comporta l’ovvia conseguenza per cui la discussione orale non vi apporta di regola alcun effetto decisivo, né in positivo (nel senso che, se i motivi sono lacunosi, la discussione più dotta e documentata non ne può ampliare la portata) né in negativo (nel senso che, se i motivi sono completi, la discussione più modesta non ne può svilire la caratura) –;

  • andrebbe poi, sempre con prudenza e saggezza, guidato l’andamento dei lavori in camera di consiglio, alla quale – sembra superflua tale sottolineatura, ma non sempre lo è – i relatori devono arrivare preparati sia per quanto concerne il preventivo esame degli atti sia per quanto concerne l’attento studio delle questioni di diritto evocate dall’impugnazione.

 

 

  1. I falsi miti

 

In più Corti d’Appello, nell’intento – per nulla celato – di scoraggiare l’abnorme numero delle impugnazioni, si sta affermando una prassi che intende ridiscutere i confini del giudizio d’inammissibilità dell’impugnazione, sotto il profilo della mancanza di specificità dei motivi ex art. 581 lett. c) c.p.p., fino ad un estremo limite concettuale: quello per cui sarebbe senz’altro inammissibile l’impugnazione, quando tutte le risposte alle domande dell’appellante siano in realtà contenute già nella sentenza impugnata.

 

A mio avviso, tale assioma non può essere preso per oro colato, poiché, se ha buon fondamento nel giudizio di legittimità, il quale è ancorato ai rigidi paletti enunciati dall’art. 606 I c. c.p.p., non ne può avere altrettanto nel giudizio d’appello, la cui devoluzione è governata dalla norma, assai più fluida, dell’art. 597 I c. c.p.p. . L’argomento richiederebbe ben altro approfondimento di quello qui consentito: può essere però osservato che, essendo sempre soggetta a ricorso per Cassazione l’ordinanza declaratoria d’inammissibilità dell’appello, è senz’altro preferibile, almeno nei casi borderline, affrontare il merito della doglianza – per magari disattenderla in poche righe – piuttosto che rischiare l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al giudice del gravame e con ulteriore aggravio del lavoro della Corte d’Appello.

 

Insomma, il ricorso sistematico alla declaratoria d’inammissibilità dell’appello in chiave deflattiva è un falso mito da sfatare: trattasi di un rimedio da adoperare con parsimonia, non dilatabile oltre i confini di una interpretazione degli artt. 581 e 591 c.p.p. che sia orientata al principio del favor impugnationis.

 

Un altro falso mito da sfatare, che pure tante volte viene evocato come la panacea senz’altro idonea a ridurre significativamente il numero delle impugnazioni difensive – le quali sono, come noto, incomparabilmente più numerose di quelle del pubblico ministero –, è il ricorso sistematico all’appello incidentale da parte del Procuratore della Repubblica e/o del Procuratore Generale, allo scopo di aggirare il divieto di reformatio in pejus e d’indurre, pertanto, l’imputato a rinunciare al proprio gravame onde evitare nel secondo grado un possibile trattamento sanzionatorio peggiore di quello avuto in primo grado.

 

Non nego che in taluni casi, singolarmente individuati, l’effetto deterrente dell’appello incidentale si possa verificare. Tuttavia l’istituto va riservato appunto ai singoli casi in cui vi sia davvero una significativa divaricazione per difetto fra la pena inflitta in primo grado e quella ragionevole, e non può essere invece concepito come un “rimedio deflattivo” di portata generale e sistematica.

 

Vanno infatti considerate le seguenti ragioni:

  • nel giudizio abbreviato, in cui il pubblico ministero non dispone dello strumento dell’appello principale per contestare il trattamento sanzionatorio, non può essere esperito nemmeno l’appello incidentale – essendo quest’ultimo consentito solo alla parte abilitata all’appello principale –: ed il numero dei giudizi abbreviati che pervengono al grado d’appello è di poco inferiore al numero dei giudizi ordinari, con la conseguenza che per il 40 % o più dei giudizi d’impugnazione l’appello incidentale come rimedio sistematico in funzione dissuasiva è inapplicabile;

  • nel giudizio ordinario, se l’appello principale nulla deduca sul trattamento sanzionatorio, non può essere esperito l’appello incidentale – il quale ha funzione antagonista dell’appello principale e non può diffondersi su temi inesplorati dall’impugnazione principale, pena la sua inammissibilità –: ciò vale non solo quando l’appello difensivo punti esclusivamente all’assoluzione e non anche al contenimento del trattamento sanzionatorio, ma anche quando la pena inflitta sia quella minima edittale o prossima al minimo, con la conseguenza che l’appello difensivo non abbia dedotto alcunché sul punto, non avendovi interesse;

  • nel giudizio ordinario, se l’appello difensivo esponga sulla pena una doglianza generica, come tale inammissibile – è ipotesi tutt’altro che rara, in quanto capita d’imbattersi in impugnazioni diffusissime sulla richiesta di assoluzione proposta in via principale, le quali poi si concludano con la formula di stile “ed in subordine si riduca la pena poiché eccessiva”, senza che nulla venga aggiunto in proposito –, l’appello incidentale verrebbe senz’altro dichiarato inefficace ex art. 595 IV c. c.p.p., e ciò quale effetto della declaratoria d’inammissibilità della doglianza sulla pena nel gravame principale;

  • non va infine dimenticato che il giudicante, nell’individuazione della pena concreta da infliggere, è portato normalmente ad evitare variazioni di minima efficacia rispetto alla pena stabilita nel grado precedente: l’esperienza pratica dimostra che di regola, se non v’è divario significativo fra la sanzione inflitta in primo grado e quella reputata “giusta” dal giudice d’appello, quest’ultimo tenderà a confermarla rinunciando ad apportarvi correzioni minimali – s’intende, sempre che non si tratti di correzioni necessitate da ragioni di diritto, come il riconoscimento di attenuanti non applicate in precedenza, o come l’esclusione dal computo della continuazione di un “reato satellite” in ordine al quale vi è assoluzione o declaratoria di prescrizione, ecc. –; e se ciò accade di regola per le modifiche in melius, non è ragionevole attendersi che possa essere diversa la sorte per le modifiche in pejus (insomma, volendo esemplificare, se la pena inflitta in primo grado è quella di sei mesi di reclusione e se, in presenza d’appello incidentale del pubblico ministero, il giudice d’appello è abilitato ad aumentarla, quest’ultimo non lo farà allorché la sanzione ritenuta giusta sia solo di uno o di due mesi più elevata, ma solo allorché vi sia un significativo sbilanciamento fra quello che il giudice di primo grado ha stabilito e quello che il giudice d’appello ritiene giusto).

 

Tali complessive ragioni rendono, a mio avviso, pure l’appello incidentale un rimedio non agevolmente dilatabile al di là dei casi in cui sia opportuno porre l’impugnante principale, il quale abbia contestato un trattamento sanzionatorio assai favorevole ricevuto in primo grado, dinanzi al concreto rischio di una modifica peggiorativa nel grado successivo.

 

 

  1. I rimedi che necessitano di un intervento legislativo

 

Tante sarebbero, per converso, le iniziative che il legislatore potrebbe attuare se avesse davvero a cuore un serio intervento riformatore dei giudizi d’impugnazione.

 

A tale proposito s’impongono due premesse, una in linea di diritto e l’altra in via di prassi.

 

La premessa di diritto: il processo d’appello è governato dal principio devolutivo e dunque non può che percorrere i binari tracciati dall’atto d’impugnazione, il quale a sua volta deve essere presentato entro termini perentori – ed infatti l’appello tardivo concreta una causa d’inammissibilità originaria, come tale inidonea ad instaurare il rapporto d’impugnazione –. Il principio devolutivo implica il fatto che l’impugnazione debba in linea di principio “dire tutto”, e cioè debba essere sostanzialmente autosufficiente a provocare il giudizio di gravame: tanto è vero che i c.d. “motivi nuovi” previsti dall’art. 585 c.p.p. non possono essere in realtà davvero “nuovi” nel senso etimologico, e cioè completamente diversi da quelli proposti all’origine del rapporto d’impugnazione, ma debbono essere meramente integrativi ed esplicativi dei motivi originari, non potendo che riferirsi ai punti ed ai capi attinti da essi e non potendo che riguardare il medesimo petitum.

 

La premessa in via di prassi: l’esperienza di chiunque abbia modo di frequentare l’aula di una Corte d’Appello penale conferma che non costituiscono ipotesi frequenti né quella di un sovvertimento totale, da parte del giudice del gravame, della decisione di primo grado né quella di uno stravolgimento completo del profilo sanzionatorio adottato in primo grado. Infatti, nei casi in cui non v’è integrale conferma, il giudice d’appello si limita di regola ad operare modifiche necessitate (l’applicazione della prescrizione a qualche “reato satellite”; la correzione di un conteggio di pena illegittimo od inesatto; ecc.), traendone le debite conseguenze sul trattamento sanzionatorio; ovvero si limita ad intervenire sulla pena, ove quella stabilita in primo grado appaia sperequata rispetto a quella normalmente applicata a casi simili, senza peraltro sconvolgere l’assetto complessivo della decisione impugnata. Va da sé, ovviamente, che non costituisce certo sovvertimento della valutazione del primo giudice l’applicazione della prescrizione da parte del giudice d’appello, il quale a tal fine si limita a prendere atto del decorso del tempo e della insussistenza di ragioni che possano condurre all’assoluzione dell’impugnante con formula migliore di quella derivante dal riconoscimento della prescrizione – che è, lo si ripete, il (legittimo) fine perseguito dalla maggior parte delle impugnazioni –. Insomma, al di là del dispositivo che enuncia la “riforma” della decisione impugnata, i casi in cui l’esito del giudizio di gravame sovverta davvero quello del giudizio di primo grado sono davvero pochi – segno che, evidentemente, al di là di taluni casi controversi, come tali destinati inevitabilmente a fare presa sulla pubblica opinione ed a venire citati come paradigmatici della variabilità dei giudizi, le decisioni dei Tribunali e delle Corti, complessivamente valutate, sono in gran parte uniformi, e dunque le decisioni di primo grado, complessivamente valutate, sono in gran parte “giuste” – .

 

Ad onta di tutto ciò, il giudizio d’appello comporta costi notevoli sia con riferimento alle risorse umane impiegate, essendo invariabilmente il decidente in grado d’appello un giudice a composizione collegiale, sia con riferimento ai tempi di definizione del giudizio, essendo di regola necessaria la celebrazione di un’udienza in contraddittorio – regola che non è normativamente obbligata solo per il giudizio camerale in appello (e dunque per il giudizio abbreviato in appello), posto che per costante orientamento della Corte di Cassazione (che muove dalla constatazione per cui l’art. 599 c.p.p. richiama le forme dell’art. 127 c.p.p., a norma del quale le parti vengono sentite “se compaiono”) non è necessaria la partecipazione all’udienza delle parti; peraltro, alle parti è comunque dovuto il relativo avviso, sicché gli adempimenti prescritti per il processo camerale d’appello sono identici a quelli prescritti per il processo ordinario d’appello – .

 

Orbene, se si volessero trarre le logiche conseguenze da un assetto normativo che impone al giudizio d’appello di percorrere il binario tracciato dall’atto d’impugnazione, dovrebbe essere naturale ridimensionare l’importanza dell’udienza in cui avviene l’illustrazione dei motivi d’appello rispetto all’importanza dell’esame critico, da parte del giudice di secondo grado, dell’atto d’impugnazione medesimo. Ed infatti quell’udienza partecipata si rivela troppo spesso un adempimento sostanzialmente inutile, oltre che dispendioso per le energie dell’apparato giudiziario.

 

Ed ancora: se si volessero trarre le logiche conseguenze dalla sostanziale stabilità valutativa fra giudici di primo grado e giudici d’appello, dovrebbe essere ragionevole effettuare una drastica riduzione dei casi di appellabilità delle sentenze, tanto più che – come noto – il doppio grado giurisdizionale di merito non costituisce né un principio di rango costituzionale né una necessità stabilita dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dai suoi Protocolli Aggiuntivi.

 

Dunque un legislatore che volesse davvero riservare questo prezioso e costoso meccanismo ai casi che lo meritano, dovrebbe dirigere i suoi sforzi nelle seguenti direzioni:

  • rinunciare all’appello in tutti i casi in cui la posta in gioco sia rappresentata dalla sola pena pecuniaria: e cioè per le contravvenzioni allorché sia stata applicata la sola ammenda anche se sostitutiva dell’arresto e per i delitti allorché sia stata applicata la sola multa anche se sostitutiva della reclusione – preparandosi ad affrontare con convinta determinazione le prevedibili resistenze delle varie lobbies che decretarono l’insuccesso, quasi quindici anni fa, di un analogo intervento riformatore, attuato e quasi subito abrogato (art. 18 L. 24.11.1999 n. 468 in relazione all’art. 13 L. 26.3.2001 n. 128) – ;

  • istituire un organo giudicante monocratico in grado d’appello, almeno per i reati definiti dal Tribunale in composizione monocratica a citazione diretta;

  • razionalizzare il sistema delle notificazioni, prevedendo l’obbligatorietà della notificazione della citazione a giudizio al solo difensore (che poi di regola è il redattore dell’atto d’impugnazione), meglio se a mezzo della posta elettronica certificata;

  • prevedere come regola generale della trattazione dell’impugnazione il rito camerale non partecipato, salvi i casi di appello del pubblico ministero ovvero in cui si debbano acquisire nuove prove o comunque si debba rinnovare parzialmente l’istruzione probatoria;

  • ripristinare l’istituto del c.d. “patteggiamento in appello” di cui all’abrogato art. 599 IV c.p.p., che aveva dato generalmente buona prova di sé contribuendo a deflazionare il carico di lavoro delle Corti d’Appello e di rimbalzo quello della Corte di Cassazione – e fermo restando il principio che eventuali degenerazioni dell’istituto, ove venisse piegato fino allo stravolgimento sostanziale dell’assetto sanzionatorio stabilito in primo grado, dovrebbero trovare adeguata risposta in sede disciplinare nei confronti dei magistrati abusanti, e non certo comportare la sua irragionevole abrogazione – ;

  • abolire l’anacronistico divieto normativo di reformatio in pejus quando appellante è il solo imputato, eliminando così l’inaccettabile stato di cose attuale per cui il gravame difensivo rappresenta una scelta impegnativa per la macchina giudiziaria, ma completamente priva di rischi per l’impugnante: l’eliminazione di tale divieto non farebbe certo perdere al gravame la sua fondamentale funzione di garanzia contro decisioni ingiuste, ed anzi semmai servirebbe proprio ad accentuare tale funzione, la quale oggi appare completamente obnubilata dall’automatismo con cui si accede indiscriminatamente a tale rimedio, proprio in quanto “a costo zero”;

  • operare un’organica riforma dell’istituto della prescrizione, che dopo quasi otto anni dalla data di entrata in vigore della L. 251/2005 (c.d. “ex Cirielli”) sta divenendo – come s’è già detto – l’epilogo tipico del grado d’appello anche con riferimento a reati che in passato non subivano quasi mai questa ingiusta sorte (come ad esempio la ricettazione e la bancarotta fraudolenta); in particolare, dovrebbe essere seriamente rimeditata la necessità di mantenere, accanto ai termini prescrizionali di fase, il termine di durata massima, almeno in relazione al caso in cui vi sia stata condanna in primo grado od al caso in cui l’appello sia limitato al profilo sanzionatorio;

  • riformare il rito degli irreperibili e delle situazioni equiparate, il quale oggi costituisce uno spreco insensato d’attività giurisdizionale: quest’ultima, dovendo comunque avere luogo entro i termini prescrizionali, si risolve sostanzialmente nella celebrazione di un numero intollerabile di “processi finti”, trattati nei gradi successivi come “processi veri” in quanto innescati da (doverosi) gravami difensivi di imputati contumaci, ma destinati a rivelare la loro natura di “processi finti” allorché l’imputato diviene reperibile e ricorre al rimedio della restituzione in termini di cui all’art. 175 II c. c.p.p., rimedio che gli apre o gli riapre la fase dell’appello anche dopo molti anni dalla formale irrevocabilità della condanna (la quale in tali casi, ad onta del suo aggettivo, di “irrevocabile” non ha davvero nulla) – e per vero questa pare essere, fra le riforme che mi sembrano auspicabili, la sola che potrebbe davvero vedere la luce in breve periodo, essendo già stata approvata da un ramo del Parlamento, nell’ambito di un più ampio pacchetto di interventi riguardanti il processo penale e destinato sperabilmente a produrre un benefico effetto deflattivo anche sul fronte delle impugnazioni –.

 

Ma se il legislatore non maturerà la consapevolezza, al di là dell’intervento di cui s’è detto, dell’ineludibilità di un complessivo disegno riformatore del processo penale d’appello e se non lo accompagnerà con una seria rivisitazione della prescrizione adeguandola alle condizioni oggettive dell’assetto processuale e del debito giudiziario attuale, quel “collo di bottiglia” di cui ho detto all’inizio non sembra destinato a scomparire davvero e per sempre.

 

Antonio De Nicolo

sostituto procuratore generale

presso la Procura Generale della Repubblica di Venezia

 

 

IL GIUDIZIO PENALE D’APPELLO: UNA STENOSI PATOLOGICA O, INVECE, UN PROVVIDO PIT STOP?

 

 

Sommario: 1. – Premessa. – 2. – Il giudizio d’appello tra l’ideale della mesòtes del processo penale … – 3. – … e la fenomenologia della realtà. – 4. – La necessità di un approfondimento diagnostico. – 5. – L’appello come strumento sia della difesa dell’imputato, sia dell’accertamento della verità.

 

1. – Premessa.

I limiti, anche nella dimensione espositiva, che caratterizzano la stesura delle seguenti annotazioni ne spiegano la sommarietà, pur senza giustificarla, e, in certi casi, l’inevitabile tono assertivo lì dove sarebbe necessaria, invece, un’accurata argomentazione giustificativa.

Si confida, pertanto, nell’indulgenza del Lettore, che sarà tanto più generosa se Egli vorrà considerare questi modesti appunti come semplici impressioni – tratte dall’esperienza di un avvocato penalista nella lotta quotidiana per il diritto – ma forse non del tutto inutili, in vista di un approfondimento successivo e di un dialogo più esteso.

 

2. – Il giudizio d’appello tra l’ideale della mesòtes del processo penale …

E’ ben noto il pensiero sull’appello, espresso dal Ministro di grazia e giustizia Alfredo Rocco, nella Relazione al progetto preliminare del c.p.p. 1930: «[…] se in materia civile esso funziona male, in materia penale oggi funziona malissimo», con la precisazione che di questo istituto giuridico «tutti dicono male e tutti lo vorrebbero conservare» (amplius, vd. D. Chinnici, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo, 2a ed., Torino, 2009, p. VII). La severa diagnosi di Rocco aggiunse, nondimeno, che la legge non può ispirarsi soltanto alle «conclusioni scientifiche», dovendo essa conformarsi «anche alle idee e ai sentimenti diffusi nelle popolazioni, nel momento storico nel quale viene emanata».

Il mantenimento dell’appello tra i mezzi d’impugnazione contemplati dal successivo codice del 1988 – di stampo accusatorio, a differenza di quello precedente – non può essere giustificato dalla sua peculiarità di oraziana equidistanza rispetto al prologo ed all’epilogo del processo. Infatti, la svolta accusatoria e, soprattutto, l’introduzione delle norme sul “giusto processo” sembrano aver collocato nel giudizio di primo grado il baricentro delle garanzie del contraddittorio, dell’oralità e dell’eguaglianza delle parti, suggerendo ad autorevolissima dottrina di dubitare sull’indefettibilità della previsione dell’appello. E ciò anche in considerazione della mancanza, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, di inequivoche direttive circa vincoli “in positivo” a proposito del cd. doppio grado di giurisdizione nel merito (vd. P. Ferrua, Appello (dir.proc.pen.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 2 e G. Conso, Intervento al Convegno «Diritti dell’uomo e processo penale», Trieste, 1980, citato ibidem).

Pertanto, la spiegazione del perdurante favore per l’appello non è offerta dalla sua posizione intermedia, ma, piuttosto, dalla sua (auspicata) qualità, frutto della sua medietà, intesa come giusta misura. L’appello, cioè, tenderebbe verso la mesòtes, appunto, nel significato etico e spirituale sostenuto da Aristotele (il riferimento è dovuto al ricordo di H.H. Jescheck ad opera di K. Tiedemann, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2011, p. 435).

La vigente disciplina giuridica offre plurimi argomenti a sostegno di quest’ultima interpretazione. Sia l’appello-impugnazione, sia l’appello-giudizio sono assoggettati, infatti, al rispetto di requisiti di forma che costituiscono i contrafforti dei capisaldi della razionalità, della completezza e dell’imparzialità del corrispondente giudizio. Basti pensare, tra gli altri, al carattere unitario (anziché bi-fasico, come nel c.p.p. del ‘30) che l’appello-impugnazione deve oggi possedere. L’art. 581 c.p.p. 1988 prescrive, per vero, che l’impugnazione contenga, oltre alla “nuda” dichiarazione di volontà, altresì l’enunciazione dei «capi o […] punti» della decisione, delle «richieste» e dei « motivi con l’indicazione specifica delle ragioni […]» giustificative di «ogni richiesta».

Un atto “completo” e “ragionato”, quindi, sia nell’an, sia nel quia. Esso può essere proposto se e solo se è sorretto da mirate ragioni, la cui esposizione può essere effettuata dopo che alla decisione è seguita la giustificazione della sentenza (nel rispetto dell’art. 546 lett. e) c.p.p. ’88). La volontà d’impugnare deve essere, dunque, giustificata dai “motivi” dell’impugnazione, in assoluta simmetria con quanto prescritto per la parte imperativa della decisione.

Quanto all’appello-giudizio, a fronte dell’attenuazione della cognitio e gestis, si rafforza quella ex actis, fondata sulla lettura dei verbali che documentano gli enunciati linguistici in cui si cristallizzano i risultati probatorî precedentemente acquisiti.

Inoltre, la doverosità della scrittura, come forma necessaria dell’impugnazione, e l’onere della specifica enunciazione dei requisiti stabiliti a pena d’inammissibilità dalle lettere a), b) e c) dell’art. 581, in uno all’effetto parzialmente devolutivo, previsto dall’art. 597, 1. c.p.p., collocano l’appello tra i mezzi di impugnazione. Agli antipodi, pertanto, del gravame di ceppo germanico quale, ad esempio, la iudicii blasphematio.

La sintetica enumerazione di tali, pur notissimi, requisiti di forma dell’appello persegue uno scopo preciso: porre in risalto che il carattere (prevalentemente) scritto dell’appello-impugnazione è funzionale al raggiungimento del più elevato grado di razionalità del successivo controllo sia del risultato della prova assunta, sia della scelta dell’ipotesi gnoseologicamente più affidabile tra quelle in conflitto (vd. F.M. Iacoviello, La Cassazione penale. Fatto, diritto e motivazione, Milano, 2013, p. 299 a proposito dell’opera di depurazione razionale, svolta dalla verbalizzazione tanto della prova quanto della motivazione).

Né si può tralasciare, infine, l’ulteriore obiettivo finalistico – deputato proprio al giudizio d’appello – di attuare la giustizia del caso concreto. Da una parte, con l’attribuzione del potere – di ufficio – di determinare la misura giusta della pena e di applicare la sua sospensione condizionale, ovvero una o più circostanze attenuanti. Dall’altra, con l’attribuzione alla Corte territoriale del dovere di comparare le ipotesi antagoniste – dell’accusa e della difesa – nel prisma dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio», limes di separazione della colpevolezza dall’innocenza (sulla vaghezza di questa linea di confine, dal punto di vista epistemico, e sulla difficoltà di giudicare sulla “ragionevolezza” o no del dubbio, cfr. P. Ferrua, Il “giusto processo”, 3a ed., Bologna, 2012, p. 74 s. e A. Dershowitz, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, Milano, 2007, p. 28 s.).

Spetta, infatti, al giudizio d’appello saggiare il grado di affidabilità delle ri-costruzioni del fatto del passato, operate dal giudice di primo grado, e valutarne la probabilità logica, prima attraverso lo scrutinio del metodo della giustificazione apprestata a sostegno della decisione, e, successivamente, per il tramite dell’esame dei criterî di valutazione di volta in volta applicati per ogni inferenza induttiva e per ogni deduzione (l’oggetto del «confronto» dell’appello «è […] innanzitutto con gli atti del fascicolo processuale e non (solo) con la motivazione della sentenza di primo grado»: Cass., Sez. VI, 29 aprile 2009, n. 853, Rel. Citterio, Ric. Tatone et AA, spec. pp. 16-18; sulla diversità tra appello e cassazione, a proposito del punto e della sua prova: F.M. Iacoviello, op. cit., p. 753).

Fatta salva la libertà del giudice d’appello di decidere ex novo su tutte le questioni «astrattamente ipotizzabili in ordine ai punti impugnati» (vd. P. Ferrua, Appello, cit., p. 8), senza cioè che i motivi dell’impugnazione assurgano ad oggetto del giudizio (come, invece, nel giudizio di cassazione: cfr. G. Delitala, Sulla «specificità» dei motivi di impugnazione, in Riv. it. dir. pen, 1949, p. 295 s.), è di cruciale importanza la funzione dei motivi sul piano epistemico-giudiziario. Al maggior grado della loro precisione e della loro accuratezza – muovendo dall’inventio e dalla dispositio, in vista della narratio e della demonstratio – corrisponderà direttamente l’estensione e l’approfondimento del giudizio d’appello in termini di razionalità e di completezza.

Se, poi, si aggiunge che il giudizio d’appello si svolge davanti ad un giudice collegiale (contrariamente al giudizio di primo grado, attribuito in prevalenza alla giurisdizione del giudice monocratico), dopo un apprezzabile intervallo di tempo dal dies commissi delicti (il che attenua, ma non elimina del tutto, i turbamenti – non soltanto “mediatici” – provocati dalla contiguità cronologica del giudizio rispetto alla consumazione del fatto illecito) ed in una sede giudiziaria che può essere diversa dal luogo della consumazione del reato, allora non è difficile scoprire la ragione per cui la disciplina giuridica dell’appello penale eserciti l’appeal menzionato da Alfredo Rocco, oggi forse in misura anche maggiore, nonostante la previsione di un giudizio penale a carattere accusatorio.

 

3. – … e la fenomenologia della realtà.

L’attenzione rivolta all’essere – piuttosto che al dover essere o alle proiezioni ideali – esige la valutazione critica di dati statistici, oltre che la comparazione dei medesimi con altri elementi misurabili (il tempo; le risorse finanziarie; etc.).

In difetto di tali conoscenze – come nel caso di questi appunti – ogni osservazione rischia di assumere i caratteri delle mere “impressioni”, intrise di soggettività e di provvisorietà. Entro questi angusti limiti è possibile, tuttavia, abbozzare alcune annotazioni.

La realtà del giudizio d’appello è costituita da un insieme di coefficienti che concorrono a complicare il suo difficile funzionamento, attualmente ancòra più che nel passato.

In primo luogo, le quantità: cioè, la difficile armonizzazione del numero dei giudici con quello delle impugnazioni e … con la dimensione (sulla quale torneremo) del fascicolo per il dibattimento. Con il corollario della necessità di disporre di un tempo adeguato, in funzione diretta dell’incremento quantitativo delle impugnazioni e degli atti processuali corrispondenti, pena, altrimenti, l’ineludibile effetto estintivo del tempori cedere.

In secondo luogo, le qualità delle impugnazioni, spesso non omogenee tra loro. La vaghezza o la superficialità di alcune – sorde alla regola giuridica della specificità ed al monito di Spinoza di «[…] non lugere, neque detestari, sed intelligere» – rallentano la speditezza dell’appello nel suo complesso e complicano lo stesso giudizio conclusivo, imponendo una “ricerca” anche più minuziosa che negli altri processi in corso. La qualcosa non è contrastabile con la sanzione dell’inammissibilità – in forza dell’art. 591, lett. c) – allorchè venga raggiunta la soglia minima della specificità. In tale ipotesi, infatti, l’appello, sebbene pencolante verso l’infondatezza, non può essere dichiarato inammissibile, a differenza del ricorso per cassazione che sia proposto per motivi manifestamente infondati (art. 606, 3.).

In terzo luogo, la Corte d’appello è il terminale di numerosi rapporti di forza, esterni od interni al processo – alcuni ad andamento carsico e quasi tutti generati nel corso del giudizio a quo, se non già durante le indagini preliminari – che ostacolano il raggiungimento della mesòtes. Ci si dovrà limitare, però, ad una rapida rassegna, con pochissimi cenni essenziali.

Tra i rapporti di forza esterni al processo campeggia su tutti l’invasivo ruolo dei moderni mass-media che, in nome della (legittima) cronaca giudiziaria, irrompono tuttavia nel procedimento penale, a volte anche violando la segretezza delle indagini, indicando colpevoli o innocenti ed infrangendo quel ieròs kúklos, raffigurato nello scudo di Achille e simbolo antico della “sacralità” del cerchio del giudizio, prima delle prepotenze del circo mediatico-giudiziario dei nostri giorni (vd., tra i molti, L. Violante, Magistrati, Torino, 2009, pp. 59-61 e G. Di Chiara, Televisione e dibattimento penale, in Foro it., 1998, V, 277 s.). Poiché la Corte territoriale è tenuta – a differenza della Corte di cassazione – ad accertare l’ingiustizia in concreto, è agevole comprendere i pericoli discendenti dagli accerchiamenti mediatici, guidati da moventi di natura politica, ideologica etc., tutt’altro che inoffensivi, per il giudizio, anche quando apparentemente remissivi (vd. le lucidissime osservazioni di M. Nobili, Torbide fonti e adorati errori, in Critica del dir., 2011, p. 23 s. dell’estratto).

Quanto ai rapporti di forza interni al processo, è bene occuparsi sùbito delle relazioni tra il giudizio di primo grado e quello d’appello in tema di giusto processo.

Abbiamo già osservato che il cd. diritto delle prove sembra trovare il proprio spazio di applicazione esclusivamente nell’istruzione dibattimentale, creando in tal guisa una sorta di monopolio in favore del giudice di primo grado, attesa l’eccezionalità della rinnovazione ex art. 603 c.p.p..

Consequenzialmente, tanto l’ammissione, quanto il metodo e la tecnica di assunzione delle prove dipenderebbero dalle decisioni (in quest’ultimo caso adottate senza formalità, ex art. 470, 1.) del presidente del collegio o del giudice monocratico. Invece, l’eventuale nullità del corrispondente atto genetico, non comportando la regressione al grado che precede (ex art. 185, 4.), aprirebbe l’alternativa rinnovazione dell’atto invalido oppure decisione nel merito, alla stregua dell’art. 604, 5.

Il problema esige un approfondimento ed alcune distinzioni.

Innanzitutto, sarebbe errato ritenere che l’attuazione del diritto al contraddittorio si esaurisca entro il perimetro del giudizio di primo grado. Per un verso, perché il rispetto dei principî stabiliti nei commi da 3 a 5 dell’art. 111 Cost. e nelle corrispondenti norme del codice di rito penale non si estingue in quello stadio processuale, ma permane in appello, allorchè, ad esempio, la possibilità di assumere la prova nel contraddittorio orale sia realizzabile durante il secondo grado e purchè costituisca «oggetto di specifica deduzione e richiesta difensiva» (cfr., su questi temi, Cass., Sez. I, 23 settembre 2009, n. 772, Rel. Di Tomassi, Ric. Marinkovic et AA., p. 19 s.). Per un altro verso, perchè l’equità o meno del processo, in base all’art. 6 C.E.D.U., discende dalla valutazione dell’intero procedimento penale: «with regard to the proceedings as a whole» (vd., ex multis, C. e.d.u. Sent. Delta c. Francia). Infine, perché la giurisprudenza europea impone, sempre più nettamente, la riassunzione delle prove dichiarative allorquando il giudizio di appello si orienta verso la riforma della decisione di primo grado (C. e.d.u., Sez. III, 14 giugno – 5 luglio 2011, Dan vs. Moldavia, sulla quale vd. A. Gaito, Verso una crisi evolutiva per il giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, in Arch. Pen., 2012, p. 349 s. e D. Chinnici, Verso il “giusto processo” d’appello: se non ora, quando?, in Arch. Pen., 2012, p. 927 s.).

V’è, poi, da porre in evidenza un effetto che l’istruzione dibattimentale di primo grado produce sull’appello-giudizio. Ci si riferisce a due profili dell’esame incrociato: il primo, concernente la tecnica di esecuzione della cross-examination (formulazione delle domande; scelta dei temi, soprattutto in controesame; modalità delle contestazioni); il secondo, a cascata, dipendente dalla verbalizzazione stenotipica delle tre fasi dell’esame. Se le domande sono viziate da prolissità e, particolarmente, dalla non pertinenza, il verbale ne riprodurrà gli arabeschi espressivi, fedelmente ed integralmente, con la conseguente moltiplicazione del numero delle pagine. Proprio la dimensione del fascicolo per il dibattimento soffocherà l’oralità e, successivamente, complicherà o, nei casi più gravi, impedirà la stessa cognizione dei singoli risultati di prova, schiacciati dal peso delle carte e mimetizzati da faldoni e faldoni degli atti del dibattimento. Con il corollario di un “controllo” limitato ad alcuni capisaldi – la sentenza impugnata; l’atto di appello; le memorie delle parti – e, per questa ragione, in aperto contrasto con il dovere di giudicare ex actis sì, ma singulatim.

E’ tempo di tracciare un bilancio, al cospetto delle precedenti considerazioni.

L’appello-giudizio, anziché trovare un preciso e razionale riferimento nell’appello-impugnazione, viene ostacolato, a volte, proprio da quest’ultimo, soprattutto quando esso privilegia l’effictio all’explanatio. Inoltre, la ricerca dei risultati delle singole prove viene resa più difficile dalla quantità di carte necessarie a documentare una moltitudine di parole, talora pleonastiche o non pertinenti. A tali coefficienti si aggiungono i sempre più numerosi casi di obbligatoria assunzione diretta dalla prova dichiarativa, da parte della stessa Corte territoriale, e, last but not the least, il numero delle impugnazioni in attesa di decisione.

Un appello-giudizio, dunque, lento e più distante dal volto reale della prova; di per sé affaticato e causa di rallentamento della progressione del processo verso il suo epilogo finale. Una stenosi, quindi, patologica in quanto tale, e dannosa per l’intero sistema?

 

4. – La necessità di un approfondimento diagnostico.

Soprattutto nella cornice di una concezione “efficientistica” dell’amministrazione della Giustizia, le ultime osservazioni potrebbero dar corpo ad un corteo di sintomi giustificativi di una diagnosi severa, bisognosa di una terapia demolitiva ed urgente (sulla mancata riforma dell’appello nel codice dell’88 e per un chiaro panorama delle diverse opinioni, anche dottrinali, vd. P. Gaeta-A. Macchia, L’appello, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, V, Torino, 2009, p. 269 s., spec. p. 296 s.).

Una volta eliminata la stenosi, cioè l’appello, il giudizio penale risulterebbe costituito da un segmento breve, ai cui estremi si collocherebbero, da una parte, il giudizio di primo grado – nelle sue polimorfe attuazioni, compresa la sentenza acognitiva ex art. 444 c.p.p. – e, dall’altra, il giudizio di cassazione – negli stretti limiti dello scrutinio della «violazione di legge» (art. 111, 7. Cost.) consentito dai casi tipicizzati nell’art. 606 c.p.p.

Alla brevità lineare farebbe riscontro la minore durata dell’intero giudizio che, in termini quantitativi, parrebbe assistita da (maggiore?) ragionevolezza, con riferimento all’ultima parte del comma 1 dell’art. 111 Cost.. Il risultato sarebbe quello di un giudizio breve e rapido, al punto da far dubitare della sua stessa effettività (secondo la prognosi inquietante di E. Fassone, Il processo che non c’è, in Quest. Giust., 1994, p. 521 s.).

Al di là della metafora medico-chirurgica e fuori di ogni paradosso ironico, la questione del difficile funzionamento dell’appello richiede qualche ulteriore osservazione.

 

5. – L’appello come strumento sia della difesa dell’imputato, sia dell’accertamento della verità.

L’orizzonte finora abbozzato pone in risalto le difficoltà in cui versa oggi l’appello-giudizio, le conseguenze sul piano della esperienza giuridica in azione ed il possibile impiego di rimedî demolitivi in funzione dell’accelerazione del giudizio verso la sua conclusione.

Si è già ricordato che le norme costituzionali e quelle “pattizie” non contengono regole o principî circa vincoli “in positivo” sul doppio grado di giurisdizione nel merito (vd. supra, sub par. 2). Però le suddette fonti di diritto non prescrivono nemmeno alcun vincolo “in negativo”, cioè non pongono alcun “divieto” in tal senso.

Del resto, l’esperienza fornita dalla storia, anche recente, segnala che l’inappellabilità delle sentenze di condanna penale e dei provvedimenti sulla libertà personale è la nota tipica della Fliegende Standgericht, vera e propria giustizia sommaria amministrata dalle “corti marziali volanti” (istituite in Germania nel marzo 1945: vd. Institut für Zeitgeschichte, Monaco, Fa 600, p. 14).

Al contrario, esistono numerosi valori costituzionali la cui (doverosa) tutela giustifica il mantenimento del giudizio penale di appello. Ne forniremo una sintetica rassegna, scusandoci se essa risulterà più simile all’enumerazione che all’articolata argomentazione.

Innanzitutto, la garanzia del diritto di difesa, significativamente definito «inviolabile» dall’art. 24, 2. Cost., in uno alla presunzione di non colpevolezza, ex art. 27, 2. Cost., concorrono a costituire la prima linea a presidio del giudizio di appello (per i collegamenti con la regola del BARD e con l’art. 14 del già citato Patto internazionale del dicembre 1966, vd. P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, 2009, p. 266 s. e, precedentemente, E.T. Liebman, Il giudizio d’appello e la costituzione, in Riv. dir. proc., 1980, p. 408, oltre che P. Ferrua, Appello, cit., anche per ampî riferimenti alla giurisprudenza costituzionale). La facoltà di chiedere un secondo giudizio sul merito dell’accusa rappresenta una delle espressioni dei sistemi processuali continentali, radicati sulle “garanzie verticali” del giudizio, in corrispondenza con la diffusa concezione della fallibilità del giudice, a differenza dei sistemi di common law, ispirati al principio della prevenzione dell’errore giudiziario, in virtù dell’attuazione delle “garanzie orizzontali” – i.e., l’oralità, il contraddittorio e l’imparzialità del giudice – (vd. P.P. Paulesu, op. cit., p. 274 e R.E. Kostoris, Le impugnazioni penali, travagliato terreno alla ricerca di nuovi equilibri, in AA.VV., Le impugnazioni penali: evoluzione o involuzione? Controlli di merito e controlli di legittimità, Milano, 2008, p. 30).

V’è, poi, un secondo caposaldo costituzionale: il principio di ragionevolezza – ex art. 3 Cost. – ed i suoi corollarî. L’eliminazione dell’appello priverebbe la persona condannata – nelle fattispecie più gravi – per aver “commesso ingiustizia” (il riferimento all’adikein, in contrapposizione agli amartemata, è di D. Pulitanò, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 23) di una facoltà difensiva riconosciuta, invece, nel campo amministrativo. Con l’irragionevole minore tutela della libertà personale che, pur essendo inviolabile ex artt. 2 e 13, 1. Cost., verrebbe posposta, quanto alle garanzie, ad altri diritti che inviolabili non sono.

Inoltre, la scelta (e l’applicazione) dei criterî di valutazione dei risultati di prova potrebbe “sfuggire” al controllo di logicità attribuito dall’art. 606, 1. lett. e) alla Cassazione (vd. ex plurims, Cass., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 1449, Rel. Blaiotta, p. 36 s.), con le agevolmente intuibili conseguenze sulla scelta dell’ipotesi “più probabile” tra quelle antagoniste (vd. Cass., Sez. VI, 3 novembre 2011, Presid. e Rel. Cortese, in Arch. Pen., 2012, p. 367 s., con nota di A. Marandola, Ricostruzione “alternativa” del fatto e test di ragionevolezza del “dubbio” in appello).

La “conservazione” dell’appello nell’arsenale delle impugnazioni penali appare, dunque, la scelta più conforme al rispetto dei valori costituzionali finora menzionati. A tutti questi, però, si deve aggiungere un ulteriore principio, che, forse, si pone a suggello dell’applicazione dei primi: il carattere cognitivo della giurisdizione penale (cfr., volendo, il nostro Profili problematici della pena attraverso il prisma del «patteggiamento», in Persone e sanzioni, diretta da M. Ronco, Bologna, 2006, p. 685, spec. pp. 723-749, con richiami bibliografici).

Come è stato autorevolmente osservato, infatti, «non c’è alcun valido motivo per considerare la verità del processo penale una verità minore, formale, convenzionale ecc.» (F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 625). Il pur lento procedere del giudizio d’appello può contribuire all’accertamento della verità, naturalmente con l’aiuto delle parti, saggiamente guidate dal rispetto del diritto e dalla consapevolezza dei propri doveri (oltre che dei propri diritti).

Emanuele Fragasso

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