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Anticipiamo un articolo in corso di pubblicazione sulla Rivista Giustizia Insieme, con due interventi di PATRIZIA MORABITO e di GINO MADONIA su tema controverso di particolare attualità, come dimostrato dall’evoluzione della giurisprudenza pertinente, e che fornisce spunti interessantissimi sul permanente problema della consapevolezza dell’impatto sistematico e di fatto delle interpretazioni alternative possibili.
Il ‘caso’ dell’art 445-bis c.p.c. (l'Accertamento Tecnico Preventivo alla prova dei fatti: l'efficacia deflattiva del nuovo processo previdenziale, l’interpretazione della legge, la responsabilità della giurisdizione)
Patrizia Morabito – Gino Madonìa

 

Il ‘caso’ dell’art 445-bis c.p.c.

 

(l'Accertamento Tecnico Preventivo alla prova dei fatti: l'efficacia deflattiva del nuovo processo previdenziale, l’interpretazione della legge, la responsabilità della giurisdizione)

 

Patrizia Morabito – Gino Madonìa

 

 

 

 

1. Ci sono approcci diversi alla funzione interpretativa del giudice, ed anche con l’intento di restare fedeli al dato letterale ci si può trovare a dover scegliere fra più soluzioni, tutte astrattamente plausibili. La scelta viene così orientata dalle opzioni culturali dell’interprete.

 

Queste possono svelare una visione asettica e di fatto disinteressata alle ricadute dei percorsi interpretativi - talora giustificata con il rispetto del ruolo di “terzietà” - ovvero la propensione per scelte che sostengano priorità valoriali, con la consapevolezza che l’effettività della giurisdizione dipende anche dalla capacità di farsi carico delle conseguenze e le ricadute reali del proprio operato. Il tutto, beninteso, senza mai rinunziare al principio d’imparzialità rispetto alle singole questioni in gioco.

 

Ma se è il giudice di legittimità a fornire l’interpretazione della legge, allora l’opzione culturale porta il peso della funzione nomofilattica, ed acquista maggiore rilevanza, perché incide in maniera determinante e ad ampio spettro sulla giurisdizione nazionale. Ci si può accorgere così che non sempre l’obiettivo è quello di contrastare i tempi ormai intollerabilmente dilatati attualmente necessari all’accertamento dei diritti in molte aree del territorio nazionale.

 

La riflessione trova sorprendenti esempi nella recente esperienza giudiziaria.

E’ emblematico il caso dell’art 445-bis c.p.c., contestatissima norma destinata ad innovare radicalmente il processo previdenziale, nel dichiarato intento di fronteggiare un contenzioso che in alcune sedi giudiziarie ha ormai assunto proporzioni elefantiache, di fatto paralizzando la funzionalità della giurisdizione in materia di lavoro e della previdenza che già quarant’anni fa il legislatore aveva voluto rapidissima, a tutela di interessi fondamentali costituzionalmente tutelati (art 4, 36, 38 Cost).

 

A causa della tecnica non proprio impeccabile e - forse anche - della radicale novità che la novella ha inteso introdurre nell’accertamento giudiziale dell’invalidità , si sono affacciate subito diverse possibili interpretazioni cui almeno in astratto - e si sottolinea solo in astratto - si presterebbe la disposizione. Taluna fortemente orientata a realizzare la piena rispondenza della norma alle finalità deflattive del contenzioso previdenziale; altre del tutto indifferenti a tali aspetti, sostenitrici di scelte nei fatti confliggenti con ogni possibilità di realizzare maggiore efficienza della giurisdizione.

 

I primi arresti della Corte di Cassazione, soprattutto con tre delle quattro sentenze pronunciate in materia (precisamente le sentenze della Sezione Lavoro nn. 6010, 6084 e 6085, tutte depositate nel 2014) hanno preferito un’interpretazione che, recidendo il legame funzionale tra l’accertamento preventivo e l’accertamento di merito, ha legittimato la proponibilità dell’ATP anche in caso di carenza di interesse ad agire, e persino in mancanza di domanda amministrativa (su questo proprio Cass. 6010/2014), o di carenza di requisiti socioeconomici, di maturata decadenza, insomma di ogni condizione e requisito necessari al riconoscimento ad una prestazione previdenziale.

Inoltre hanno sostenuto la natura meramente accertativa del processo di merito instaurato dopo l’ATP; con la necessità di un ulteriore processo per giungere alla prima condanna effettivamente eseguibile per il pagamento di una prestazione.

Le suddette pronunzie di legittimità di fatto legittimano l’avvio di controversie richiedenti impegno istruttorio - e conseguente aggravio per gli uffici giudiziari già sovraccarichi - anche in assenza di interesse ad agire in fase di merito, affermando la necessità di ben tre procedimenti giurisdizionali (un ATP e due cause di merito da definirsi entrambe con sentenza) per giungere al riconoscimento del diritto alla prestazione, laddove in passato ne sarebbe stato sufficiente uno solo.

E’ evidente che l’applicazione pedissequa degli assunti della Suprema Corte condurrebbe ad una moltiplicazione ingiustificata degli Accertamenti Tecnici, con il prevedibile effetto d’ingolfare oltre ogni limite gli uffici, realizzando l’effetto opposto a quello enunciato dall’art. 38 del d. lgs. 98/2011, che ha introdotto l’art. 445-bis c.p.c. nell’intento di “…deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi…”

 

Dalla lettura delle decisioni non si ricava che la Corte di legittimità abbia effettuato alcuna puntuale disamina per verificare in concreto la compatibilità della ricostruzione proposta con il pur dichiarato intento deflattivo: le sentenze del 2014 forniscono una lettura apparentemente asettica della disposizione, senza sottoporre a vaglio critico gli assunti e le scelte - attribuiti al legislatore -, e senza neppure curarsi di verificare possibili alternative interpretative.

Oltretutto dal sistema così delineato scaturiranno prevedibili maggiori costi per l’amministrazione della giustizia e per l’ente pubblico previdenziale che è parte necessaria in questi processi: sono aggravi economici che si scaricano sulla collettività, ma neppure per questi il giudice di legittimità ha mostrato alcun interesse.

 

In realtà con l’art. 445-bis c.p.c. il legislatore ha inteso operare sulle cause tradizionali di criticità e ritardi, quali il sempre contestato accertamento sanitario, la necessità di sentenze che concludessero l’ordinario processo di merito; l’inevitabile incentivazione all’appello del dettato dell’art. 149 disp. att. c.p.c. (quindi la possibilità che il tempo necessario all’appello aggravasse le malattie dell’invalido e consolidasse l‘invalidità utile a conseguire una prestazione ).

La norma si presta perfettamente ad interpretazioni fedeli al dato letterale, al contempo conformi a ratio ed intentio legis, capaci di ridurre i tempi del processo previdenziale, evitare la redazione di sentenze, incentivare le definizioni a mezzo di omologa degli esiti dell’accertamento peritale, condurre ad una decisione immediatamente eseguibile in caso di contestazione e necessità di processo di merito.

 

Ovviamente la scommessa del legislatore - nonostante l’ imperfetta tecnica redazionale utilizzata - poggia sulla capacità dell’interprete di cogliere pienamente il dichiarato intento deflattivo, e soprattutto di garantirne il risultato, applicando la disposizione in modo da impedirne le - sempre possibili - distorsioni.

 

Per realizzare lo scopo basterebbe riconoscere che l’accertamento preventivo debba essere sostenuto dall’interesse ad agire (ex art. 100 c.p.c., canone necessario e fondamentale dell’accesso alla giurisdizione); che sia legittimo solo in quanto utilizzabile in sede di merito e quindi ad esso funzionale; infine che il giudizio originato dalla contestazione della CTU esperita in Accertamento preventivo debba avere ad oggetto il diritto (id est la prestazione di assistenza o previdenza, quindi il bene della vita oggetto della domanda) .

Non vi è alcun univoco ed insuperabile dato testuale che contrasti con questa opzione interpretativa, ben più plausibile e coerente con i dichiarati scopi deflattivi.

 

Allora, se ciò è vero, la riflessione che sollecita la vicenda oggi in esame può avere portata più generale, e deve indurre a sostenere che quando una legge possa determinare effetti assolutamente diversi sulla giurisdizione, garantendo o negando efficacia ed efficienza alle risposte di giustizia, non può ritenersi che l’interprete - soprattutto se questo sia il giudice di legittimità chiamato ad applicare la norma - sia autorizzato a disinteressarsi di tale aspetto, vagliato in concreto e non con mere enunciazioni o ricostruzioni astratte.

 

La magistratura non può sottrarsi alla responsabilità dell’interpretazione, abdicando al ruolo fondamentale che attraverso questa svolge nell’attuazione più piena dei principi fondamentali dell’ordinamento, fra i quali rientrano a pieno titolo la ragionevole durata dei processi e l’effettività della tutela dei diritti, soprattutto se relativi a prestazioni di sussistenza e di solidarietà sociale (art 38 Cost).

Le sollecitazioni che ormai provengono fortemente dalla società civile e dai consessi internazionali non consentono di restare indifferenti alle conseguenze dell’interpretazione della legge, men che mai a preferire percorsi che non garantiscano - o addirittura contrastino con - obiettivi di tempestività della risposta giurisdizionale, ormai di rango costituzionale. Per garantire i quali vanno promosse regole processuali che garantiscano l’efficienza degli uffici, sfrondandoli da ogni abuso processuale e dai contenziosi inutili.

Una autorevole funzione nomofilattica non può limitarsi ad una asettica lettura del dettato normativo, indifferente alle conseguenze che questa lettura comporta, soprattutto ove sia destinata a ricadere su un elevatissimo numero di processi.

 

Peraltro le citate decisioni della SC sull’art. 445-bis c.p.c. del 2014 si pongono in controtendenza rispetto alla giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, apparsa assai sensibile a questi temi, che ha formulato interpretazioni nutrite dalla evidente consapevolezza che le limitate risorse di uomini e mezzi impongano il contrasto degli usi strumentali o dilatori della giurisdizione, dimostrando grande responsabilità interpretativa nel senso anzidetto.

 

Basta richiamarne alcune, quali la sentenza n. 761 del 23 gennaio 2002 delle Sezioni Unite Civili, pietra miliare nella ricostruzione del principio di non contestazione.

Grazie al nuovo corso avviato da questa pronuncia - alla quale la giurisprudenza negli anni successivi, pur con qualche resistenza, si è sempre più adeguata - i processi hanno beneficiato di sensibili accelerazioni, perché è stato sottratto spazio alle difese meramente dilatorie, generiche e “di stile”, evitando istruttorie sempre faticose ed ingiustificate se non effettivamente necessarie.

Merita menzione l’altrettanto “rivoluzionaria” Cass, Sez. Unite n. 8202 del 2005, che ha di fatto ripristinato il rispetto dei termini imposti dal legislatore per articolare le difese, produrre prove e documenti in giudizio (contraddicendo una ultraventennale interpretatio abrogans dell’art. 416 c.p.c. , finalmente riconoscendola causa di ritardi nella definizione dei processi).

 

Anche Cass. Sez. Unite n. 20604 del 2008 ha sancito l’indisponibilità dei termini fissati alle parti per attività d’impulso del processo “alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo "ex" art. 111, secondo comma, Cost.”, contraddicendo l’ultradecennale vigenza della precedente decisione a Sezione Unite, adottata con sent. n. 6841 del 1996, che non aveva per nulla considerato le ricadute sulla durata del processo dell’opposta interpretazione all’epoca preferita.

 

Per restare sul tema dell’accertamento dell’invalidità, può ricordarsi l’emblematica presa di posizione delle Sezioni Unite Civili, che già più di dieci anni addietro, nel 2000, con la decisione n. 529, affermava a chiare lettere tanto l’inammissibilità di decisioni di mero accertamento, che l’incostituzionalità di un sistema processuale che pretendesse due giudizi, uno di accertamento e l’altro di condanna, per riconoscere una prestazione previdenziale o assistenziale, ponendo l’accento proprio sui tempi che la moltiplicazione di processi e di accertamenti avrebbero richiesto, in contrasto con la funzione della giurisdizione e della tutela dei diritti cui essa è preposta, e quindi in contrasto con gli artt. 24 e 38 della Carta Fondamentale su cui poggia il nostro ordinamento .

 

L’elenco potrebbe essere molto più lungo, ma già queste pronunzie ricordano come la giurisprudenza più accorta e più sensibile si sia fatta da anni pienamente carico della responsabilità di scelte idonee a recuperare effettività ed efficacia al processo civile, garantendone tempi ragionevoli, in aperto contrasto con la disattenzione degli anni passati, che - insieme a molte altre concause, normative e strutturali - ha senz’altro contribuito a porre l’Italia in condizioni d’indifendibile difficoltà nei rapporti internazionali, sminuendo l’attesa di regolazione utile delle controversie civili, con le note ricadute negative anche sui rapporti economici.

 

Non vi sono dubbi che sia questa e solo questa la strada da percorrere, se non si vuole privare di autorevolezza la giurisdizione di legittimità, sminuendone la portata nomofilattica , negando la funzione di polo di riferimento culturale che ormai la Suprema Corte ha acquisito, con tanti arresti giurisprudenziali che hanno tracciato strade innovative, nel solco della piena attuazione dei principi del giusto processo.

 

Non è più il tempo di lasciare la giurisdizione alla mercé d’interpretazioni che autorizzino la moltiplicazioni di contenzioso inutile, esattamente come sono state autorevolmente contrastate e sanzionate condotte processualmente non corrette, basate su artificiosi cavilli, generiche opposizioni, finalità estranee alla garanzia del contraddittorio e del genuino esercizio dei diritti di difesa. Il costo del processo per le parti e per la collettività deve giustificarsi con la serietà della posta in gioco, e con la ricostruzione di regole che non permettano distorsioni ed abusi.

 

Nel caso dell’ATP va onestamente preso atto che l’interpretazione fin qui offerta dalla giurisprudenza di legittimità non è affatto soddisfacente, perché non è culturalmente rispondente ai canoni costituzionali del giusto processo e della tutela dei diritti che, soprattutto in materia di previdenza, va assicurata in tempi ragionevoli. Anche e soprattutto impedendo il verificarsi delle condizioni che nei fatti si contrappongano alla realizzazione di questi principi.

Patrizia Morabito

Giudice del Lavoro a Reggio Calabria

 

* * *

 

2. Trascorsi due anni dall’introduzione del procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio ai sensi dell’art. 445-bis cpc (ATP), alla luce anche delle recenti pronunce della Suprema Corte (5338-6010-6084-6085/14), è possibile tracciare un primo bilancio sul grado di raggiungimento degli obiettivi fissati dall’art. 38, c. 1, legge 15 luglio 2011, n. 111 (realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa e favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti nonché deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processo), e soprattutto dei costi che il sistema integrato Giustizia/Sicurezza Sociale è stato chiamato e sarà chiamato a sopportare ove dovessero consolidarsi le opzioni interpretative adottate dal giudice di legittimità in ordine all’estensione della cognizione sommaria del giudice dell’ATP prima e della cognizione piena del giudice del successivo giudizio di merito, in ordine a tutti i presupposti processuali, le condizioni dell’azione e gli elementi costitutivi di tutti i diritti dei quali l’ATP è condizione di procedibilità.

 

La lettura delle sentenze della Cassazione induce a ritenere che l’esigenza di garantire il maggior grado di certezza del diritto nell’applicazione concreta del nuovo procedimento alla luce dei molti dubbi che i primi interpreti della disciplina hanno fin da subito evidenziato in ordine a pressoché tutti i segmenti che la compongono, abbia prevalso sulle esigenze di coerenza con l’intero impianto del processo previdenziale e soprattutto sulla effettività dei diritti di difesa tanto dei soggetti aspiranti beneficiari delle prestazioni assistenziali e previdenziali, quanto dell’Ente tenuto ad erogarle.

 

Si attendono viceversa a breve le decisioni relative alla estensione o meno dell’ATP anche alla pensione di vecchiaia anticipata in favore degli invalidi in misura non inferiore all’80% ex art. 1, c. 8, d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, ed alla pensione ai superstiti in favore di soggetti maggiorenni inabili ex art. 13 r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636. Considerata la natura eccezionale dello strumento processuale introdotto con l’art. 445-bis c.p.c. (e considerati gli approdi della Suprema Corte) auspico ne venga esclusa ogni possibile interpretazione estensiva e/o analogica.

 

Nonostante tanto i primi commentatori della norma quanto le prime pronunce di merito sembrava avessero raggiunto un prevalente contrario convincimento, con le sentenze 6010/14, n° 6084/14 e n° 6085/14, il Giudice di legittimità ha viceversa affermato che il Giudice dell’ATP non è tenuto ad accertare la sussistenza dell’interesse ad agire del ricorrente in caso di carenza, eccepita dall’Istituto, dei presupposti dell’azione quali la mancanza di domanda amministrativa, il mancato esperimento del ricorso amministrativo per le prestazioni ex lege n° 222/84, la mancata allegazione del verbale sanitario ASL per le provvidenze di invalidità civile, la decadenza ex art. 42 D.L. n° 269/03 per le provvidenze di invalidità civile ed ex art. 47 D.P.R. n° 639/1970 per le prestazioni AGO, la litispendenza, la esistenza di precedente domanda amministrativa non ancora definita o di eventuale procedimento amministrativo/giudiziario in corso, l’avvenuto riconoscimento e/o liquidazione della prestazione, l’esistenza di eventuali giudicati, l’età del richiedente ove prevista tra i requisiti del diritto da far valere, impedendo quindi l’inutile esercizio di attività giurisdizionale in tutte quelle ipotesi al cui verificarsi risulta preclusa a priori la possibilità di riconoscimento del diritto alla cui tutela l’ATP è preordinato.

Infatti, in tali casi, è di comune percezione che l’indagine sui requisiti sanitari, in caso di carenza dei presupposti dell’azione e dei requisiti extrasanitari, finisca per risultare inutile e dispendiosa, con spreco di attività amministrativa e processuale ed impegno di risorse economiche difficilmente ripetibili da parte dell’Istituto, chiamato ad anticiparle, nel caso delle spese per consulenza, anche nell’ipotesi di soccombenza del richiedente.

 

Le sentenze sopra richiamate hanno altresì fornito una inevitabile coerente soluzione anche ad uno dei punti più controversi della disciplina, escludendo la possibilità per il Giudice di valutare i requisiti diversi da quello sanitario previsti come elementi costitutivi dalle norme che disciplinano i diritti per fare valere i quali deve essere preventivamente promosso l’ATP.

La Cassazione ha dunque privilegiato l’interpretazione letterale della norma e la finalità di rendere più agile lo svolgimento del procedimento in contrasto con la diversa interpretazione di chi invece, a mio avviso più correttamente, ammette tale possibilità, evidenziando che in caso contrario l’istanza di accertamento non potrebbe conseguire alcun utile risultato ove tali requisiti si rivelassero insussistenti (Trib. Reggio Calabria). Confido nella “resistenza” da parte di questa giurisprudenza di merito ritenendo preferibile l’opinione secondo cui, magari con inversione degli oneri probatori ma non di allegazione, al giudice debba essere consentita la delibazione del fumus boni juri del diritto che si intende far valere anche e soprattutto al fine di non rendere un vuoto simulacro l’art. 100 c.p.c..

 

La composizione dei due diversi orientamenti potrebbe forse trovare più efficace collocazione all’interno del procedimento amministrativo che precede l’istanza di accertamento, naturalmente a condizione che si consentisse al Giudice di verificarne le modalità di svolgimento. Sarebbe certamente più utile che nessun accertamento sanitario venisse preventivamente disposto dagli Enti senza aver prima verificato la sussistenza dei requisiti contributivi per le prestazioni previdenziali e dei requisiti socio-economici per quelle assistenziali. Il ricorso all’ATP dovrebbe allora essere previsto unicamente per le ipotesi in cui non sia sorto contrasto tra le parti, mentre dovrebbe darsi accesso diretto al giudizio ordinario avente ad oggetto l’intero diritto, nelle ipotesi in cui gli enti ritenessero insussistenti tali requisiti. Soltanto a queste condizioni potrebbe ritenersi realizzato l’assunto su cui riposa l’introduzione dell’art. 445 bis e cioè che le parti controvertano unicamente sulla sussistenza del requisito sanitario. Naturalmente sarebbero necessari una diversa organizzazione della fase di accertamento ad opera degli enti previdenziali/assistenziali ed un intervento additivo al primo comma della norma, ove dovrebbero essere inserite le parole nelle ipotesi in cui gli Enti competenti non abbiano contestato la sussistenza dei diversi ulteriori elementi costituivi di tali diritti dopo le parole per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere.

 

Una migliore gestione del procedimento amministrativo ad opera degli Enti erogatori potrebbe consentire di ottenere un sicuro effetto deflattivo ogniqualvolta il cittadino richieda due o più prestazioni diverse e l’accertamento dei rispettivi requisiti sanitari venga effettuato da Commissioni Mediche a diversa composizione e comunicato con differenti verbali di visita che danno origine a plurime istanze di ATP. L’ipotesi più ricorrente è quella della contestuale richiesta di prestazioni in favore degli invalidi civili unitamente all’accertamento dell’handicap ai sensi della legge 104. In tali casi appaiono insufficienti gli strumenti offerti dall’art. 20, c. 7 e 8 della legge 6 agosto 2008 n. 112, che dispone, in applicazione del principio generale del divieto di frazionamento del credito elaborato dalla giurisprudenza (Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726), la riunificazione d’ufficio dei giudizi aventi ad oggetto il diritto di credito azionato in modo frazionato nei confronti degli enti. Appare più funzionale al dimezzamento del contenzioso la previsione che l’Ente disponga nella medesima giornata le visite relative a tutte le richieste del cittadino e che ne comunichi l’esito all’interessato con un unico documento, in riferimento al quale dovrebbe essere proposto un unico ricorso ex art. 445-bis, a pena di inammissibilità delle domande successivamente presentate, ma fondate sul medesimo verbale di visita. Naturalmente, lo si ripete fino alla noia, ogni accorgimento risulterebbe vanificato ove ne venisse precluso l’esame al Giudice del’ATP.

 

La Cassazione ha offerto un’interpretazione tranciante anche in ordine al punto più controverso del procedimento per ATP, sul quale come prevedibile si sono fino ad oggi registrati gli orientamenti più diversi, costituito dalla esatta delimitazione dell’ambito di cognizione del giudice nel giudizio introdotto in seguito alla contestazione delle conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio, con specificazione, a pena di inammissibilità, dei motivi della contestazione. Prima di ogni ulteriore considerazione rilevo che appare condivisibile la prassi di ritenere inammissibile il ricorso ove non sorretto da un parere medico a sostegno delle censure mosse alla CTU, mentre, viceversa, e anche su questo punto si attende a breve una decisione della Suprema Corte, non sembra condivisibile l’orientamento che ritiene inammissibile il ricorso in assenza di preventive osservazioni di parte nell’endo-procedimento di formazione e deposito della CTU nel procedimento per ATP.

Tornando alla problematica afferente all’esatta delimitazione dell’oggetto del giudizio, contrariamente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte, ritengo che soltanto la chiara affermazione della estensione della cognizione all’intero diritto, con eventuale condanna dell’Ente alla erogazione della prestazione, consente di realizzare quelle esigenze di economicità dell’azione amministrativa …[di] deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processo che il citato art. 38 ha indicato quali ragioni fondanti l’introduzione del procedimento speciale. Diversamente, in forza della inappellabilità della sentenza che definisce il giudizio post ATP, la norma otterrebbe la sola più limitata finalità di trasferire sui giudici di primo grado l’intero peso di un contenzioso (ATP + merito) fino a ieri distribuito tra Tribunali e Corti di Appello e comporterebbe la necessità per il cittadino/lavoratore di agire nuovamente in giudizio per ottenere un titolo esecutivo da azionare coattivamente nei confronti degli enti tutte le volte in cui, per le ragioni più diverse, questi non provvedano a liquidare la prestazione entro i 120 giorni successivi alla notifica delle sentenze di mero accertamento del requisito sanitario.

 

Gli approdi cui è giunta la Suprema Corte, ove non dovessero formare oggetto di auspicabile ripensamento, sono destinati a produrre importanti e devastanti - almeno per le finanze dell’INPS - conseguenze sulla regolamentazione delle spese del procedimento, profilo tra i più critici della disciplina sotto il profilo della sua funzione deflattiva e del conseguente contenimento della spesa pubblica.

Non sfugge infatti all’interprete che una siffatta delimitazione degli - inesistenti - poteri di cognizione del giudice dell’ATP e del successivo giudizio ex art. 445 bis, comma 7 c.p.c., espone l’Istituto erogatore della prestazione ad una sicura soccombenza in punto spese legali e di consulenza anche in tutte le ipotesi in cui il diritto alla prestazione deve ritenersi irrealizzabile per una delle cause non sanitarie sopra richiamate.

Se l’oggetto del giudizio è individuato unicamente nell’accertamento dello “spezzone” costituito dal requisito sanitario, ne deriva indefettibilmente che la soccombenza dovrà essere valutata unicamente in riferimento ad esso. Conseguentemente l’istituto dovrà essere condannato alle spese legali e di CTU anche qualora un soggetto ultrasettantenne, proprietario di primarie aziende nazionali e di cespiti immobiliari valutabili in centinaia di milioni di euro che lo collocano tra i maggiori contribuenti dell’Erario, proponga ricorso per ATP, senza avere preventivamente presentato alcuna domanda amministrativa, al fine di far valere in giudizio il diritto all’assegno ordinario di invalidità civile, lamentando magari la sussistenza di patologie mentali che ne riducano la capacità di lavoro al di sotto delle soglie fissate dall’ordinamento!

Tale estremo esempio lascia intendere come sia alto il rischio di trasformare l’istituto in argomento in un surrettizio sistema di ammortizzatori sociali in favore di Avvocati e Medici, con buona pace del diritto di difesa dell’INPS - garantito dall’art. 24 Cost - impossibilitato a sottrarsi alla condanna.

Di questo rischio sembra astrattamente consapevole anche il Supremo Collegio, che tuttavia appare sbarazzarsi della problematica con una certa noncuranza laddove riafferma la bontà delle proprie soluzioni, e ciò anche scontando l’inconveniente per cui, talvolta, può essere antieconomico, quanto ai tempi ed al dispendio di spese, decidere sulle condizioni sanitarie al cospetto di elementi che già, prima facie, rendano ben edotti che la prestazione non sarebbe comunque conseguibile (6084/14), dimenticando, come purtroppo confermato dall’incremento di tale contenzioso nel Foro in cui mi trovo ad operare, che, specialmente in aree depresse del Paese, il rischio per l’INPS di divenire bersaglio di abusi processuali legalizzati è tutt’altro che sporadico.

 

Sotto altro profilo sono viceversa da apprezzare le statuizioni contenute nelle sentenze 6084-6085/14, laddove hanno escluso la possibilità, talvolta seguita dalla giurisprudenza di merito, di porre sempre e comunque a carico degli Enti le spese di CTU anche in assenza di dichiarazione sui redditi percepiti dal richiedente ex art. 152 disp. att. c.p.c. ovvero di dichiarazione di redditi superiori alle soglie ivi previste.

 

Alcune conclusive notazioni in punto spese dettate dalla necessità di offrire un contributo diretto a frenare l’emorragia di cui rimane spesso vittima l’ente previdenziale.

 

Una ulteriore conseguenza della ricostruzione effettuata dalla Suprema Corte, destinata ad aggravare la posizione dell’Istituto, deriva dalla impossibilità di fatto per il Giudice di verificare se la decisione venga assunta in applicazione del’art. 149 disp. att. c.p.c..

In queste ipotesi, infatti, ritengo non debbano essere posti a carico degli Enti i compensi professionali dei difensori degli istanti (ma sembra viceversa corretto che lo siano i compensi del CTU) dal momento che i benefici vengono riconosciuti in seguito agli aggravamenti intervenuti successivamente alla domanda amministrativa, non potendosi in questi casi configurare alcuna ipotesi di soccombenza (Cfr. Cass. n. 7307 del 30 marzo 2011). Anche in questo caso riterrei opportuno un intervento additivo sulla norma citata del seguente tenore: Quando il giudice decide la causa ai sensi del comma precedente, compensa le spese.

Va da sé che ove al giudice sia precluso l’esame del precedente procedimento amministrativo, l’art. 149 cit. non potrà mai trovare applicazione.

 

Un rimedio talvolta praticato dalla giurisprudenza di merito, ma assolutamente incoerente con le premesse da cui muove la suprema Corte, consiste nel compensare le competenze professionali di lite e porre le spese di CTU a carico dell’istante ogniqualvolta risultino insussistenti i requisiti socio economici e/o contributivi dei diritti che si intende far valere ove il giudice non ritenga di dichiarare inammissibile il ricorso ed intenda viceversa procedere all’istruzione.

 

Le prassi qui avversate, all’evidenza, costituiscono un incentivo alla litigiosità non comportando oneri di alcun tipo per i ricorrenti anche nell’ipotesi di soccombenza o addirittura consentendo ai loro difensori di ottenere vantaggi pur in assenza di soccombenza per gli Enti Pubblici, con buona pace di tutte le politiche di contenimento della spesa ormai da decenni perseguite dagli esecutivi che si sono succeduti e che hanno determinato una insostenibile contrazione dei dipendenti degli Enti stessi il cui potenziamento sarebbe viceversa necessario per ottimizzare l’azione amministrativa, ‘efficientare’ il sistema e deflazionare realmente il contenzioso con liberazione di risorse a vantaggio dell’intera collettività.

 

Conclusivamente ritengo che ogni valutazione sul grado di raggiungimento degli obiettivi fissati dal legislatore debba essere fondata non sulla base degli aridi numeri che probabilmente registreranno un diffuso aumento dei ricorsi per ATP ed una diminuzione dei giudizi di merito, ma sulle ragioni che stanno alla base di queste tendenze e cioè innanzi tutto l’estrema difficoltà per l’INPS di governare una efficace tempestiva reazione alle risultanze sfavorevoli negli strettissimi tempi assegnati dall’art. 445-bis, soprattutto nelle regioni del sud ove l’intensità di questo contenzioso è pervasiva.

Auspico infine che la giurisprudenza di merito non si attesti sulle posizioni del supremo Collegio sopra riferite, sollecitandone un ripensamento ed una necessaria verifica ad opera del Giudice delle leggi.

Avv. Gino Madonìa

 

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