Giustizia alle donne
di Camilla GATTIBONI
I. I dati parlano chiaro: la presenza femminile in magistratura si avvia a costituire il 50% delle risorse umane.
A questo incremento non corrisponde tuttavia una crescita proporzionale della percentuale di rappresentanza femminile a ruoli apicali.
Tale riscontro riguarda non solo la realtà istituzionale (incarichi direttivi e semidirettivi, consigli giudiziari, CSM), ma anche quella associativa (ANM e singoli gruppi): indipendentemente dal meccanismo adottato (nomina o elezione), il risultato finale denuncia la marginalità della presenza femminile.
Inoltre, monitoraggi anche recenti hanno confermato che, nello sviluppo della carriera professionale, l’ampio gap esistente tra uomini e donne ancora non presenta alcuna apprezzabile tendenza ad una riduzione.
A fronte di un sostanziale pari ingresso, fin dall’inizio del percorso lavorativo si crea la forbice: maggiore partecipazione a corsi di formazione da parte dei colleghi, nomine più frequenti come relatori per incontri di formazione (centrale e decentrata), più numerose richieste ed autorizzazioni per incarichi extragiudiziari, maggiore mobilità e –di conseguenza- curricula maschili più facilmente arricchiti da eterogenee esperienze professionali e culturali.
Tenuto conto del sistema e dei criteri utilizzati anche oggi, questo divario si traduce nell’oggettiva e costante perdita della possibilità per le magistrate di concorrere in modo paritario al confronto con i colleghi, in occasione delle valutazioni che vengono operate per le nomine a ruoli direttivi.
E’ fuor di dubbio che la mancata valorizzazione della professionalità femminile rappresenta uno spreco di risorse (umane, culturali, sociali ed economiche) e, se non si introdurranno adeguati correttivi, essa condurrà ad una performance di produttività assolutamente inferiore alle potenzialità del sistema: efficienza del servizio giustizia è anche una ormai ineludibile questione di giustizia sociale.
Tuttavia, non si tratta solo di rendere di più, ma di ottenere giustizia per le donne, in questo caso in magistratura.
II. In un panorama nazionale in cui, nei ruoli di alto profilo professionale, la presenza femminile stenta ad affermarsi, l’interrogativo che anche la nostra qualificata categoria non può evitare di porsi è cosa condizioni ed ostacoli la completa esplicazione della professionalità e la realizzazione della carriera di una donna-magistrato oggi.
Come “liberare” il potenziale costituito dal capitale intellettivo ed intellettuale femminile?
La sintesi delle ricerche e degli approfondimenti realizzati negli ultimi anni, non solo dal CPOM, ma anche da associazioni femminili, da associazioni sindacali, da organismi europei ed internazionali, evidenzia come, nell’ambito delle professioni legali ed, in particolare, in magistratura, alla base del fenomeno denunciato vi sia l’oggettiva difficoltà di conciliare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, frutto anche di un retaggio socio-culturale che attribuisce in via esclusiva alla donna il compito di gestione e cura della famiglia; accanto a questo, si segnalano difficoltà riconducibili in senso proprio all’ambito della discriminazione di genere.
III. Sul fronte della conciliazione, si deve considerare come l’innalzamento dell’età dell’ingresso in magistratura, oltre a riflessi di natura previdenziale, comuni a tutta la nuova generazione di magistrati, comporti specificamente per le donne, oggi, la necessità di affrontare nei primi anni del servizio una particolare complessità di situazioni di natura professionale, personale, esistenziale.
Infatti, in un arco di tempo relativamente breve, che si colloca tra i 28 ed i 35 anni, vengono operate le scelte della prima sede e delle funzioni, del matrimonio e della maternità: decisioni che si intrecciano ed inevitabilmente si condizionano.
Questo è il periodo in cui viene avvertita come massima l’esigenza di concreta conciliazione, che imporrebbe l’adozione di strumenti elastici (di organizzazione logistica, quantitativa e qualitativa del lavoro), plasmati sui bisogni delle nuove realtà complesse che si affacciano alla magistratura: accanto all’impegno di cura dei figli minori, non possono essere trascurati anche le esigenze di attenzione e presenza che oggi richiedono gli adolescenti, i bisogni dei soggetti svantaggiati, la necessità di assistenza degli anziani della famiglia.
Invece, le risposte dell’ordinamento sono –oggi come in passato- del tutto insoddisfacenti, nonostante la diffusa duplice consapevolezza dell’ampiezza del carico di assistenza che grava sulle famiglie ed all’interno di queste, sulla donna-lavoratrice (moglie-madre-figlia) e della tendenza ad una sempre maggiore contrazione delle risorse e dell’intervento pubblico.
In quest’ottica, è agevole rilevare come risultino inadeguate –e, di fatto, discriminatorie- alcune previsioni contenute nella riforma dell’ordinamento giudiziario: basti pensare, ad esempio, alle ricadute della disposizioni relative al mutamento di funzione, coniugato con l’obbligo del cambiamento di provincia e/o regione. L’incompatibilità territoriale così delineata, da un lato, limita –fin dall’ingresso in magistratura- la prospettiva di sviluppo della professionalità e della carriera delle donne magistrato, poiché nelle scelte, relative alla sede ed alle funzioni, queste si vedono costrette a tener conto -in modo prioritario- dei vincoli territoriali; dall’altro, comporta una sostanziale impossibilità di cambiamento di funzioni per chi si trova ad assolvere anche un ruolo di cura (del quale, come si è detto, secondo un dato di comune esperienza, di regola si fanno carico le donne e le magistrate non fanno eccezione) con la conseguente rinuncia -in tutto od in parte- alla realizzazione delle proprie aspirazioni e potenzialità personali e professionali.
Anche altri interventi legislativi recenti, riguardanti –in modo specifico- limitazioni al conferimento delle funzioni ai magistrati di prima nomina, pur producendo ricadute sull’aspettativa di trasferimento della generalità dei magistrati, stanno specificamente incidendo, in modo negativo, sulla speranza di un rapido avvicinamento al luogo di residenza del nucleo famigliare di colleghe con figli piccoli e l’inutile trascorrere del tempo, tra un bando e l’altro, sta vanificando di fatto anche il beneficio derivante dai punteggi aggiuntivi, riconosciuti –proprio in virtù della presenza di figli di età inferiore a tre anni- da provvedimenti di normazione secondaria.
Sul piano sostanziale, l’istituzione va sollecitata ad introdurre -non necessariamente in opposizione ai trasferimenti ordinari-strumenti alternativi al trasferimento definitivo o ad adottarne di già esistenti, quale quello previsto dall’art. 42 bis del T. U. 151/2001. Come evidenziato dai giudici amministrativi in varie occasioni, dal testo della norma emerge una reale volontà del legislatore di intervenire in favore della conciliazione, con un provvedimento che, sia pure temporaneo, agevoli la famiglia nel periodo più delicato della vita dei figli, salvaguardando contestualmente le esigenze organizzative e funzionali dell’amministrazione pubblica, chiamata a verificare in concreto che la concessione del beneficio non si riveli gravemente dannosa per la stessa. Analoghe considerazioni critiche valgono, poi, per la resistenza a valutare la possibilità di prevedere anche per i magistrati ordinari formule di organizzazione flessibile del lavoro, simili al part-time, che potrebbero rappresentare utili strumenti di attuazione di un concreto equilibrio tra le esigenze del servizio e la tutela del ruolo di cura costituzionalmente sancita.
IV. Deve essere, quindi, oggetto di primaria attenzione da parte di chi ha l’onore e l’onere di rappresentare la nostra categoria (nelle istituzioni e nelle associazioni) la modifica di quei principi di organizzazione -dei tempi di lavoro e degli uffici- che, in modo anacronistico, dimostrano di non riconoscere la centralità del compito e della funzione sociale del ruolo di cura, rendendo in concreto impossibile una vera conciliazione tra le esigenze del lavoro e quelle della famiglia.
La rimozione dei tali ostacoli costituisce il presupposto minimo imprescindibile per la realizzazione di un’effettiva parità nella partecipazione degli uomini e delle donne al processo decisionale.
Sono necessari interventi urgenti ed immediati, quantomeno in relazione alle ricadute discriminatorie e penalizzanti che derivano dalla scarsa mobilità ed alla totale assenza di tutela della lavoratrice-madre pubblico ministero, conseguente al fatto che l’organizzazione degli uffici della Procura oggi –in virtù della riforma dell’O.G.- è insindacabilmente demandata ai capi dell’ufficio e non trovano applicazione quegli atti di normazione secondaria, attraverso i quali -all’esito di un percorso evolutivo durato oltre dieci anni- il CSM era giunto a dare un inizio di attuazione a misure dirette a favorire la flessibilità.
A medio termine, invece, occorre porre al centro dei progetti di riorganizzazione e di efficienza del sistema una particolare attenzione alla questione della conciliazione, intervenendo a tutti i livelli per promuovere la diffusione della conoscenza delle problematiche connesse agli oneri di cura, la condivisione delle stesse tra tutti i colleghi dell’ufficio -a prescindere dal genere- e l’individuazione delle soluzioni organizzative più idonee.
Del resto, già il punto 42 della circolare del CSM sulla formazione delle tabelle per gli anni 2006 e 2007 prevedeva espressamente che nell’organizzazione degli uffici si deve tenere conto della presenze e delle esigenze delle magistrate in gravidanza o con figli di età inferiore ai tre anni, per rendere compatibile il lavoro dei magistrati con le esigenze familiari, prevedendo che per assicurare l’adeguata valutazione di tali esigenze il dirigente dell’ufficio deve preventivamente sentire le magistrate interessate e preventivamente coinvolgere i magistrati dell’ufficio in modo da individuare le modalità più adatte a contemperare le diverse esigenze. Tuttavia non sempre tale prescrizione viene seguita, e non sempre i provvedimenti dei dirigenti degli uffici riflettono la conoscenza della stessa nonché l’assimilazione della cultura di genere.
Scarso è, ad esempio, anche il favore che incontra il ricorso al previsto congedo di paternità: pochissime sono infatti le astensioni dal lavoro dei magistrati padri. Forse l’introduzione di incentivi potrebbe veicolare una riconsiderazione culturale del rilievo paritario del ruolo di cura di entrambi i genitori.
La crescita dell’efficienza del servizio, a fronte della domanda di giustizia di una società sempre più poliedrica, è interesse di tutta la collettività e quindi della magistratura nel suo complesso. Tale crescita deve vivere anche dell’apporto e della visione femminile alla quale deve essere riconosciuto il giusto ruolo e responsabilità sociale ed istituzionale e per rendere possibile questo è necessaria la mobilitazione di tutte le risorse economiche e tecnologiche disponibili.
Ad esempio, la presenza attuale nei CPO presso i consigli giudiziari di rappresentanti delle regioni, e quindi la maggiore possibilità di contatti con gli enti territoriali locali, dovrebbe facilitare la istituzione presso gli uffici di grandi dimensioni (e convenzioni per quelli più piccoli) di asili nido e di scuole materne, per i figli di chi opera nel settore giudiziario (magistrati, avvocati, personale amministrativo).
Nel settore della formazione potrebbe essere promosso l’e.learning, sostenuto già in ambito europeo, come forma alternativa equipollente, per agevolare la partecipazione delle magistrate a corsi di formazione (anche in numero superiore a quello reso obbligatorio dalla riforma dell’ordinamento giudiziario), che le costringerebbero altrimenti per non breve tempo lontano da casa con pesanti oneri organizzativi.
V. Creare le condizioni per la valorizzazione della dimensione femminile nella magistratura, così che si possa affermare un’idea di normalità, che non sia soltanto quella dell’uomo ma anche quella della donna, deve essere l’obiettivo di un percorso condiviso tra tutti i magistrati, senza distinzioni di genere.
La circolare del CSM istitutiva dei CPO presso i consigli giudiziari indica, quali settori di intervento dei CPO decentrati, lo sviluppo di una cultura organizzativa in un’ottica di genere ed a tal fine suggerisce la raccolta e la interpretazione di dati di interesse relativi ai magistrati dei singoli distretti, tra i quali la rilevazione del lavoro svolto, ripartito per genere. Questa raccolta di informazioni dovrebbe, infatti, consentire sia un monitoraggio della produttività, compresa quella–per così dire- nascosta (quella cioè che non risulta dalle statistiche ufficiali e tradizionali); sia elementi per verificare la sussistenza del fenomeno della c.d. segregazione professionale e stimarne la portata. Si tratta, infatti, di un altro fronte scarsamente esplorato della discriminazione di genere: quello cioè che vede le magistrate tendenzialmente addette alle materie che meno paiono interessare ai colleghi (ad esempio, il diritto di famiglia, il diritto minorile, in procura le c.d. “fasce deboli”).
Gli incontri monotematici sulla materia delle pari opportunità hanno registrato finora scarsa partecipazione perché –da un lato- gli uomini li ritengono dedicati alle colleghe, con ciò confermando l’esistenza di un pregiudizio di genere; dall’altro, i corsi non attraggono le colleghe stesse, che li considerano marginalizzanti. Si potrebbero prevedere incentivi per la partecipazione dei magistrati uomini a corsi di formazione sulle questioni inerenti la non discriminazione di genere ed una formazione in questa materia dovrebbe essere obbligatoria per chi intende presentare domanda per un posto direttivo e semi direttivo.
VI. Spostare avanti l’orizzonte: occorre intraprendere azioni specifiche a favore del genere femminile in magistratura, caratterizzato da situazioni di svantaggio e quindi di discriminazione. Anche se questa è involontaria è necessario porre in essere azioni concrete che consentano il raggiungimento effettivo dell’obbiettivo della piena realizzazione di condizioni di uguaglianza.
In magistratura questo significa promuovere l’inserimento delle colleghe in settori e funzioni nei quali esse sono sottorappresentate, in modo da raggiungere la pari presenza delle donne rispetto agli uomini.
Finora sono state introdotte, solo nell’ Associazione Nazionale Magistrati e negli statuti dei diversi gruppi associativi, le cosiddette quote di chances, cioè quote per le candidature al comitato direttivo centrale. Sulla scorta delle esperienze europee, è arrivato il momento di estendere tale previsione agli organismi istituzionali.
Laddove le quote di chances sono state introdotte, esse tuttavia non si sono rivelate sufficienti a realizzare il risultato sperato.
E’ quindi forse il momento di riflettere se, in funzione di un’effettiva parità di partecipazione femminile, non sia necessario imporre quote di risultato, tali da garantire una predeterminata presenza femminile. Del resto, le azioni positive si possono tradurre anche in azioni temporanee di vantaggio, sostanziale o procedurale, di particolare favore rispetto all’altro genere, per raggiungere la situazione di uguaglianza che altrimenti alle donne è preclusa.
Si tratta della prospettazione solo in apparenza di un privilegio; in realtà tale previsione costituirebbe una misura concreta indispensabile perchè le donne possano ricoprire posti di vertice della magistratura in misura pari agli uomini in un arco temporale ragionevole. E’ una misura necessaria perchè le sole azioni di promozione culturale, dirette a superare la naturale autoreferenzialità maschile in una professione tradizionalmente maschile, richiederebbero invece un tempo di elaborazione e metabolizzazione eccessivamente lungo, incompatibile con le esigenze di rappresentanza e rappresentatività dell’attuale componente femminile in magistratura.