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Italia – magistratura
Cambiamenti e inquietudini
La necessità di riformare la giustizia e di formare chi entra in magistratura
di Vito D'Ambrosio

Finito il periodo di scontro frontale tra potere politico e magistratura, che ha connotato in misura fortemente negativa la trascorsa legislatura, vale la pena di tentare un esame approfondito dello stato delle cose all’interno di un’istituzione che la Costituzione, all’art. 104, 1o comma, definisce «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» e che esercita un ruolo peculiare non solo nel nostro panorama istituzionale, ma anche in quello socio-politico.

Ovviamente non si tratta di un esame compiuto attraverso metodi scientifici, che richiederebbe tempi molto lunghi; ma nemmeno di uno sguardo solo superficiale, perché dall’inizio della legislatura a oggi è passato un sufficiente lasso di tempo da permettere un primo bilancio, ancora provvisorio, forse, ma ormai sempre più necessario per impostare le necessarie correzioni di rotta.

Il disgelo degli inizi

All’inizio della legislatura la nuova maggioranza ha rilasciato dichiarazioni programmatiche abbastanza esplicite sulla necessità di apportare robuste modifiche a buona parte della normativa precedente in tema di giustizia, e non solo a quella ordinamentale. Tuttavia nella fase convulsa di formazione del governo, è accaduto che un ministero tradizionalmente di notevole importanza come quello della Giustizia, faticasse non poco a trovare un candidato per la sua guida.

Fu questo inizio a destare le perplessità che poi non si attutirono quando, finalmente, venne fatto dal presidente Prodi il nome del nuovo ministro, nella persona di Clemente Mastella. I magistrati s’interrogarono sulle motivazioni che avevano portato alla nomina di un ministro del tutto estraneo al mondo della giustizia, ma, nella grande maggioranza, gli concessero credito, rassicurati anche dalle competenze indubbie dei numerosi sottosegretari.

Il ministro Mastella ha iniziato bene il suo cammino: dopo aver nominato alcuni vertici ministeriali con oculatezza, mettendo in campo figure note sia della «nomenclatura» di alcuni gruppi organizzati (cioè correnti) sia dell’Associazione nazionale magistrati nel suo complesso, ha improntato i suoi rapporti con la magistratura associata a una correttezza di toni del tutto inedita nel recente passato: è stato lui, ad esempio, a far visita per primo all’associazione nella sede storica del Palazzaccio di piazza Cavour a Roma.

Questa atmosfera di cortesia istituzionale che si è creata sin dai primissimi contatti con il neo eletto Consiglio superiore della magistratura (i cui componenti non magistrati sono stati eletti dalle Camere in seduta congiunta alla prima votazione, con un’unanimità interpretata da tutti di buon auspicio, ripetutasi per l’elezione del vicepresidente Mancino) si è rafforzata tanto da far nascere polemiche con alcuni organismi rappresentativi dell’avvocatura, che hanno accusato il ministro di privilegiare le richieste dell’Associazione magistrati.

Le prime nuvole

In questo clima tutto sommato idilliaco sono comparse all’orizzonte le prime nuvole quando è iniziata la corsa contro il tempo per evitare l’entrata in vigore dei decreti legislativi di attuazione dell’ordinamento giudiziario. Tenacemente voluti dal precedente ministro della Giustizia e incoraggiati dall’allora presidente del Consiglio, essi avrebbero dovuto diventare leggi dello stato – sia pure dovendo rispettare le inevitabili scansioni temporali proprie dell’iter legislativo – nonostante alcuni dubbi di costituzionalità sollevati dal presidente della Repubblica Ciampi: un atteggiamento che è stato una costante del governo e della maggioranza della scorsa legislatura in tema di giustizia.

La speranza iniziale dei magistrati (quasi tutti, perché bisogna pur ricordare che le norme dell’ordinamento erano state predisposte dai magistrati presenti nel Ministero) di avere una legge di un solo articolo che rinviasse l’entrata in vigore dei decreti delegati con un discreto lasso di tempo (da alcuni mesi a un anno), si è scontrata con una realtà assai diversa.

Il ministro, infatti, ha messo in atto una manovra «morbida», il cui nocciolo era: scambio tra rinuncia a una riforma radicale prima della quale vi sarebbe stato un rinvio congruo nel tempo e ricerca di un accordo con l’opposizione su piccole riforme da condividere, e, alla fine – se proprio si fosse dimostrato necessario – «braccio di ferro» sui pochissimi punti rimasti fuori dall’accordo.

I risultati di questa manovra sono stati: l’approvazione a larga maggioranza (più del 90%) del decreto relativo all’organizzazione delle procure della Repubblica, quasi «ricalcato» sul testo precedente, cioè molto arretrato rispetto alle previsioni costituzionali e alla concreta normativa applicata dal Consiglio superiore della magistratura; approvazione di una versione un po’ «corretta» sulla responsabilità disciplinare; rinvio, alla ripresa autunnale dei lavori, dell’esame del decreto fondamentale sull’accesso e sulla carriera in magistratura; ampio accordo sull’istituzione di una scuola di magistratura.

Mentre i magistrati tentavano di valutare politicamente questi risultati, è arrivata anche l’approvazione (con maggioranza superiore a due terzi di ogni Camera, come stabilito dall’art. 97 della Costituzione) di un indulto d’iniziativa parlamentare alla quale il ministro ha dato un forte appoggio.

Il giudizio dei magistrati sull’indulto è stato subito negativo e allarmato per le sue caratteristiche che destavano ancor maggiore preoccupazione in mancanza di un’amnistia. Infatti, si è detto e si è scritto che questo «…indulto… ha un’ampiezza quantitativa – tre anni – e qualitativa – comprende rapine, reati fiscali e finanziari, voto di scambio, inquinamento, violazioni delle leggi a difesa della sicurezza del lavoro eccetera, e si applica a tutti i soggetti, indipendentemente dalla loro condotta in carcere – assolutamente sconosciuta dal dopoguerra» a oggi.

Alla fine soltanto il generale agosto ha attutito e ammorbidito un’atmosfera di delusione verso l’attività del governo e della maggioranza parlamentare che, in materia di giustizia, si dimostravano svogliatamente incamminati sulla strada di un confronto molto «morbido» con l’opposizione, nascondendo – è parso a parecchi magistrati – dietro alla reale difficoltà di una maggioranza assai ristretta al Senato una valutazione non prioritaria della questione giustizia contrariamente a quella percepita dagli addetti ai lavori.

Alla maggioranza dei magistrati, insomma, è parso che nell’agenda del governo – i provvedimenti dei primi cento giorni – non vi fosse alcun posto per i problemi della giustizia.

Contemporaneamente a queste vicende, si sono tenute le elezioni del nuovo Consiglio superiore della magistratura, che hanno visto un risultato certamente non incoraggiante: infatti, oltre all’arretramento e alla divisione del cosiddetto «schieramento progressista»,1 si è avuta una diminuzione dei votanti pari a quasi il 10% degli aventi diritto, segno di una forte disaffezione verso l’organo di governo autonomo. Risultati di non facile lettura e comunque non premianti i gruppi che avevano guidato l’Associazione nazionale magistrati nei momenti di più acuta contrapposizione con il governo e la maggioranza di centro-destra.

Lo scollamento della base

Alla ripresa dei lavori parlamentari in settembre, l’andatura del Governo non è divenuta più spedita sui temi dell’ordinamento giudiziario, tanto che si è riusciti solo a votare un rinvio al 31 luglio 2007dell’entrata in vigore del decreto su accesso e carriera.

Tuttavia, all’improvviso, si è materializzato un elemento di dirompente conflittualità. Nella bozza della finanziaria è comparso, senza alcun preavviso, un articolo 64 che, riferendosi in generale alle categorie del pubblico impiego «non contrattualizzate», cioè con un trattamento retributivo le cui maggiorazioni avvengono in base a meccanismi automatici non soggetti a contrattazione, prevedeva una drastica alterazione dei meccanismi automatici che avrebbe portato a un forte e progressivo decremento economico nel tempo, fino a intaccare anche le prospettive pensionistiche soprattutto dei giovani appena entrati in carriera.

Alla sorpresa è seguita una reazione altrettanto macroscopica: non vedendo – o non volendo vedere – che la categorie non contrattualizzate comprendevano, oltre ai magistrati di tutti i tipi (ordinari, amministrativi, contabili, militari), anche, per esempio, i professori universitari, si dette subito della norma la lettura più deflagrante: una sorta d’inizio di una politica punitiva della categoria dei magistrati ordinari, visti sempre con occhi malevoli dai «politici» di qualunque colore e schieramento.

Tutto ciò ha giovato al crescere di una sorta di movimento di contestazione di base nei confronti della dirigenza dell’Associazione nazionale magistrati, fenomeno abbastanza nuovo, almeno nelle dimensioni e caratteristiche manifestatesi nell’autunno scorso.

Tutto nasce da un gruppo di magistrati napoletani – Napoli, per la prima volta, non ha suoi rappresentanti nel Consiglio superiore della magistratura – che rinfaccia alla dirigenza associativa un’eccessiva cautela sui temi più propriamente sindacali, cioè prevalentemente sulle rivendicazioni economiche. Questa accusa presto si è tradotta in un più pesante sospetto di «fiancheggiamento» delle posizioni governative in senso generale, ministeriali in senso ristretto, fiancheggiamento che sarebbe dettato o quanto meno ispirato dai colleghi cooptati negli organici del Ministero di via Arenula.

Comincia così un lungo e duro braccio di ferro, che culmina in un’assemblea straordinaria, convocata su richiesta di oltre 200 magistrati, in massima parte giovani dei distretti campani: anche questa un’esperienza del tutto nuova nella storia dell’associazione.

L’assemblea, tenutasi il 26 novembre, si è conclusa con una riaffermazione della fiducia ai dirigenti associativi, espressa a grande maggioranza, anche, o soprattutto, perché, nel frattempo una serrata trattativa con il governo (partita con un incontro molto difficile con il presidente Prodi), aveva portato a una profonda modifica dell’articolo 64, trasformatosi nella previsione assai più morbida di una leggera diminuzione stipendiale temporanea per il biennio 2007-2009.

Ma l’assemblea del 26 novembre ha messo in luce l’esistenza di un divario tra dirigenza e base associativa, in special modo relativo ai giovani colleghi, dei quali è emersa la profonda , quasi strutturale, differenza di vedute, aspirazioni, posizioni nei confronti dei quadri dell’associazione. Quasi all’improvviso ci si è resi conto che negli ultimi anni sono entrati in magistratura decine e decine, anzi qualche centinaio, di ragazze e ragazzi spinti da ragioni, proiettati a obiettivi, provenienti da contesti molto diversi rispetto a quelli contenuti in quella che si riteneva la tradizionale e immutabile – anche se non omogenea – formazione dei magistrati.

Nelle mailing list delle varie correnti è apparso un linguaggio in stile COBAS, tanto più aggressivo quanto più erano numerosi e ripetuti i richiami alla ragionevolezza e all’indicazione dell’isolamento totale della categoria nelle sue rivendicazioni economiche.

Tra attesa e disincanto.

Oggi, a pochi mesi dalla scadenza del fatidico 31 luglio, il ministro Mastella sembra intenzionato a proporre al Governo prima e alla maggioranza poi, una nuova versione di ordinamento giudiziario, che contiene molti punti condivisibili e altri meno, nonché alcune riforme delle leggi processuali, sia civili sia penali. La Corte costituzionale ha inoltre cancellato le leggi più incostituzionali della passata legislatura – da ultima la cosiddetta legge Pecorella, che vietava l’appello del pubblico ministero contro le sentenza di assoluzione in primo grado – e tutto sembrerebbe avviarsi verso una situazione di non conflittualità e di reciproco rispetto tra politica e magistratura. Ma purtroppo non è proprio così.

Innanzitutto l’avvicinarsi del 31 luglio, termine oltre il quale o ci sarà una riforma dell’ordinamento giudiziario, o entrerà in vigore quello pessimo del ministro Castelli, mette in allarme chi vede le lentezze e le difficoltà parlamentari. Difficoltà di cui si parla apertamente all’interno dell’Associazione nazionale magistrati e si è parlato con franchezza nel recente congresso nazionale di Magistratura democratica.

Si avvicinano, inoltre, le elezioni per il rinnovo del «parlamentino» dell’associazione, il Comitato direttivo centrale: e non si riesce a prevedere quale piega prenderanno le dinamiche elettorali dei singoli gruppi organizzati – le tradizionali correnti» – e che peso avranno gli echi dell’assemblea del 26 novembre (non si può neppure escludere il rischio di una diminuita capacità rappresentativa dell’intera categoria da parte dell’associazione, o addirittura la nascita di una nuova).

L’ultimo – in ordine di tempo – motivo di forte preoccupazione è la crescente polemica tra esecutivo, ai suoi massimi livelli istituzionali, e magistratura, ancora una volta milanese, sul tema del segreto di Stato. Esso è un tema particolarmente delicato, che sta sullo sfondo del caso Abu Omar, ma che può da un momento all’altro occupare il centro del palcoscenico, come ad esempio dimostrano la decisione, presa da un governo che non è presente al processo, di sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzioni o dell’accusa, basata su fatti non conosciuti, da parte del ministro Rutelli ai magistrati di aver violato in segreto di stato.

È dunque vero che il potere politico, di qualunque colore, non gradisce un controllo di legalità a tutto campo, come ipotizzano magistrati la cui ispirazione democratica e costituzionale è indubbia? O siamo di fronte a un’ennesima invasione di campo della magistratura ai danni non solo della politica, ma di una corretta divisione di poteri?

In questa confusione, che ne sarà della sacrosanta pretesa dei cittadini di avere una giustizia in tempi accettabili, amministrata da magistrati sufficientemente affidabili?

E come si riuscirà a difendere la vera autonomia e indipendenza della magistratura – come previsto dalla Costituzione – se queste si trasformano in coperture corporative di un’irresponsabilità inaccettabile?

Non mancano, come si vede, ragioni per essere preoccupati.

Ma non si può e non si deve disperare. La nostra pur solida democrazia ha bisogno (anche) di un servizio giustizia che sia funzionale e all’altezza delle necessità di una società complessa.

La Costituzione ne fissa il modello, assicurando il diritto alla difesa (art. 24), il diritto a essere giudicati da un giudice naturale precostituito per legge (art. 25), la personalità della responsabilità penale, la presunzione di non colpevolezza, il rifiuto della pena di morte, la finalità rieducativa della pena (art. 27), l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (art. 104), il diritto a un giusto processo di durata ragionevole (art. 111), l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che è una delle declinazioni del diritto di uguaglianza (art. 112).

Entro questo quadro spetta a tutti i difensori della democrazia – che credo siano ancora una maggioranza nel nostro paese – costruire, ciascuno per la propria parte ma concordemente, le condizioni per poter chiedere, e rendere, giustizia secondo il modello previsto dalla Costituzione. Purché lo si faccia subito.

Vito D’Ambrosio*

* Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione.

1 Articolo 3, la nuova corrente di magistrati presentatasi da sola ed esclusivamente nel distretto di Napoli, ha preso poco più di 200 voti e non ha avuto nessun eletto; Movimento per la giustizia ha tenuto, con qualche difficoltà, le sue posizioni e i suoi 3 rappresentanti; Magistratura democratica ha subito una flessione di quasi 500 voti, perdendo un seggio. Sul versante moderato Unità per la Costituzione ha tenuto i suoi seggi e Magistratura indipendente ne ha guadagnato uno.

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