L’amministrazione di sostegno quale strumento per la piena realizzazione della persona umana
di Annamaria Crescenzi Avvocato del Foro di Salerno - Giudice onorario presso il Tribunale di Nocera Inferiore
1. La storia
La nuova legge sull’amministrazione di sostegno è il frutto del lavoro, susseguitosi per più di vent’anni, di un movimento culturale che si impegnato per smontare la concezione ottocentesca dell’infermità di mente contenuta nel codice civile per adeguarla ai principi della nostra Costituzione ed alle importanti e profonde trasformazioni socioculturali che, a partire dai primi anni sessanta, hanno interessato il nostro Paese.
Il percorso che ha portato all’approvazione della legge n. 6/2004 ha attraversato varie tappe rappresentate, anzitutto, dall’introduzione, nell’ordinamento giuridico, delle leggi 15.3.1978, n. 180 (disciplinante gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) e 23.12.1978, n. 833 (istitutiva del servizio sanitario nazionale)
A partire dalle predette norme è venuta in evidenza la finalità di protezione sociale, non meramente terapeutiche.
Diversamente da quanto accadeva in precedenza, quindi, per i malati di mente, le prostitute, gli oziosi, i vagabondi e i criminali (che, senza significative distinzioni, erano tendenzialmente considerati socialmente indesiderati e pericolosi) non pensa più al solo ricovero del disabile. E ciò sulla scia della nuova concezione della malattia mentale (diversa da quelle puramente organicistiche) diffusasi in Europa negli anni sessanta che spostava l’attenzione dalla malattia mentale al paziente ed alla sua sofferenza, nonché al suo rapporto con il corpo sociale.
Assistiamo, così, alla promulgazione delle leggi n. 431 del 1968 e n. 180 del 1978.
Tali provvedimenti normativi hanno modificato profondamente lo status del malato di mente, segnando la rottura con la vecchia cultura dell’esclusione e dell’indifferenza.
Alle profonde modifiche apportate, però, non avevano fatto seguito le necessarie modifiche in campo civilistico, anche in considerazione del cambiamento culturale che aveva animato quegli anni.
Occorreva, come più volte sostenuto da Cendon, redattore della omonima “bozza”, una riforma della vigente normativa privatistica dell’infermità di mente dettata dalla necessità di introdurre un nuovo equilibrio tra le opposte esigenze di libertà e di protezione del sofferente, assicurando a quest’ultimo tutta la libertà possibile ed indispensabile e, quanto alla protezione, garantendogli quella necessaria, ma togliendogli quella “superflua, dannosa, ingiusta”.
La soluzione che veniva fornita era la previsione di un nuovo istituto: “l’amministrazione di sostegno”.
2. Le finalità.
In aderenza all’orientamento già espresso dalla legge 104 del 1992 e da numerose indicazioni dell’Unione europea, la legge n. 6 del 2004 dà, finalmente, concreta attuazione ai fondamentali principi costituzionali dettati dagli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale a favore delle persone in difficoltà.
La disciplina, ad alto contenuto sociale, costituisce, difatti, una risposta di civiltà per la tutela della qualità e della dignità della vita, come costituzionalmente garantita, con l’introduzione di un autentico “diritto al sostegno” per le persone deboli (che trova il suo fondamento proprio nel combinato disposto degli artt. 2 e 3 Cost.): riaffermare la personalità umana attraverso la conferma della centralità dei diritti dell’uomo nell’esperienza giuridica.
La legge 9 gennaio 2004, n. 6, ha effettivamente operato una profonda revisione dei tradizionali istituti di protezione dei soggetti che, per effetto di infermità o di menomazioni fisiche o psichiche, si trovino nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.
La scomparsa della menzione dell’infermità di mente risponde alla scelta del legislatore di offrire una più adeguata tutela ai soggetti privi di autonomia, affiancando ai tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, modestamente modificati, l’amministrazione di sostegno. Tanto per l’evidente necessità di graduare sulla singola persona la misura di protezione, constatata l’inadeguatezza degli istituti tradizionali.
La risposta che l’ordinamento forniva, in passato, alle esigenze di tutela attraverso l’interdizione era caratterizzata da una notevole rigidità; ed era ispirata alle tradizionali impostazioni patrimonialistiche, di bimillenaria derivazione romanistica, degli istituti di protezione, pensati in funzione di tutela materiale non tanto del soggetto debole, quanto piuttosto del gruppo sociale in cui era inserito (famiglia e terzi a contatto con lui), garantendo gli effetti degli atti e l’affidabilità sulle condotte del medesimo: e del tutto carente era l’attenzione per i profili personali – e tanto più personalissimi – della vita del soggetto debole.
Proprio la scarsa duttilità dell’istituto, unitamente agli elevati costi ed i tempi lunghi dei procedimenti, ha determinato la limitata utilizzazione del previgente sistema delle tutele.
Con la legge n. 6/2004, come detto, si è abbandonato il concetto di incapacità legato all’infermità, incentrando l’intervento di tutela sulla persona più che sul suo patrimonio, intervento che è di assistenza e non di sostituzione.
Il nuovo istituto di protezione, “figura morbida” secondo una delle numerose espressioni di Paolo Cendon, oltre ad essere caratterizzata da elasticità, modulabilità della protezione distinta per settori e per gradi, contempla il dialogo tra operatori sanitari, operatori sociali, familiari, professionisti e giudice tutelare, nonché la disponibilità, anzi l’obbligo giuridico, all’ascolto del beneficiario.
In tal modo realizzando quella che viene definita la “pratica multidisciplinare” che, ponendo in rete competenze e professionalità distinte ma concorrenti ad un unico scopo, consente di valorizzare un programma terapeutico e realizzare un progetto di sostegno.
Non vi è dubbio che l’A.d.S. costituisca la prova che una buona riforma permette alla “giustizia” di rispondere in tempi ragionevoli alle esigenze di tutela di situazioni di crisi: il confronto tra i tempi medi necessari per le precedenti misure di protezione e quelli mediamente occorrenti nelle procedure di A.d.S. consente di affermare che, anche da questo punto di vista, la legge 6/2004 è una conquista di civiltà.
Merito naturalmente anche di una parte di Giudici Tutelari che hanno saputo interpretare al meglio la legge e dare risposte concrete alle necessità che si sono man mano presentate.
Con gli strumenti forniti dalla disciplina del nuovo istituto di protezione il g.t. è messo in condizione di poter trovare la formula e la combinazione di facoltà e poteri che risponde meglio agli interessi dell’amministrando, anche grazie alla possibilità di rimodulare man mano il provvedimento, di integrarlo, di rimuoverlo con una procedura decisamente snella.
3. Il discrimen tra A.d.S., interdizione ed inabilitazione.
La perdurante coesistenza di strumenti di protezione sostanzialmente alternativi o sovrapponibili ha spesso reso difficoltoso differenziare le misure della A.d.S., dell’inabilitazione dell’interdizione.
Dall’analisi dell’art. 404 cod. civ. emerge anzitutto come la misura dell’amministrazione di sostegno sia idonea ad offrire un supporto protettivo ad aree di alterazioni dello stato di salute che non erano destinate ad essere comprese dalle disposizioni di cui agli art. 414 e 415 cod. civ., in modo da limitare il meno possibile la capacità d’agire del beneficiario.
La protezione dell’incapace è, difatti, ispirata al principio della minore invasività possibile della misura e del maggior possibile rispetto della pienezza della capacità di agire (intesa quale condizione normale dell’individuo ed espressione fondamentale della persona umana pure ai fini dell’art. 2 della Costituzione).
La lettera della norma sembra evidenziare chiaramente le condizioni essenziali di nomina di un amministratore di sostegno, anche se risulta concretamente difficoltoso individuare l’esatto ambito applicativo considerate le possibili interferenze con le previsioni dell’art. 414 c..p.c..
Possiamo individuare i presupposti di operatività del nuovo istituto nella condizione di disabilità del beneficiario della misura protettiva, definito “infermo” ovvero “menomato” fisicamente o psichicamente. Dal punto di vista oggettivo, poi, il soggetto disabile deve essere “impossibilitato a provvedere ai propri interessi”, sia di natura personale che patrimoniale. Entrambi i presupposti che precedono, devono essere tra loro legati da un nesso di interdipendenza, deve cioè sussistere un nesso causale tra la disabilità e l’impossibilità di provvedere alla cura dei propri interessi.
Il riferimento all’infermità o menomazione fisica, quale presupposto autonomo della nomina di un amministratore di sostegno per chi si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di prendersi cura di sé, costituisce un’innovazione rispetto alle situazioni soggettive suscettibili di dar luogo all’interdizione o all’inabilitazione.
Tendenzialmente la previsione d’apertura della legge indurrebbe ad escludere la pronunciabilità della misura nei confronti di chi, pur colpito da una menomazione di carattere fisico, risulti perfettamente compos sui. In effetti, la norma si riferisce chiaramente a tutte quelle situazioni in cui un’infermità o una menomazione fisica incida negativamente sulle facoltà intellettive della persona, compromettendole in modo più o meno grave o impedendone lo sviluppo, cui vanno aggiunte (considerato il comprensivo richiamo alla menomazione fisica contenuto nell’art 404 cod. civ.) le menomazioni sensoriali che pongono il soggetto nella mera impossibilità di manifestare all’esterno il proprio volere (ciechi o sordomuti dalla nascita), per le quali, sino ad ora, l’art. 415, comma 2, cod. civ., “offriva” l’alternativa tra inabilitazione e interdizione, nonché i casi di affievolimento delle capacità psichiche dovuti all’età avanzata.
In relazione alle condizioni strettamente soggettive, quindi, può affermarsi che la misura dell’amministrazione di sostegno rappresenta quantomeno un’opzione protettiva ulteriore rispetto alla pronuncia dell’interdizione e dell’inabilitazione. Del resto l’elemento giustificativo della tutela non è l’infermità mentale o una menomazione di altro genere, bensì, l’inettitudine, più o meno accentuata, della persona a relazionarsi e a determinarsi.
Si può correttamente parlare, nelle ipotesi previste dall’art. 404 cod. civ., di un’inettitudine determinata da una vera e propria patologia, o da una menomazione, psichica, ovvero da una malattia o da una minorazione fisica
L’impossibilità, inoltre, può essere anche soltanto “parziale” o “temporanea” e, considerato il carattere tendenzialmente stabile delle misure dell’interdizione e dell’inabilitazione, il ricorso ad una di queste due ultime misure potrà essere escluso qualora le necessità di tutela si prospettino soltanto come temporanee.
In considerazione della giurisprudenza formatasi sull’interdizione e sull’inabilitazione (l’infermità mentale che legittima l’adozione delle predette tutele non deve necessariamente rivestire i caratteri di una patologia clinicamente ben definita) vanno ritenuti meritevoli di protezione tutte quelle situazioni di disagio psichico non qualificabili clinicamente come malattie di mente.
Non si possono negare però, le acute divergenze di opinione allorché l’interprete deve cogliere le tracce di un criterio per stabilire, in concreto, in quali casi non è possibile accedere all’amministrazione di sostegno, ma occorre giungere all’interdizione.
In particolare si è discusso se sia nominabile un amministratore di sostegno qualora il beneficiario si trovi in situazioni patologiche tali da giustificare l’apertura di un procedimento di interdizione.
Dall’analisi dei dati normativi si potrebbe concludere che la nuova misura di tutela debba presupporre un beneficiario almeno parzialmente cosciente, capace di interloquire nelle scelte del proprio amministratore, dotato, quindi, di una capacità intellettiva e volitiva non del tutto compromessa, fornito di un minimo di autodeterminazione ed in grado di esprimere i consensi ed i dissensi previsti dalla disciplina (l’art. 407 cod. civ. prescrive che il giudice tutelare deve tenere conto dei bisogni e delle richieste del beneficiario che, a norma dell’art. 409 cod. civ., “in ogni caso”, può compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana; l’art. 410 cod. civ. prevede che l’amministratore deve tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario e deve informarlo circa gli atti da compiere).
Parte della giurisprudenza, così argomentando, è giunta a ritenere che ove il soggetto bisognoso di protezione versi in stato tale da essere totalmente incapace (ictus, coma, alzheimer) l’amministrazione di sostegno non sarebbe praticabile per l’assenza di una residua capacità a compiere gli atti necessari, dovendosi prediligere le tradizionali misure di tutela.
Rispetto a questa impostazione restrittiva, un diverso orientamento giurisprudenziale, più in linea con la ratio della riforma, sostiene la necessità di fornire al soggetto incapace di espletare in maniera autonoma gli atti della vita quotidiana, un sostegno personalizzato e leggero.
Si è giunti, così, a ritenere l’amministrazione di sostegno quale strumento ordinario di protezione dei disabili, applicabile anche in presenza dei presupposti dell’interdizione, divenuta misura residuale che non “deve” più essere pronunciata, ma va adottata solo “quando ciò è necessario per assicurare l’adeguata protezione” del beneficiario.
Pertanto, se, da un lato, si ammette l’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno anche a soggetti privi del tutto di capacità, deve limitarsi il ricorso all’interdizione o all’inabilitazione al caso in cui il beneficiario possa inoltre esporre sé o altri a possibili pregiudizi.
A comporre i contrasti giurisprudenziali sull’incertezza del criterio scriminante tra interdizione, inabilitazione ed amministrazione di sostegno (considerata la sostanziale identità delle definizioni normative dei presupposti applicativi degli strumenti di tutela) è intervenuta la Corte costituzionale che, con la decisione del 9 dicembre 2005, n. 440, ha evidenziato che l’interdizione può essere pronunciata “quando ciò è necessario per assicurare l’adeguata protezione dell’infermo di mente” e, richiamando la ratio della norma, ha sostenuto che al giudice è stato affidato il compito di individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più adeguata alla fattispecie e, dall’altro, limiti nella minor misura possibile la sua capacità.
Tale posizione è stata “adottata” anche dalla Corte di cassazione che, a partire dalla sentenza n. 13585/06, dà atto della mancanza di un’espressa indicazione a livello legislativo di criteri discretivi tra le varie forme di tutela, ma esclude che il discrimen sia ravvisabile sotto l’aspetto meramente “quantitativo”, relativo cioè al diverso grado di incapacità secondo cui alla minore o maggiore gravità dell’infermità dovrebbero corrispondere l’amministrazione di sostegno ovvero l’interdizione.
Va piuttosto, secondo la Corte, valorizzato un criterio fondato sulla individuazione della maggiore adeguatezza dell’istituto giuridico ad assicurare la protezione più idonea al beneficiario in relazione al tipo di attività negoziale, e non solo, che questi deve compiere.
Inoltre, sostenendo che l’ordito normativo esclude che si faccia luogo all’interdizione qualora la protezione del soggetto abitualmente infermo di mente sia garantita dallo strumento dell’amministrazione di sostegno, la S.C. riconosce la natura residuale della tutela tradizionale, riservata dal legislatore a quelle ipotesi in cui “nessuna efficacia protettiva sortirebbe una diversa misura”.
Appartiene, quindi, al discrezionale – ma non arbitrario – apprezzamento del giudice di merito la valutazione dell’adeguatezza della tutela prevista dall’art. 404 cod. civ. alle esigenze del beneficiario, tenuto conto del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’incapace e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonché tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie.
Annamaria Crescenzi – avvocato del Foro di Salerno
Giudice onorario presso il Tribunale di Nocera Inferiore