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Sulla CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI/1

Per aiutare a comprendere le ragioni che hanno condotto il Senato ad approvare tra l'altro, nella seduta del 25 gennaio 2012, la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013, anticipiamo  anche sul nostro sito un articolo della dott.ssa DARIA VECCHIONE, Magistrato di sorveglianza dell'Ufficio di sorveglianza di Napoli, appena pubblicato sull'ultimo numero della nostra Rivista Giustizia Insieme (1-2/2011, già disponibile http://store.aracneeditrice.com/it/libro_new.php?id=6526 )

La nostra Costituzione tutela pienamente (artt. 27 e 32 Cost.) il diritto alla salute fisica del condannato mentre non trova la stessa tutela la malattia mentale.

In linea di principio, secondo il nostro sistema normativo, la malattia può, se grave, condizionare l’esecuzione della pena, con modalità differenti a seconda che colpisca la mente oppure il corpo.

Infatti il codice penale prevede la possibilità di scarcerare il condannato affetto da malattia “così grave da non rispondere più ai trattamenti sanitari disponibili ed alle terapie” (art. 146 c.p.) oppure affetto da “grave infermità fisica” (art. 147 c.p.).

La ratio di tali disposizioni è nell’art. 27 Cost., secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono avere una finalità rieducativa.

Si ritiene, pertanto, contrario al senso di umanità contenere in carcere persone nei cui confronti le cure mediche siano inutili perché in uno stadio troppo avanzato della malattia o comunque afflitte da patologie così gravi da rendere vana la finalità rieducativa della pena.

Il differimento della pena è previsto però soltanto quando si verifica una malattia che colpisca l’integrità del corpo mentre, in caso di patologia mentale, opera solo se essa sia tale da arrecare danno anche all’integrità fisica del detenuto.



Per il malato di mente va rilevato che nel nostro ordinamento coesistono due sistemi normativi diversi a seconda che la persona abbia commesso un reato oppure no.

Da un lato, vi sono le norme assistenziali e terapeutiche emesse a partire dagli anni ‘70 che individuano il malato mentale come titolare di una serie di diritti di rilevanza tale da imporre limitazioni alla potestà coercitiva dello Stato nei suoi confronti.

La normativa civilistica mette, infatti, al centro l’individuo e la cura dovutagli ed è strettamente legata ad un principio volontaristico, precipitato del principio di autodeterminazione in campo sanitario, espressione dell’art. 32 Cost. (e oggi di plurime fonti internazionali, tra cui la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina del 4.4.1997, detta Convenzione di Oviedo, ratificata con l. 28.3.2001, n. 145).

L’unico provvedimento coercitivo possibile è il T.S.O. (artt. 33-35 della l. 833/1978), un provvedimento a carattere eccezionale, che deve essere praticato nei confronti di persona affetta da malattia mentale che necessiti di trattamenti sanitari urgenti e che rifiuti il trattamento; per l’adozione di tale provvedimento sono previste diverse cautele, infatti la stessa è consentita sempre che non sia possibile adottare adeguate misure extraospedaliere, è previsto l’intervento congiunto dell’autorità sanitaria (duplice, proposta e convalida), amministrativa (il Sindaco) e giudiziaria (il Giudice tutelare), ed, infine, la sua durata è ridotta (sette giorni suscettibili di proroghe, anche plurime, ma sempre con la medesima durata).

La legislazione civile, inoltre, ha abolito il concetto di pericolosità che prima della l. 180/1978 era insito in quello di malattia mentale ed ha equiparato il malato psichico al malato fisico, prevedendo solo nei suddetti casi eccezionali il ricovero del primo nei reparti psichiatrici civili, trasformando così la cura da custodialistica-coercitiva a terapeutico-riabilitativa.

Dall’altro lato, invece, vi sono le disposizioni penalistiche che concernono i rei pericolosi, la cui “malattia mentale” è incompatibile con la pena della reclusione in carcere e dovrà essere curata “obbligatoriamente”, in un apposito Istituto che è l’ospedale psichiatrico giudiziario.



Evidenziata la sostanziale differenza di disciplina tra norme civili e norme penali, che incidono sullo stesso fenomeno sociale, va detto che le misure di sicurezza sono applicate, in caso di commissione di un fatto-reato, previa assoluzione per vizio totale (artt. 88 c.p. e 530 c.p.p.) o condanna con pena ridotta per vizio parziale di mente (art. 89 c.p.), in presenza di pericolosità sociale della persona (art. 202 c.p.).

Chi è stato riconosciuto nel processo, a seguito di una perizia psichiatrica, incapace di intendere e di volere al momento del fatto, farà ingresso nell’OPG, e la sua permanenza nell’Istituto sarà subordinata alla persistenza della pericolosità sociale, mentre il soggetto ritenuto imputabile sarà condannato ad una pena certa e determinata e gli si apriranno le porte del carcere.

La valutazione della capacità di intendere e di volere è rimessa al perito. Ma anche l’accertamento della pericolosità sociale dipende, in parte, dalla malattia e quindi finisce per essere parzialmente rimesso al perito.

Va rilevato che questo giudizio è supportato da argomentazioni scientifiche dei periti che evitano, per lo più, di entrare nel merito del caso specifico, se cioè il soggetto sia pericoloso, ma si limitano ad affermare che determinate patologie presentano un alto grado di pericolosità.

Tuttavia il concetto di pericolosità è piuttosto delicato e merita una breve riflessione, non solo rispetto ai suoi risvolti pratici, ma anche rispetto alla sua formulazione teorica.

Si deve rilevare infatti che parte della più recente dottrina psichiatrica ritiene privo di fondamento scientifico l’assunto che la malattia mentale sia il presupposto automatico di totale irresponsabilità e pericolosità.

La pericolosità sociale non corrisponde, secondo molti psichiatri, a nessuno dei criteri che fondano la diagnosi psichiatrica e sui quali si basa il metodo scientifico; essa infatti non ha nessun valore terapeutico, adempiendo invece una funzione di pura difesa sociale: è, in definitiva, un concetto giuridico e non squisitamente medico.

Il giudizio penalistico di pericolosità si fonda su un criterio di probabilità, non di mera possibilità, e si è detto da più parti che tale criterio appare inapplicabile, se non aleatorio, in campo psichiatrico.

Inoltre, sembra che ciò che si possa affermare secondo dati scientifici è che la previsione di atti violenti è comunque limitata ad un periodo di tempo piuttosto limitato: questo dato rende sostanzialmente privo di valore ciò che il giudice richiede nella formulazione del suo quesito, perché le misure che dovranno essere attuate avranno valore in un lasso di tempo molto ampio.

Analisi multivariate dimostrano che le malattie mentali gravi, da sole, non sono predittive di violenza futura. Questa è associata, invece, ad altri fattori: biografici (violenze subite in passato, carcerazione giovanile, abusi fisici, ricordi di arresti familiari), clinici (abusi di sostanze, minacce percepite), relativi ad altre caratteristiche della persona (età, sesso, reddito) o del contesto (disoccupazione, vittimizzazione).

In sostanza risulterebbe non dimostrabile che la pericolosità sia il naturale effetto di una patologia.

D’altra parte proprio da questo tipo di giudizio scaturisce la misura di sicurezza dell’OPG, che segna il destino di una persona, che nella maggior parte dei casi risulterà senza speranza e senza riabilitazione.



Dopo che è divenuta irrevocabile la sentenza, ed il soggetto sia stato dichiarato inimputabile, il magistrato di sorveglianza dovrà verificare l’attualità della pericolosità (ex art. 69 l.p.), e dovrà rendere eseguibile la misura solo se sussista una pericolosità sociale attuale e potrà, comunque, graduarla con una misura non detentiva, quando la ritenga più adeguata al caso concreto, così come indicato dalle sentenze della Corte Cost. 139/1982 e 253/2003.

Nel caso, invece, il soggetto già ristretto in carcere manifesti i sintomi di una patologia psichiatrica, il magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 148 c.p., disporrà che l’esecuzione della pena prosegua in OPG, sino a quando la malattia permane.

In tal caso l’accertamento della malattia psichica avviene, secondo l’art. 112 del d.P.R. 230/2000, previa osservazione all’interno di reparti di osservazione psichiatrica, disposta con provvedimento del magistrato di sorveglianza per un periodo non superiore a trenta giorni.

Sul punto si osserva che il trasferimento per l’osservazione dovrebbe essere effettuato presso appositi reparti, e non presso l’OPG; tuttavia in Italia solo sette carceri ne dispongono.

La differenza non è solo di carattere formale; infatti l’OPG è una struttura che ospita pazienti cronici e, molto spesso, con patologie di carattere psichiatrico stabilizzate da tempo, inseriti in programmi trattamentali individualizzati, nonché in percorsi risocializzanti effettuati anche tramite verifiche esterne, e che molto spesso fruiscono di un regime detentivo “attenuato”.

Viceversa il soggetto per cui viene richiesta dalla direzione dell’istituto un’osservazione di carattere psichiatrico, probabilmente, avrà creato disagio nell’istituto di provenienza, e si troverà in un momento di scompenso psichico. Il suo ingresso focalizzerà tutta l’attenzione del personale sul nuovo giunto, che necessiterà, probabilmente, di un regime detentivo più contenitivo rispetto a quello di cui fruiscono gli altri nonché di somministrazione massiccia di terapia farmacologica.

Lo stesso, per la situazione psicologica in cui versa, nonché, talvolta, per la sua diversa posizione giuridica, non avrà le stesse opportunità di cui fruiscono gli altri.

La sua gestione rappresenterà un problema anche per il personale operante, potendo destabilizzare equilibri raggiunti a fatica, e pertanto accade che venga chiesto sollecitamente il suo rientro nell’istituto di provenienza.

In tale situazione la già preesistente situazione di disagio non potrà che aggravarsi, essendo ben difficile poter espletare realmente una seria osservazione psichiatrica in soli trenta giorni ed in tali circostanze.

La sua destinazione per l’OPG non gioverà né a lui né agli altri ospiti.

Anche in tal caso l’assenza di strutture adeguate, e di personale specializzato, viene di nuovo a ricadere sul soggetto malato.



Ritornando al tema principale, si evidenzia che l’impianto normativo originario è stato oggetto, nel tempo, di molteplici tentativi di superamento e interventi di modifica, perché da più parti sono stati sollecitati interventi legislativi che ridisegnassero in materia le disposizioni di legge alla luce dei sopravvenuti principi costituzionali, anche perché lo stato penoso di detenzione delle persone ristrette negli ospedali psichiatrici ha sollevato sempre molto interesse da parte della società civile più sensibile.

Dopo la promulgazione della legge 180/1978 erano state avviate azioni perché venisse automaticamente sancito il superamento dell’OPG, quasi come naturale corollario della riforma.

Nel 1979 era stata altresì sollevata un’eccezione di costituzionalità della misura di sicurezza in OPG; la legge 180, infatti, abolendo la legge del 1904, avrebbe dovuto far venir meno l’istituzione a cui tali misure si riferivano.

Ma tali tentativi non ebbero esito, sia per una sorta di pentimento del legislatore nei confronti della riforma psichiatrica, la cui radicalità forse non era stata sufficientemente ponderata, sia per ragioni contingenti, essendo coinvolti per gli OPG apparati che facevano capo ad un Ministero diverso da quello che aveva attuato la riforma.



Emerse subito che uno dei nodi da sciogliere era costituito proprio dalla necessità di superare la dichiarazione di totale incapacità di intendere e di volere, per chi avesse commesso un reato: la dichiarazione costituiva la premessa per il proscioglimento ma anche per la conseguente misura di sicurezza e per il successivo invio in OPG.

Inoltre, dopo l’abolizione dei manicomi civili, era diffuso il timore che vi sarebbe stato un aumento dei suicidi e degli atti di violenza da parte dei pazienti psichiatrici, con aumento esponenziale dei ricoveri in OPG. La realtà dimostrò esattamente il contrario: il numero dei ricoverati negli OPG non aumentò, per una forte riduzione negli invii, e si mantenne costante solo per soggetti in misura di sicurezza provvisoria o per sopravvenuta infermità, evidenziando la crisi dell’istituzione carceraria, sopraffatta da un numero di detenuti superiore alla capienza, priva di una progettualità chiara, ma soprattutto incapace di denunciare la crescente criminalizzazione dei bisogni sociali.

L’impianto duro e drastico delle misure di sicurezza ha subito, d’altra parte, una progressiva ed ineludibile modifica a seguito dei successivi ed incisivi interventi della Corte Costituzionale, che hanno sostanzialmente tentato di adeguare la struttura della misura di sicurezza ai principi costituzionali.

Di seguito si citano solo alcune significative sentenze, che tracciano il percorso progressivo e sistematicamente demolitorio dell’impianto codicistico, seguito dalla Corte.

Primo importante intervento fu quello della sentenza 110/1974 che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell’art. 207, comma 3, c.p., nella parte in cui attribuiva al Ministro di grazia e giustizia, anziché al giudice di sorveglianza, il potere di revocare le misure di sicurezza personali, anche prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge.

Altra importante sentenza della Corte è la 139/1982 con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 c.p., comma 1, nella parte in cui non subordinava il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della persistente pericolosità sociale derivante dall'infermità, al tempo dell'applicazione della misura.

La sentenza, infatti, censura una presunzione assoluta di durata dell'infermità psichica, che lungi dall'esprimere esigenze di tutela discrezionalmente apprezzate dal legislatore, finisce per allontanare la disciplina normativa dalle sue basi razionali. Determinare, a distanza di tempo imprecisata, lo stato di salute mentale attuale da quello del tempo del commesso delitto, è questione di fatto che può e deve essere verificata caso per caso; totalmente privo di base scientifica sarebbe comunque ipotizzare uno stato di salute (anzi di malattia) che si mantenga costante, come regola generale valida per qualsiasi caso d'infermità totale di mente.

Fondamentale ulteriore tappa è la sentenza 253/2003 in cui si perviene ad una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 222 c.p., nella parte in cui non prevede in capo al giudice il potere di adottare, per il soggetto prosciolto per totale incapacità di intendere e di volere, misure diverse da quella del ricovero in OPG.

Cade, così, un ulteriore profilo di rigidità del sistema sanzionatorio che risultava obsoleto alla luce non solo dei principi costituzionali in materia, e della normativa sui trattamenti sanitari obbligatori, ma anche alla luce degli ultimi approfondimenti della scienza psichiatrica moderna.

La specificità di questa misura di sicurezza sta, ovviamente, nella circostanza che essa è prevista nei confronti di persone che, per essere gravemente infermi di mente, non sono in alcun modo penalmente responsabili, e dunque non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto anche solo parzialmente punitivo.

La Corte chiarisce che la loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D'altra parte la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli.

Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalistico, in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili, di cura e tutela dell'infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità, come al solo controllo dell'infermo "pericoloso", non potrebbe ritenersi costituzionalmente compatibile.

Di più, le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente: e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze.

Oltre i numerosi interventi della Corte, altro passaggio decisivo è stato il d.lgs. 230/99, che trasferendo le funzioni sanitarie dagli istituti di prevenzione e pena al sistema sanitario nazionale, pone le premesse perché sia affrontato in modo dignitoso il grave problema della salute in carcere.

Tuttavia il passaggio dalla medicina penitenziaria a quella del Sistema sanitario nazionale è stato molto difficile ed ad oggi può dirsi solo parzialmente realizzato.

Il D.P.C.M. 1° aprile 2008 ha dato una svolta importante al sistema aprendo spazi operativi ai trattamenti terapeutico-riabilitativi per i soggetti con disturbi mentali e soprattutto nel suo richiamo al valore della territorialità, prevedendo la ripartizione su base territoriale di provenienza dei pazienti tra i 6 OOPPGG presenti in Italia; la territorialità richiede, infatti, una dimensione di continuità terapeutica, comporta la possibilità di incidere sulle cause del malessere sociale, consente l’attivazione delle risorse della comunità, con il coinvolgimento diretto delle Regioni nella soluzione degli OPG.

Inoltre è prevista la ridefinizione degli ospedali psichiatrici come strutture psichiatriche complesse residenziali riabilitative di tipo comunitario, nell’ambito del DSM, con una capienza massima di accoglienza di soggetti internati.



Oggi ci sono le premesse per un reale superamento di tali istituzioni.

A tal fine sarebbe utile realizzare una sinergia di interventi, coinvolgendo operatori della salute mentale e della giustizia nonché gli enti territoriali per realizzare un progetto che gradualmente renda inutile l’OPG: ciò creando le condizioni alternative sia all’ingresso che in uscita.

Occorrerebbe che tutte le Regioni ove insistono gli ospedali psichiatrici giudiziari fossero in linea nel processo di sanitarizzazione.

Occorrerebbero ovunque gruppi multi-professionali, motivati, con una comprovata esperienza sul territorio, che lavorino a tempo indeterminato presso la struttura sotto la guida del responsabile dell’Area Sanitaria per portare avanti una seria e reale progettualità interna.

Occorrerebbe formulare dei piani terapeutici riabilitativi per ogni ricoverato all’interno della struttura con progetti e risorse specifiche, per ridare realmente al territorio pazienti riabilitati, le cui abilità risultino potenziate e stimolate. In questa chiave non sarebbero possibili dimissioni di pazienti psichiatrici che non passino per una reale presa in carico anche all’interno della struttura, con attività terapeutico-riabilitative individualizzate.

Occorrerebbe un’organizzazione interna della struttura in cui i compiti dell’amministrazione penitenziaria fossero limitati alla custodia perimetrale e in cui applicare un regime detentivo aperto per tutti i reparti detentivi.

Occorrerebbe che tutte le celle sia singole che comuni fossero attrezzate con arredi ed oggetti utili alla configurazione di una normale condizione alloggiativa di una struttura sanitaria.

Tutte le strutture dovrebbero avere spazi comuni per la mensa, le feste, il teatro ed ogni altra iniziativa terapeutico-trattamentale.

Occorrerebbero strutture esterne residenziali di riabilitazione psichiatrica, piccole ed efficienti, per pazienti sforniti di assistenza familiare che non abbiano la possibilità di altra collocazione sul territorio.

Occorrerebbe una reale presa in carico da parte dei dipartimenti di salute mentale, i cui psichiatri non si sentano costretti a “caricarsi anche” del problema dei pazienti provenienti dagli OPG, ma siano in grado di elaborare programmi territoriali pure per i casi più difficili.

Occorrerebbe, infine, riscoprire il ruolo e la centralità della magistratura di sorveglianza, che nasce dall’idea di una magistratura di prossimità, che faccia da volano tra l’interno e l’esterno dei diritti dei singoli soggetti ristretti.

I magistrati di sorveglianza dovrebbero analizzare attentamente caso per caso le possibilità di de-istituzionalizzare i soggetti ristretti, sollecitando tutti i servizi coinvolti ad una presa in carico quando vi siano relazioni di sintesi che si concludono con diagnosi di cessata pericolosità sociale, non limitandosi ad emettere ordinanze di proroga della misura di sicurezza quando non vi siano possibilità di collocazione all’esterno.

I magistrati di sorveglianza potrebbero porsi al centro di questo delicato processo di de-istituzionalizzazione, facendo consapevolmente da mediatori tra l’Amministrazione penitenziaria e l’Amministrazione sanitaria; adottando regolamenti di istituto che potenzino l’aspetto terapeutico-trattamentale rispetto a quello contenitivo; sollecitando con insistenza, infine, i dipartimenti di salute mentale più resistenti a farsi carico dei loro pazienti.

E’ chiaro che tale ambizioso progetto non può realizzarsi se non con un programma a tappe, ed evitando di lasciare le strutture abbandonate, come mostri morenti, con tutto il loro contenuto.

Occorre superare l’OPG ripartendo dall’OPG.

C’è la necessità di un’adesione profonda al progetto, la necessità di una motivazione che “trascini” le menti ed i cuori e che prospetti un cambiamento, che dia un senso alla quotidianità ed alla fatica del presente.

Si tratta in sostanza di porsi con forza le domande sul perché e per chi.

Dobbiamo avere presenti quei volti delle persone che diciamo di voler aiutare.

Solo in tal modo si potrà superare l’OPG, condividendo tra tutti l’idea che un reale programma di inclusione sociale coinvolge l’intera società civile, e va a vantaggio di tutti.

E’ chiaro, tuttavia, che ciò non risolve il centrale problema dell’inimputabilità, ed il conseguente automatismo tra il giudizio di malattia mentale / incapacità di intendere e di volere / pericolosità sociale / misura di sicurezza.

Fino a quando si manterrà questo pregiudizio della non imputabilità per malattia mentale si negherà al malato di mente il diritto di essere un soggetto, la possibilità di difendersi nel processo e ne nasceranno tutte le istituzioni che dal manicomio derivano.



DARIA VECCHIONE

Magistrato di sorveglianza

Ufficio di sorveglianza di Napoli

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