Sul tema sempre attuale e problematico del dovere di riserbo del magistrato, nel contesto delle aspettative e dei diritti, individuali e collettivi, all’informazione sull’attività giudiziaria, pubblichiamo il testo della relazione svolta dal collega Mario Fresa (sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione e già componente del C.S.M.) ad un recente incontro di studio organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, il 6 febbraio 2014
Mario Fresa
Libertà di informazione e attività giudiziaria:
dalla teoria alla pratica (rapporto tra magistratura penale e media, anche attraverso una disamina della giurisprudenza disciplinare)
Ogni possibile disciplina dei rapporti tra stampa e processo penale deve passare attraverso il bilanciamento di valori costituzionali fondamentali e contrapposti: la tutela della sfera privata dell’individuo e la libertà di espressione, il segreto investigativo ed il categorico rifiuto di una amministrazione occulta della Giustizia. Valori paradossalmente entrambi al servizio dei cittadini e della collettività in un qualsiasi Paese democratico.1
Dunque, un’osservazione preliminare: la dimensione mediatica straripante dei processi penali, o di alcuni di essi, è capace di distruggere non solo il diritto alla riservatezza, ma a volte anche la vita di chi subisce la spettacolarizzazione della propria vicenda processuale.2
La necessità di un efficace bilanciamento tra questi contrapposti valori costituzionali viene in particolare rilievo nell’atteggiarsi del magistrato che si occupa di processi penali (ma non solo) con i media ed è fonte di possibili responsabilità penali, civili e disciplinari del magistrato stesso.
Il tema di questo intervento è limitato ai possibili risvolti disciplinari dell’atteggiarsi dei magistrati con i media, ma esso deve essere necessariamente inquadrato in una più vasta dimensione e filtrato non solo attraverso le norme della nostra Costituzione, ma anche attraverso lo stato della legislazione e della giurisprudenza delle Corti europee.
Nella relazione di ieri mattina, dal titolo “Informazione e giustizia nella giurisprudenza della C.E.D.U.”, del prof. Cuniberti, è stata oggetto di discussione la sentenza CEDU, sez. seconda, 9 luglio 2013, Di Giovanni c. Italia. Tale sentenza, nel rigettare, a maggioranza, il ricorso alla Corte europea per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (limiti alla libertà di espressione) da parte del magistrato, condannato in sede disciplinare per dichiarazioni diffamatorie rilasciate alla stampa nei confronti di altro magistrato, ha svolto considerazioni particolarmente pregnanti sul tema del dovere di discrezione e di riservatezza che incombe sui magistrati in ragione della loro delicatissima funzione ed al fine di preservare la fiducia dei cittadini nel potere giudiziario.
Mi ha in particolar modo colpito, in parte motiva, l’assunto per il quale “sottolineando la massima discrezione imposta alle autorità giudiziarie, la Corte rammenta che questa discrezione deve indurle a non utilizzare la stampa, neanche per rispondere alle provocazioni”.3
A fronte di un orientamento limitativo della CEDU sui rapporti tra libertà di informazione e attività giudiziaria deve però rilevarsi il recente parere espresso a Yerevan il 9 ottobre 2013 n. 8 dal Consiglio Consultivo dei Procuratori europei (CCPE),4 che ha esaminato in particolare “il giusto equilibrio tra i diritti fondamentali relativi alla libertà di espressione garantiti all’articolo 10 della CEDU ed il diritto-dovere dei media ad informare il pubblico in merito ai procedimenti giudiziari ed i diritti legati alla presunzione di innocenza, ad un giusto processo ed al rispetto della vita privata e familiare, garantito dagli articoli 6 e 8 della CEDU”.5
Il parere è dunque rivolto ai procuratori (ma analoghi principi aveva espresso anni prima anche il Consiglio Consultivo dei Giudici europei (CCJE)) e si conclude con raccomandazioni che ritengo di massimo interesse, tra le quali:
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Le linee guida relative ai rapporti con i mezzi di comunicazione potrebbero essere incluse nei codici etici.
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Le comunicazioni tra i procuratori e i media dovrebbero rispettare i seguenti principi: libertà di espressione e di stampa, diritto alla riservatezza, diritto all’informazione, principio di trasparenza, diritto alla vita privata e alla dignità, nonché riservatezza nelle inchieste, presunzione di innocenza, parità delle armi, diritti della difesa e diritto ad un giusto processo.
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I rapporti dei procuratori con tutti i media dovrebbero essere basati sul rispetto reciproco, la fiducia, la responsabilità, la parità di trattamento ed il rispetto per le decisioni giudiziarie.
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Nei rapporti con i media, il pubblico ministero dovrebbe prendere in considerazione di adottare sia un “approccio reattivo”, rispondendo così alle richieste dei media, che un “approccio proattivo”, informando di sua iniziativa i media in merito ad un evento di natura giudiziaria.
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Potrebbe essere presa in considerazione l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero a portavoce o a procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni.
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Si raccomanda, laddove ciò sia possibile e/o pratico, che i procuratori cerchino di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media.
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Laddove i procuratori abbiano rapporti diretti con i media, sarebbe opportuno fornire loro una formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione.
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Le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali.
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Al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.
Si tratta di raccomandazioni ancora non vincolanti per i singoli Stati, ma autorevoli e possiamo dunque metterle a confronto con l’attuale sistema deontologico e disciplinare vigenti nell’ordinamento italiano, onde verificare se il nostro sistema risponde, almeno in parte, a queste direttive.
E’ noto che, ai sensi dell’art. 6 del codice etico approvato il 13 novembre 2010 (“rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa”):,
“Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio.
Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni per ragioni del suo ufficio concernenti l'attività del suo ufficio o conosciute per ragioni di esso e ritiene di dover fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.
Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione.
Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica”.
Come vedremo, mentre le disposizioni previste dai primi due commi sono trascritte anche nel c.d. codice disciplinare (il d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 così come modificato dalla legge n. 69 del 2006), le disposizioni previste dal terzo e quarto comma dell’art. 6 del codice etico non sono tradotte in disposizioni normative per i profili disciplinari. Sicché può senz’altro affermarsi che, sul versante delle dichiarazioni, interviste e partecipazione a trasmissioni televisive, l’Associazione nazionale magistrati è più rigorosa del legislatore, stigmatizzando in particolare le dichiarazioni non ispirate a criteri di equilibrio, dignità e misura e la partecipazione a trasmissioni televisive finalizzate a rappresentare in forma scenica vicende giudiziarie in corso.
D’altra parte, dopo l’entrata in vigore del codice disciplinare e l’avvento della tipizzazione degli illeciti disciplinari, si è osservato6 che almeno una parte delle previsioni deontologiche sono state trasfuse in fattispecie tipiche di illecito, sì che, su tale versante, la tendenza ad attribuire al codice etico una funzione di supporto al generico precetto di cui all’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, progressivamente emersa in via giurisprudenziale, può dirsi portata almeno a parziale compimento dall’intervento del legislatore e, al tempo stesso, superata.
Coglie questa prospettiva una decisione della Sezione disciplinare,7 che trae origine proprio da una vicenda relativa a rapporti tra procedimento penale e stampa. In particolare, un procuratore aggiunto era stato incolpato per avere reso dichiarazioni agli organi di informazione sull'attività giudiziaria dell'ufficio senza delega del Procuratore della Repubblica. Egli, nel rilasciare l’intervista, dichiarava: "Posso affermare soltanto, ma con certezza, che abbiamo trovato un modo di amministrare paragonabile all'organizzazione di una "cupola", destinata a privilegiare l'interesse privato di pochi".
Domanda: “qual è il quadro che salta fuori dalle tangenti sulla sanità?”. Risposta: “...dalle intercettazioni che abbiamo disposto, i protagonisti usano un linguaggio estremamente esplicito. Altro che ‘pizzini’”.
Dalla lettura del provvedimento di non luogo a procedere (ordinanza camerale ed inoppugnabile ex artt. 17, ottavo comma e 24 d.lgs. 109/06 e non sentenza, come erroneamente è intestata)8 emerge che non era stato fatto, nella specie, alcun riferimento specifico ad atti processuali, si trattava di dichiarazioni generiche e non era più possibile, attesa la tipizzazione degli illeciti, trarre la responsabilità disciplinare dalla norma violata del codice etico, come veniva fatto in precedenza, nella vigenza dell’art. 18 r.d.lgs n. 511 del 1946.
Dunque, ai fini della configurabilità dell’illecito tipico, deve ritenersi venuto meno, per le norme del codice etico, il ruolo di supporto interpretativo, in quanto esse o sono coincidenti con le fattispecie tipiche, il che esclude in radice l’utilità di tale funzione, ovvero prevedono condotte ulteriori ed eticamente più impegnative, nel qual caso costituiscono precetti diversi, che si collocano su un piano distinto e separato rispetto al precetto disciplinare e, come tali, sono inidonee a supportarne l’interpretazione.
Sotto tale versante le regole deontologiche espresse dal codice etico hanno una rilevanza soltanto indiretta e mediata nella materia disciplinare, nella misura in cui i precetti in esso previsti coincidono con una delle fattispecie tipiche previste dal d.lgs. n. 109 del 2006; al di fuori di tali casi rilevano solo ai fini delle eventuali sanzioni in sede associativa, sanzioni che - di fatto - non risultano però mai essere state adottate (ai sensi degli artt. 9, 10 e 11 dello Statuto dell’A.N.M.) dagli organi dell’associazione a ciò deputati (il Comitato direttivo centrale, con eventuale ricorso all’assemblea generale, sulla base dell’azione esercitata dal Collegio dei probiviri).
Pertanto, nel passaggio da un sistema in cui l'atipicità dell'illecito disciplinare poteva essere integrata da un'attività ermeneutica fondata anche su norme interne alla magistratura, quale il codice etico dei magistrati, ad uno incentrato sulla tipizzazione degli illeciti, si è avuto un arretramento della tutela in presenza di condotte stridenti con l’immagine di imparzialità, riserbo ed equilibrio del magistrato, ma non perseguibili, in quanto non previste quale illecito, mentre, nel vigore dell’art. 18, potevano assumere rilevanza disciplinare se costituenti una violazione del codice etico e ritenute compromissive del prestigio e della credibilità del singolo appartenente all'ordine giudiziario, nonché dello stesso intero Ordine magistratuale.
Per questo profilo, i rapporti tra codice etico e codice disciplinare non rispondono propriamente agli auspici del CCPE e, forse, de iure condendo, sarebbe auspicabile un riforma che recepisca sul piano disciplinare ciò che la stessa A.N.M. ha sentito unanimemente come disvalore deontologico.
Quanto al codice disciplinare, il dovere di riferimento in relazione ai limiti delle esternazioni dirette ai media da parte dei magistrati che si occupano di processi penali è riconducibile all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, che pone a carico del magistrato nell’esercizio delle funzioni il dovere di “riserbo”, che comunemente si estende anche all’attività extrafunzionale del magistrato.9
Tra le tre categorie generali di possibili violazioni del dovere di riserbo del magistrato enucleate nel sistema disciplinare abrogato (dichiarazioni sul processo trattato; dichiarazioni di critica politica; osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario)10 nel sistema disciplinare vigente sono ascrivibili agli illeciti funzionali del magistrato soltanto le dichiarazioni o comunicazioni di notizie aventi ad oggetto il procedimento penale trattato dal magistrato dichiarante, sia che riguardino la fase delle indagini preliminari, sia che riguardino altre fasi del processo (art. 2). Le dichiarazioni riguardanti la cosiddetta critica politica o le dichiarazioni, per così dire, autopromozionali sono attinenti, invece, alla sfera degli illeciti extrafunzionali (art. 3) ed oggi sono perseguibili solo in quanto conseguenti a reato (art. 4). Le osservazioni contenute in un provvedimento giudiziario non pertinenti al suo scopo esulano, sul piano logico-sistematico, dalla tematica delle violazioni del dovere di riserbo, essendo ascrivibili alla tematica della violazione dei doveri di correttezza ed imparzialità (lett. d ed a dell’art. 2).
Sul piano degli illeciti funzionali, le fattispecie tipizzate sono oggi quelle che riguardano i limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste (lett. v), l’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza (lett. u) e, infine, il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali (lett. aa).
Per ciascuna di queste fattispecie è prevista la sanzione minima della censura ove la violazione del dovere di riservatezza si riveli “grave o abituale” (art. 12, lett. i).
In conseguenza della abrogazione disposta con la legge n. 269 del 2006 non sono più previste come illeciti due fattispecie tipizzate con il precedente d.lgs. n. 109 del 2006, la prima compresa tra le violazioni nell’esercizio delle funzioni (e, come visto, ancora prevista nel codice etico), consistente nel “rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura” (art. 2, lett. bb), e la seconda, compresa tra gli illeciti extrafunzionali, consistente nella “pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo” (art. 3, lett. f). Una terza fattispecie tipica, compresa tra gli illeciti funzionali, “il tenere rapporti in relazione all’attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal d.lgs. n. 106 del 2006” (art. 2, lett. z) è invece parzialmente confluita nella previsione di cui alla lett. v).
Si procede quindi all’analisi specifica dei tre illeciti funzionali oggi previsti in tema di violazione del dovere di riserbo, analizzando le principali decisioni in materia di rapporti tra magistrati che si occupano di processi penali e media (stampa, televisione, internet, ecc.).
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I limiti alle pubbliche dichiarazioni o interviste.
Costituiscono illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. v) le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.
La disposizione prevede, dunque, due diverse fattispecie di illecito disciplinare.
La prima, trae il suo fondamento dall’esigenza di non divulgare, attraverso pubbliche dichiarazioni o interviste, notizie sui soggetti coinvolti negli affari pendenti, dei quali il magistrato si stia occupando o si sia occupato. Il divieto di pubbliche dichiarazioni o interviste sussiste infatti sino all’emissione del provvedimento non più soggetto ad impugnazione ordinaria; quindi, il magistrato è tenuto al riserbo anche dopo la fase o grado del procedimento in cui ha trattato “l’affare”, anche in sede di impugnazione e sino a quando sui fatti oggetto di trattazione dinanzi a sé non si sia formato il giudicato.
Garantite dal dovere di riserbo sono quindi le notizie acquisite dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni; la finalità della norma è di evitare che le notizie riguardanti soggetti coinvolti negli affari in corso pervengano a chi non ha titolo per esserne informato, anche quando non si tratti di notizie segrete. La norma è posta, pertanto, a tutela di ogni soggetto coinvolto in affari pendenti, in considerazione della specifica invasività dell’attività giudiziaria, che determina l’intromissione nella vita privata delle persone.11 Per questo profilo, la norma pare già rispettosa della raccomandazione del CCPE, laddove nel richiamato parere si auspica che libertà di espressione e di stampa, il diritto all’informazione, principio di trasparenza trovino il loro naturale limite nel diritto alla riservatezza, nel diritto alla vita privata e alla dignità, nonché alla riservatezza nelle inchieste, alla presunzione di innocenza, alla parità delle armi, ai diritti della difesa e nel diritto ad un giusto processo.
Parte della dottrina ritiene che la fattispecie si applichi solo ai magistrati giudicanti e non ai magistrati requirenti, ai quali sarebbe riservata l’altra fattispecie, descritta nella seconda parte della disposizione,12 ma la (scarsa) giurisprudenza disciplinare in materia è, sia pure in assenza di specifiche e articolate argomentazioni, di contrario avviso.
In un caso, il giudice disciplinare aveva giudicato (assolvendolo per lo specifico capo di incolpazione di cui alla lett. v) un Procuratore generale presso la Corte d’appello, il quale aveva tenuto una conferenza stampa in cui aveva qualificato l'azione dei pubblici ministeri di altra Procura della Repubblica, quale atto "istituzionalmente inammissibile", nonché "scandaloso ed eversivo", a cui era necessario rispondere con tempestive iniziative "idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell'Ordine Giudiziario”. Il giudice di merito ha così argomentato l’assoluzione: “la pur vivace intervista (…) appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento,e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (violazione dei doveri di correttezza e diligenza connessi alla mancata astensione ed alla redazione di un provvedimento di sequestro ritenuto abnorme).13
In un altro caso, il giudice disciplinare ha affermato il principio secondo cui “costituiscono illecito disciplinare le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui. Tale disposizione va posta in relazione all'art. 21 della Costituzione ed in tal senso la giurisprudenza disciplinare, in costanza del precedente regime giuridico, è approdata alla conclusione, utile ai fini della interpretazione della nuova norma, che le dichiarazioni rilasciate dal pubblico ministero, proprio in quanto manifestazione del pensiero tutelata dal citato art. 21 Cost., non integra illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza. Allo stesso modo si è rilevato che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è resa (nel caso di specie in ottica di contestualizzazione delle dichiarazione rese, esposizione mediatica del magistrato per la rilevanza dei procedimenti trattati e iniziative prese nei suoi confronti concretatesi in denuncie ad autorità giudiziarie competenti, si è ritenuto che le stesse non abbiano superato il limite della continenza)”.14
Le ragioni per cui la fattispecie è applicabile anche ai pubblici ministeri si traggono dalla esegesi dell’altra fattispecie prevista dalla stessa disposizione di cui alla lett. v), di cui parlerò a breve.
Per il profilo della condotta materiale, si tratta di un illecito di pericolo. In effetti, la condotta descritta nella fattispecie dev’essere diretta a ledere indebitamente diritti altrui. Deve trattarsi non necessariamente di diritti delle parti processuali; può trattarsi anche dei diritti dei difensori, degli ausiliari del magistrato, di testimoni o di terzi eventualmente indirettamente coinvolti.
Non è necessario che vi sia stata in concreto la lesione dei diritti altrui, ma è sufficiente che le dichiarazioni pubbliche o le interviste del magistrato concretizzino anche il mero rischio della lesione dei diritti.
Il pericolo di questa lesione deve derivare da un comportamento “indebito”, non giustificato in alcun modo. Ne consegue che potrebbe essere esclusa la configurabilità dell’illecito quando il magistrato si sia trovato nello stato di necessità di svolgere pubbliche dichiarazioni proprio a tutela del procedimento trattato, o a garanzia del buon esito dell’inchiesta, o per legittima difesa avverso aggressioni verbali o tentativi di intimidazione, o delegittimazione, o altro.
All’elemento materiale della condotta illecita deve accompagnarsi l’elemento soggettivo che, secondo la prevalente dottrina, consiste nella intenzione di ledere i diritti altrui in maniera ingiustificata e, perciò, “indebita” ed “antigiuridica”.15 Non può tuttavia escludersi che il pericolo della lesione dei diritti altrui possa derivare anche da un comportamento colposo del magistrato, non necessariamente doloso, che potrebbe essere costituito da grave negligenza e, comunque, imprudenza, nel rivelare notizie che, pur non protette da segreto, siano idonee a porre in pericolo la lesione dei diritti altrui. Invero, sembra una interpretazione più conforme alla lettera e alla ratio della norma collegare il termine “diretta” alla condotta materiale della pubblica dichiarazione o intervista e non alla sua intenzione specifica di ledere i diritti altrui.
In altri termini, è la portata materiale della pubblica dichiarazione o intervista che - per lo strepitus fori, per la particolare rilevanza mediatica a livello nazionale, o anche solo locale, per la sua oggettiva inopportunità, non accompagnata da cause di giustificazione - deve esporre i diritti altrui al pericolo della lesione. Non sembra necessario, ai fini della configurabilità dell’illecito, accertare l’intenzionalità del magistrato di ledere i diritti altrui. La norma non lo prevede e la sua ratio mira a porre i diritti dei soggetti coinvolti negli affari trattati al riparo anche dalle semplici manie di protagonismo del magistrato che, magari sensibile al clamore mediatico, dimentica, anche per mera negligenza o imprudenza, di essere il principale garante dei diritti alla riservatezza di quegli stessi soggetti coinvolti, siano essi parti del procedimento o, come si è detto, anche terzi direttamente o indirettamente interessati.
Come si è visto, secondo la giurisprudenza,16 la fattispecie va posta in relazione al diritto tutelato dall’art. 21 della Costituzione. A tal proposito, già nel sistema disciplinare abrogato, si era affermato che l’intervista rilasciata da un pubblico ministero, costituendo espressione della libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione, non integra un illecito disciplinare qualora non abbia superato il limite della continenza e che il rispetto del limite della libera manifestazione del pensiero va valutato in considerazione delle modalità, del complessivo contenuto dell'intervista e del contesto in cui è stata resa.17
Dunque, le dichiarazioni rese non andrebbero valutate solo per il loro tenore letterale, ma anche in relazione al particolare contesto nelle quali sono state rese, sicché andrebbe valutata, ad esempio, la circostanza che il magistrato sia suo malgrado esposto al crescente interesse mediatico.
In ogni caso, laddove le dichiarazioni non varchino il limite della continenza, afferma il giudice disciplinare, esse si disvelano irrilevanti sul piano sanzionatorio.
Non risulta che la giurisprudenza di legittimità si sia mai pronunciata sul punto, ma il collegamento tra la fattispecie in esame ed il limite di continenza non sembra sostenibile nel sistema vigente. Invero, nel sistema abrogato, l’art. 18 non distingueva tra dichiarazioni pubbliche e dichiarazioni diffamatorie tout court. Oggi, per un verso è prevista la fattispecie di cui alla lett. v) - accanto alle analoghe fattispecie di cui alle lett. u) e aa) - a tutela delle mere violazioni del dovere di riserbo e, per altro verso, rientrano nella previsione di cui all’art. 4, lett. d) - che riguarda gli illeciti disciplinari collegati a reato - quelle dichiarazioni pubbliche, relative ad affari pendenti presso il magistrato, non solo idonee a ledere indebitamente diritti altrui, ma di fatto lesive dell’altrui reputazione, sì da configurare il reato di diffamazione (sul quale si dirà in seguito).
Se così è, i limiti alla manifestazione del pensiero sembrano esorbitare dalle tematiche attinenti la fattispecie in esame, per confluire nella diversa valutazione dell’illecito disciplinare connesso al reato di diffamazione.
D’altronde, quando vi sia una pubblica dichiarazione o intervista diretta a ledere indebitamente diritti altrui, una volta accertata la sussistenza anche dell’elemento soggettivo del magistrato incolpato, sembra estraneo alla fattispecie l’accertamento di un presupposto non richiesto espressamente dalla norma, la continenza delle espressioni; presupposto che, del resto, sembra al contrario aver voluto escludere il legislatore, giacché, nel bilanciamento di opposti diritti costituzionalmente garantiti, quello alla libera manifestazione del pensiero da parte del magistrato e quello alla riservatezza dei soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione (ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria), ha ritenuto la prevalenza di questi ultimi.
In questo senso si è orientato il giudice disciplinare in fattispecie cautelare in cui è stata configurata la violazione della lett. v) per avere il magistrato incolpato rilasciato gravi dichiarazioni nel corso di una conferenza stampa in cui aveva qualificato l’azione dei pubblici ministeri di diversa Procura come un atto “istituzionalmente inammissibile”, nonché “scandaloso ed eversivo”, a cui rispondere con tempestive iniziative “idonee al ripristino dei principi di legalità, indipendenza ed autonomia che hanno da sempre costituito il patrimonio culturale e morale dell’Ordine giudiziario”. Ha osservato nell’occasione il giudice disciplinare che queste dichiarazioni, definite “impulsive ed irresponsabili”, si sono prestate a considerazioni dei mass media quali “guerra tra Procure” e “scontro tra magistrati” ed hanno contribuito alla lesione del prestigio dell’ordine giudiziario.18
Il giudice di legittimità, nel confermare l’ordinanza cautelare del giudice disciplinare, ha precisato che si era trattato di dichiarazioni riguardanti “soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione” e dirette a lederne indebitamente i diritti.19
Nello stesso senso si è ancora espresso, successivamente, il giudice disciplinare, in fattispecie riguardante dichiarazioni pubbliche rilasciate dal giudice del riesame che si era occupato del caso dei fratellini morti a Gravina di Puglia, ritenute lesive per il padre indagato, poi scagionato.20
Non integra invece l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, qualora tali dichiarazioni non incidano sul buon andamento del procedimento.21
La seconda parte della disposizione in esame, come detto, sanziona la violazione del secondo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 il quale, tuttavia, non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma.22
Il secondo comma dell’art. 5 dispone, infatti, che “ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento”.23
Ciò è contestato da una buona parte della dottrina. Si è ad esempio sostenuto che “la condotta sanzionata si identifica con il divieto del 3° comma, dell’art. 5, perché, altrimenti, rimarrebbe priva di rilevanza proprio la condotta che si intendeva colpire: l’esternazione dei singoli sostituti”.24 Si è pure sostenuto, sempre nello stesso senso, che “non si comprenderebbe altrimenti la disposizione del quarto comma del medesimo articolo”.25
Pur condividendo la teoria della “svista” del legislatore, altra parte della dottrina giunge a diverse conclusioni.26 In effetti, non si può non osservare che, dopo le modifiche apportate all’originario impianto del d.lgs. n. 109 del 2006 dalla legge n. 269 del 2006, sono confluite in questa disposizione le disposizioni già previste dalla stessa lett. v)27 e dalla abrogata lett. z). Quest’ultima sanzionava “il tenere rapporti in relazione all’attività del proprio ufficio con gli organi di informazione al di fuori delle modalità previste dal decreto legislativo emanato in attuazione della delega di cui agli articoli 1, comma 1, lett. d) e 2, comma 4, della legge 25 luglio 2005, n. 150”.
Si trattava pertanto di un rinvio al complesso della normativa introdotta con il d.lgs. n. 106 del 2006. Come si è visto, la vigente disposizione di cui all’ultima parte della lett. v) sanziona soltanto la violazione del divieto di cui all'articolo 5, secondo comma, del predetto decreto legislativo e non del successivo terzo comma.
Certo, la teoria della “svista” del legislatore ha una sua dignità scientifica e non è da escludere che ciò sia per l’appunto avvenuto. Vero è che non possono essere condivise le conseguenze che taluni vogliono trarre da questa “svista”, e cioè che la prima fattispecie disciplinare prevista dalla lett. v) sarebbe applicabile soltanto ai magistrati giudicanti, mentre la seconda fattispecie sanzionerebbe, appunto, soltanto i pubblici ministeri che contravvengano al “divieto di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio”.
Sarebbe irragionevole escludere la sanzionabilità delle pubbliche dichiarazioni o interviste rilasciate da magistrati del pubblico ministero “che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui” solo in considerazione di una “svista” del legislatore che, sicuramente, non può avere alcuna conseguenza modificativa di una fattispecie di illecito chiara e non equivoca, che difetta di alcun riferimento soggettivo ai giudici o ai pubblici ministeri.
Del resto - come si è visto - vi è un indirizzo del giudice disciplinare univoco nel senso dell’applicabilità della fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v) anche ai pubblici ministeri. Ed allora - non potendo configurarsi come disciplinarmente illecita una condotta, quella posta in essere in violazione del terzo comma dell’art. 5 cit., non più tipizzata - sembra che non possa che prendersi atto che la fattispecie disciplinare prevista dalla seconda parte della lett. v) riguardi un illecito proprio dei Procuratori della Repubblica, ovvero dei magistrati da questi delegati a mantenere i rapporti con gli organi di informazione (primo comma dell’art. 5 cit.) ed abbia ad oggetto la condotta consistente nel fornire informazioni inerenti alle attività della procura della Repubblica non attribuendole in modo impersonale all'ufficio ed al contrario riferendole ai magistrati assegnatari del procedimento (secondo comma dell’art. 5).
Anche per questo profilo, il sistema italiano appare in piena sintonia con le recenti Raccomandazioni del CCPE, laddove si auspica l’opportunità di affidare la gestione dei rapporti tra media e pubblico ministero a dei portavoce o a dei procuratori con competenze nelle pubbliche relazioni, ritenendosi che le comunicazioni che provengono dal pubblico ministero nel suo insieme possono evitare il pericolo che le attività siano presentate in modo personalizzato e minimizzare il rischio di critiche personali e si osserva altresì che, al di là dei mezzi legali a disposizione dei procuratori, qualsiasi reazione ad informazioni inesatte oppure a campagne di stampa scorrette nei confronti dei procuratori dovrebbe venire preferibilmente dal capo della procura o da un portavoce dell’ufficio e, nei casi più importanti, dal procuratore generale o dalla più alta autorità nell’ambito del pubblico ministero o dalla più alta autorità statale.
Dove il sistema italiano è invece carente, rispetto alle raccomandazioni del CCPE, è proprio in ordine alla formazione nel campo della comunicazione, in modo da garantire un’adeguata informazione. Di qui, l’importanza di corsi di formazione di tal genere, anche al fine di evitare informazioni non solo inopportune, ma anche - a volte - intempestive, nel senso che mai dovrebbe concretizzarsi l’ipotesi, rimarcata dall’autorevole organo consultivo dei procuratori europei, che i procuratori della Repubblica non adottino cautele nel senso di cercare di garantire che le persone coinvolte dalle loro decisioni siano informate prima che di tali decisioni sia data comunicazione ai media.
Quanto alla violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio (terzo comma dell’art. 5), essa deve ritenersi di per sé priva di alcuna conseguenza disciplinare, non sussistendo più alcuna fattispecie tipizzata, a meno che non si riverberi in altre fattispecie tipizzate: ad esempio, in quanto realizzi la fattispecie prevista dalla prima parte della lett. v), oppure in quanto conseguenza di reato ex art. 4 lett. d) del d.lgs. n. 109 del 2006, oppure in quanto condotta scorretta che potrebbe rilevare ai fini della configurabilità di altri illeciti, quali quelli previsti dalla lett. d), o dalla lett. a), oppure, più semplicemente, a causa della mera violazione del divieto di legge previsto dalla richiamata norma, l’illecito previsto dalla lett. g), ove detta violazione di legge si configuri come “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile”, con specifico accertamento, caso per caso.28
Con ciò potrebbe rimanere a prima vista priva di significato concreto la previsione di cui al successivo quarto comma dell’art. 5 (“il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”). Si tratterebbe quindi di un obbligo, la cui violazione rimarrebbe priva, di per sé, di sanzione disciplinare, a meno che non sia stata integrata, attraverso la violazione del dovere di riserbo gravante sui magistrati della Procura della Repubblica, una diversa fattispecie disciplinarmente rilevante. In realtà non è così perché, come si è già detto a proposito delle omissioni dei magistrati dirigenti costituenti illecito disciplinare, la violazione del quarto comma dell’art. 5 da parte del Procuratore della Repubblica è pur sempre una violazione di legge che, se “grave” e conseguente a “negligenza inescusabile” potrebbe configurare il diverso illecito di cui alla lett. g) del medesimo d.lgs. n. 109 del 2006.
In conclusione, nel vigente sistema disciplinare, la violazione del divieto per i magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio non comporta di per sé una loro responsabilità disciplinare, a meno che queste dichiarazioni non integrino la violazione della fattispecie disciplinare di cui alla prima parte della lett. v), o integrino fattispecie disciplinari diverse dalla lett. v), quale ad esempio la grave violazione di legge a causa di negligenza inescusabile, di cui alla lett. g). La violazione del divieto per i sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione può comportare, di per sé, la responsabilità disciplinare del Procuratore della Repubblica (lett. dd) in quanto si riverberi in una fattispecie tipica prevista dal vigente sistema disciplinare, oppure quando l’omissione di segnalazione del Procuratore si riverberi, essa stessa, in una “grave” violazione di legge conseguente a “negligenza inescusabile” (lett. g).
Secondo il giudice disciplinare, invece, non integra l’illecito disciplinare in esame la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, atteso che il secondo comma dell’art. 5 d.lgs n. 109/2006, unicamente richiamato dalla lett. v) seconda parte, non pone un divieto ai singoli sostituti procuratori di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.29
b) Il divieto di sollecitare la pubblicità di notizie attinenti il proprio ufficio e di utilizzazione di canali informativi personali.
Costituisce anche illecito disciplinare ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. aa) “il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati”.
Come rilevato dalla dottrina,30 la disposizione si ricollega soprattutto ai principi fissati dall’art. 6 del codice etico della magistratura. La fattispecie tipizzata esprime l’esigenza del legislatore, già codificata dalla stessa magistratura associata, di evitare le molteplici forme di collegamento che il magistrato può essere tentato di stabilire con i canali di informazione per sostenere, anche sul piano di una sua distorta immagine pubblica, la sua azione o, peggio, per attirare su di sé l’attenzione dei mezzi di comunicazione mediatica, al fine di soddisfare protagonismi del tutto inopportuni.31
Anche questa norma, come quella contenuta nella lett. v), deve essere coordinata con l’art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 106 del 2006 che, riservando al Procuratore della Repubblica (o al magistrato da lui delegato) il potere di mantenere i rapporti con gli organi di informazione in buona sostanza consente, soltanto nei limiti segnati dalla norma stessa, la gestione di questi rapporti non soltanto attraverso interviste finalizzate alla comunicazione della verità di fatti rilevanti, ma anche attraverso la convocazione di conferenze stampa o la promozione di altre forme di esternazione sulle attività dell’ufficio. Rimane, invece, vietata, anche al Procuratore della Repubblica, la utilizzazione di canali informativi riservati o privilegiati.
Anche questa disposizione prevede distinte fattispecie di illecito: a) la condotta consistente nella sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di magistrato; b) la condotta consistente nella costituzione e nella utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.
La prima condotta, sotto il profilo materiale, può essere per così dire anche unisussistente32 e, cioè, deve concretizzarsi anche in un’unica attività di sollecitazione presso gli organi di informazione in merito all’attività dell’ufficio che il magistrato intende assumere. Essa può consistere, sostanzialmente, in un imput agli organi di stampa o radiotelevisivi o, più frequentemente, ai singoli giornalisti con i quali si è entrati in contatto, per la diffusione di notizie attinenti alle proprie attività di ufficio. Naturalmente, la sollecitazione stessa (o anche l’oggetto cui si riferisce, particolarmente delicato e rilevante), deve essere idonea a compromettere o, quanto meno, a mettere in pericolo, il bene protetto dal dovere di riserbo, e cioè l’immagine di imparzialità e la stessa credibilità della funzione giudiziaria, che può indubbiamente risultare delegittimata ogni qualvolta vi sia un magistrato che spinga o esorti un giornalista o organi di informazione affinché si interessino di una specifica attività giudiziaria.
In questo caso, quindi, il comportamento sanzionato non è quello della esternazione (lett. v) o della divulgazione (lett. u), ma quello, appunto, della “sollecitazione”. Se poi alla sollecitazione si unisce anche la esternazione o la divulgazione di notizie, i diversi illeciti disciplinari possono concorrere tra loro, con le conseguenze di cui all’art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006.33
Quanto all’elemento soggettivo, la “sollecitazione” non può che essere intenzionale, per cui si tratta di illecito essenzialmente doloso.
Secondo una sentenza, che si è occupata di questa fattispecie, integra l’illecito disciplinare per sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività d’ufficio la condotta del magistrato del pubblico ministero il quale, in assenza di alcuna condizione di urgenza ed in violazione delle previsioni del documento organizzativo dell’ufficio, al fine di tutelare la propria onorabilità professionale, fornisca agli organi di informazione le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul suo operato, qualora non abbia previamente provveduto ad avvalersi degli strumenti di tutela istituzionale previsti dall’ordinamento, con forme e modalità tali da consentirne la piena esplicazione.34
Secondo altra e più recente ordinanza di non luogo a procedere, quando sussiste un programma organizzativo il quale preveda che “il magistrato di turno esterno, nel solo periodo in cui è di turno e se richiesto, può dare notizia agli organi di informazione relativamente e limitatamente agli accadimenti verificatisi nel suddetto periodo”, programma del tutto conforme all'art. 5 del d.lgs. 106 del 2006, è da escludersi la responsabilità disciplinare del magistrato che informi i giornalisti di un fatto rilevante sotto il profilo del diritto di cronaca, senza peraltro violare il segreto investigativo.35
La seconda condotta si concreta, invece, nella “costituzione” e “utilizzazione” di canali informativi riservati o privilegiati. La utilizzazione, da parte del legislatore, della congiunzione “e” piuttosto che la disgiunzione “o” sembra stare a significare che non può essere sanzionata la mera utilizzazione di un canale informativo riservato o privilegiato se non ne viene accertata anche la costituzione. Ma ciò, evidentemente, fa parte del mero esercizio retorico, in quanto ogni utilizzazione di un canale informativo, ne presuppone la sua costituzione. E, naturalmente, poco importa se la costituzione del canale informativo riservato o privilegiato sia opera dello stesso magistrato che poi lo utilizza, oppure di altro magistrato che si sia occupato, prima di lui, di certe inchieste, o anche di altri soggetti (avvocati, organi di polizia giudiziaria o, in genere, operatori del diritto) che abbiano messo in contatto il magistrato con il singolo giornalista, o con la testata giornalistica, o con la rete televisiva privata, o quant’altro.
Questa seconda fattispecie prevista dalla lett. aa) presuppone perciò, a differenza della prima, una pluralità di atti, costituiti almeno dalla costituzione del canale informativo riservato o privilegiato e dal suo successivo utilizzo.36
La giurisprudenza disciplinare ha affrontato il tema dell’illecito di cui alla lett. aa) nel caso di un magistrato della Corte di cassazione che era stato tratto a giudizio, tra l’altro, per aver gravemente mancato ai propri doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio e per aver sollecitato la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di presidente dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione. In particolare, per aver accettato, a seguito del giudizio di ammissibilità di quesiti referendari emesso dall’Ufficio suddetto, di rilasciare un’intervista ad un giornale (il cui titolo era “Con la Consulta possibili sorprese politiche”) nel corso della quale, tra l'altro, affermava che “è la legge che prevede che la suprema Corte dia un primo vaglio di costituzionalità alle domande referendarie, almeno sugli errori macroscopici. Che poi nel tempo sia venuta meno questa cosa e la prassi si sia burocratizzata è un altro discorso ...”; in tal modo lasciando intendere che a tale prassi, sotto la sua presidenza, era stata posta fine; riferiva, infatti, che era stata eccepita “la mancanza di chiarezza delle norme che si volevano abrogare” ed era stato “imposto che fossero riportate per intero sulla scheda elettorale”.
Il caso, che pure esula dall’oggetto della sessione, non attenendo ai rapporti tra processo penale e media, è comunque degno di approfondimento per i profili in diritto, che possono riguardare anche magistrati che si occupano di processi penali (la fattispecie sembra peraltro simile ad un noto caso, esploso l’estate scorsa sulle testate nazionali). Il giudice disciplinare ha nel caso di specie configurato l’illecito disciplinare, per aver costituito ed utilizzato canali informativi personali riservati o privilegiati, nella condotta del magistrato che, dopo aver trattato un determinato affare, rappresenti ad un giornalista, che gliene faccia richiesta, le dinamiche interne all’ufficio di appartenenza in ordine a presunte prassi circa la soluzione delle questioni poste da vicende della medesima tipologia di quella appena affrontata, anche se il secondo non informi il primo della successiva pubblicazione delle sue dichiarazioni, quando le stesse abbiano un rilievo di interesse pubblico, sia perché, sotto il profilo oggettivo, l’utilizzazione di canali informativi personali è ipotesi autonoma da quella consistente nel sollecitare pubblicità di notizie in ordine alla propria attività di ufficio, sia perché, sotto il profilo soggettivo, non può non tenersi conto del dovere professionale e deontologico del giornalista di pubblicare tutte le notizie che assumono interesse pubblico e della possibilità del magistrato di apprezzare la sussistenza di tale interesse in considerazione del tenore delle dichiarazioni rese e del contesto nel quale le stesse siano state sollecitate.37
La sentenza del giudice disciplinare è stata tuttavia cassata dal giudice di legittimità proprio in relazione al motivo di ricorso riguardante l’illecito in esame. La Corte Suprema ha sul punto affermato che non è conforme al diritto il decisum del giudice disciplinare nella parte in cui viene imputata all’incolpato una condotta - l'asserita utilizzazione di un canale informativo personale - storicamente (quanto incontestatamente) difforme rispetto a quella concretamente accertata. Invero, era stato accertato che le dichiarazioni del magistrato erano state sollecitate dal giornalista e, dunque, non era stato il magistrato ad utilizzare un canale informativo riservato o privilegiato. Tale, irredimibile distonia tra fatto storico e sussunzione dello stesso nella dimensione del giuridicamente rilevante a fini disciplinari - secondo le Sezioni unite - incide tanto sul principio della corrispondenza tra il contenuto del capo di incolpazione ed il provvedimento sanzionatorio adottato a conclusione del procedimento, quanto su quello della omogeneità di una condotta, contestata in termini di dolo, rispetto all'effettivo accertamento della concreta predicabilità di tale, specifico elemento soggettivo, non sovrapponibile né surrogabile con una dimensione soltanto colposa della medesima.
La Corte ha quindi ritenuto che “in tema di responsabilità disciplinare del magistrato, le dichiarazioni volte a rappresentare la Corte costituzionale come condizionata e contigua - quantomeno in alcuni suoi esponenti - a un diverso potere dello Stato integrano l'illecito previsto dall'art. 4, primo comma, lett. d) d.lgs. n. 109 del 2006, in quanto assumono valenza offensiva e fuoriescono dai limiti del legittimo diritto di critica”.38
In un’altra occasione, il giudice disciplinare si è ancora occupato dell’illecito di cui alla lett. aa), questa volta contestato in concorso con l’illecito di cui alla lett. u), in quanto il magistrato incolpato era stato tratto a giudizio, tra l’altro, per aver interloquito con un giornalista e propiziato la pubblicazione su un noto settimanale di un articolo dal titolo “Giudici contro Giudici”, che riportava il contenuto di alcune notizie e documenti d'ufficio (in particolare, di tre missive indirizzate dal magistrato al Procuratore generale presso la Corte d’appello in ordine alla “gestione” del procedimento denominato Why not).
In tal modo, il magistrato - secondo il capo di incolpazione - avrebbe divulgato atti, coperti da segreto, del predetto procedimento in corso di trattazione, violando il dovere di riservatezza in modo tale da ledere indebitamente, a causa della negativa contrapposizione evidenziatane, l’immagine degli altri magistrati coassegnatari dello stesso procedimento. Nel contempo, lo stesso magistrato avrebbe sollecitato la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività d’ufficio, mediante la costituzione di un canale informativo privilegiato, all’uopo utilizzato.
Nel caso di specie, però, il giudice disciplinare non ha configurato alcuno dei vari illeciti attinenti la violazione del dovere di riserbo, non ritenendo provati, né la divulgazione degli atti coperti da segreto, né la sollecitazione della pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio, né infine la costituzione ed utilizzazione di un canale informativo privilegiato. In particolare, la sentenza ha affermato che la prova di alcuni contatti tra il magistrato ed il giornalista, da sola, ed in mancanza di alcun altro riscontro, non è sufficientemente apprezzabile al fine di dimostrare la sussistenza della contestata violazione dei suddetti doveri di riservatezza. Più specificamente, in relazione a questo illecito, la sentenza ha ritenuto che non vi fossero elementi dai quali desumere che il magistrato avesse utilizzato un proprio canale informativo per rendere pubblica la propria attività d'ufficio. Tale prova, infatti, non può desumersi dalla sola pubblicazione dell’articolo sul settimanale.39
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L’illecita divulgazione di atti e le violazioni dei doveri di riservatezza.
Ai sensi dell’art. 2, secondo comma, lett. u) costituisce illecito disciplinare “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”.
L’illecito consta di diverse fattispecie,40 pure ricollegabili alla violazione del dovere di riserbo, considerata particolarmente grave in queste ipotesi in cui viene realizzata attraverso i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, giornali in genere, reti televisive, siti internet).
Le fattispecie disciplinari previste dalla lett. u) si distinguono essenzialmente da quelle esaminate in relazione alle lett. v) ed aa) in quanto in esse la violazione del dovere di riserbo non si concreta in dichiarazioni pubbliche o interviste, ma attraverso la divulgazione di atti o di notizie di procedimenti, che debbono rimanere segrete o che, comunque, non possano essere rese pubbliche.
In altri termini, mentre nelle fattispecie precedentemente esaminate il magistrato si rivela personalmente all’opinione pubblica (tramite la stampa, la televisione o anche in occasione di pubblici incontri) esprimendo verbalmente un proprio pensiero in violazione del dovere di riserbo, nelle fattispecie previste dalla lett. u), che si concretano nelle cosiddette “fughe di notizie”, il magistrato può anche non rivelarsi in prima persona, ponendo comunque direttamente, o per interposta persona, a disposizione dei mass-media, atti o notizie di procedimenti che devono rimanere, quanto meno, riservati. La fattispecie può assumere esclusiva rilevanza disciplinare in quanto, come avviene anche per le pubbliche dichiarazioni o interviste, la cosiddetta fuga di notizie non sia la conseguenza di un reato (es. rivelazione del segreto d’ufficio ex art. 326 c.p.)41 perché, in tal caso, verrebbero a concorrere le diverse fattispecie disciplinari di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 109 del 2006.
In particolare, la disposizione di cui alla lett. u) prevede quali illeciti disciplinari: a) la divulgazione di atti del procedimento coperti da segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, che può essere determinata intenzionalmente o può dipendere anche da mera negligenza; b) la violazione del dovere di riservatezza quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui, che può riguardare affari in corso di trattazione o anche affari definiti.
La prima fattispecie, che si concreta dunque nella divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, si realizza non tanto in una generica violazione del dovere di riservatezza del magistrato, quanto in una violazione di quello specifico dovere di riservatezza che nasce dall’obbligo di non rivelazione dei segreti di ufficio o di notizie riservate.
Condotte di tal genere si sono rivelate in molteplici occasioni anche nel sistema disciplinare abrogato, come, ad esempio, frequente si è rilevata la condotta del magistrato estensore di una sentenza, che riveli ai giornalisti il contenuto, parziale o integrale, di essa, prima degli adempimenti di cancelleria funzionali alla pubblicazione.42
L’attività di divulgazione consiste, appunto, nel rendere noto un atto giudiziario riservato ad una pluralità di persone, o anche ad un numero limitato che possa a sua volta operare nello stesso senso.
Il comportamento del magistrato può essere intenzionale e, in tal caso, può essere determinato dalle più varie ragioni, che possono consistere, ad esempio, in desiderio di protagonismo, o comunque di farsi pubblicità, o anche per finalità lato sensu politiche, o ancora perché ritenga che la pubblicità delle indagini sia utile allo scopo. Ma, così facendo, il magistrato trasforma un procedimento penale che, per sua natura, deve rimanere quanto meno riservato, anche a tutela degli interessi e delle persone coinvolte, in una inchiesta giornalistica, se non addirittura in uno scoop mediatico, lesivo di per sé dell’immagine della magistratura e potenzialmente fomentatore di “polveroni” giudiziari, controproducenti in riferimento alle ineludibili esigenze di accertamento della verità storica dei fatti.
Il comportamento del magistrato può tuttavia essere anche, e soltanto, connotato da negligenza, come ad esempio avviene quando egli comunichi gli atti del procedimento, segreti o riservati, ad una o poche persone, senza l’intenzione di divulgarli e, ciononostante, per dolo o per colpa dei destinatari delle comunicazioni riservate, gli atti del procedimento diventino ugualmente pubblici.
La fattispecie, sia nel caso di condotta intenzionale che nel caso di condotta negligente, si configura con la mera divulgazione degli atti giudiziari in violazione dello specifico dovere di riserbo, senza possibilità, per il magistrato, di far valere ragioni giustificatrici, come, ad esempio, la circostanza che la notizia fosse già stata resa nota o che le illazioni e supposizioni intorno alla stessa rendessero opportuna una rettifica che riportasse l’informazione su binari di verità, o altro ancora. In effetti, questa fattispecie, a differenza di quella successivamente prevista dalla stessa lett. u), non fa riferimento alcuno al carattere “indebito” della condotta. Il legislatore ha ritenuto sempre ingiustificabile la divulgazione, dolosa o colposa, di atti giudiziari segreti o riservati, mentre, come si vedrà, nel caso di divulgazione, non di atti, ma di notizie attinenti affari giudiziari, anche non riservati, dev’essere accertato in concreto il carattere indebito di essa.
Si è posto in dottrina43 il dubbio che l’illecito possa anche dipendere dalla rivelazione, in atti giudiziari non coperti da segreto o da divieto di pubblicazione (specificamente, nella motivazione degli stessi), di atti segreti o riservati e, cioè, da un’illegittima discovery anticipata. La soluzione positiva offerta è quella di includere questa ipotesi tra quelle considerate dalla disposizione in esame soltanto quando la notizia sia stata riportata nella motivazione del provvedimento senza alcuna effettiva necessità ai fini della giustificazione del provvedimento. Tuttavia, sembra preferibile la soluzione di ricondurre, anche in base ad un’interpretazione logico sistematica del sistema vigente, questo genere di condotte agli illeciti posti in essere in violazione del dovere di correttezza (lett. d) o a) dell’art. 2).
La giurisprudenza disciplinare si è attestata in questo senso nel noto caso concernente la c.d. “guerra tra Procure”.44 In particolare, alcuni pubblici ministeri erano stati incolpati dell’illecito di cui alla lett. u), per aver riprodotto integralmente atti (le cui modalità di acquisizione non erano risultate indicate con chiarezza nel contesto dei decreti di perquisizione e sequestro sottoposti all’esame del giudice disciplinare) dei procedimenti penali denominati Poseidone e Why not, nonché di altri procedimenti, ancora coperti da segreto o, comunque, da divieto di pubblicazione, non essendo concluse le correlative indagini preliminari. Il giudice disciplinare ha osservato che, di per sé, anche il provvedimento di perquisizione e sequestro era coperto da segreto e che, quindi, i dati e le informazioni processuali coperte dal segreto o, comunque, dal divieto di pubblicazione, non potessero ritenersi divulgati, direttamente, dai magistrati incolpati. Il giudice disciplinare ha ritenuto che non è possibile affermare che la divulgazione degli atti obiettivamente verificatisi, anche attraverso Internet, sia dipesa da una grave negligenza dei pubblici ministeri incolpati, pur se - tenuto conto del forte interesse mediatico della vicenda - questo poteva ritenersi prevedibile. Conseguentemente, ha convenuto con la difesa degli incolpati, secondo cui una discovery anticipata non implica automaticamente anche la divulgazione degli atti “disvelati”, resi cioè conoscibili soltanto agli indagati ed ai loro difensori.45
Sempre in quella sede si è detto che solo il segreto di Stato non è recessivo dinanzi al primario interesse della giurisdizione e che il problema deontologicamente rilevante non è connesso alla divulgazione di atti coperti da segreto o, comunque, da divieto di pubblicazione, ma è legato principalmente all’impertinenza ed all’assoluta irrilevanza, nel contesto delle perquisizioni e dei sequestri che i pubblici ministeri incolpati hanno ritenuto di disporre, di una serie sterminata di dati sensibili, atti, documenti, dichiarazioni, notizie riservate, comportamenti di magistrati e di altre persone non indagate, del tutto estranei alle finalità del provvedimento giurisdizionale ed in questo inseriti in maniera scorretta e con grave ed inescusabile negligenza.46
L’orientamento ha poi trovato riscontro anche nella giurisprudenza di legittimità, ove si è ribadito che “non integra l'illecito disciplinare previsto dall'art. 2, comma 1, lett. u), d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109 (divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto) la riproduzione in provvedimenti giudiziari di atti di indagine coperti da segreto compiuti in un altro procedimento penale, mancando, in tale ipotesi, la diffusione delle relative notizie in un ambito esterno alla cerchia dei soggetti autorizzati o tenuti alla conoscenza, per dovere d'ufficio, dei predetti provvedimenti”.47
La seconda fattispecie si configura nella violazione del dovere di riservatezza consistente, come si è detto, nella divulgazione non di atti giudiziari, ma di notizie relative ad atti giudiziari o, più genericamente, ad “affari”, che possono essere ancora in corso di trattazione, oppure già definiti.
Tale figura di illecito richiede però, a differenza di quanto previsto nella prima fattispecie prevista dalla lett. u), che la violazione sia in concreto “idonea a ledere indebitamente diritti altrui”.
Per il profilo della condotta materiale, possono ripetersi in parte le considerazioni già svolte in relazione all’illecito di cui alla lett. v). Si tratta, anche in questo caso, di un illecito di pericolo.48 La circostanza che la condotta descritta nella fattispecie dev’essere “idonea” e non “diretta” a ledere indebitamente diritti altrui non sposta in realtà i termini della questione. Si tratta di termini equivalenti, ai quali non sembra che il legislatore abbia voluto attribuire significato diverso. Entrambi implicano che il bene che si intende tutelare (“i diritti altrui”) non debba essere necessariamente leso, ma possa anche e soltanto essere messo a rischio di lesione. Deve trattarsi, anche in questo caso, non necessariamente di diritti delle parti processuali, ma anche dei diritti dei difensori, degli ausiliari del magistrato, di testimoni o di terzi eventualmente indirettamente coinvolti.
Anche in questa fattispecie, il pericolo della lesione deve derivare da un comportamento “indebito”, non giustificato in alcun modo. Ne consegue che potrebbe essere esclusa la configurabilità dell’illecito quando il magistrato si sia trovato nello stato di necessità di divulgare notizie a tutela del procedimento trattato, o a garanzia del buon esito dell’inchiesta, o per legittima difesa avverso aggressioni verbali o tentativi di intimidazione, o delegittimazione, o altro. Manca poi la possibilità di incolpazione per i casi in cui la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione (o definiti) possa pregiudicare altre indagini in corso.
Anche in questa disposizione il legislatore ha fatto proprio un orientamento della precedente giurisprudenza disciplinare che considerava rilevante non il pericolo astratto ma il pericolo concreto di pregiudizio del diritto altrui.49
All’elemento materiale della condotta illecita deve accompagnarsi l’elemento soggettivo. Anche in questo caso non può escludersi che il pericolo della lesione dei diritti altrui possa derivare da un comportamento meramente colposo del magistrato, che potrebbe essere costituito da grave negligenza e, comunque, imprudenza, nel divulgare notizie attinenti ad “affari” in corso di trattazione, o già definiti, idonee a porre in pericolo la lesione dei diritti altrui. In questo caso, il riferimento, nella prima parte della disposizione, sia pure concernente l’altra fattispecie disciplinare prevista dalla lett. u), alla mera “negligenza”, sembra consentire senz’altro il collegamento del termine “idonea” alla condotta materiale della divulgazione di notizie e non alla intenzione specifica di ledere i diritti altrui.
E’ quindi, anche in questo caso, la portata materiale della divulgazione della notizia che - per lo strepitus fori, per la particolare rilevanza mediatica a livello nazionale, o anche solo locale, per la sua oggettiva inopportunità, non accompagnata da cause di giustificazione - deve esporre i diritti altrui al pericolo della lesione. Anche in questo caso la norma mira a porre i diritti dei soggetti coinvolti negli affari trattati al riparo dalle violazioni del dovere di riserbo del magistrato, che in tal modo non garantisce i diritti alla riservatezza di quegli stessi soggetti coinvolti nel procedimento, direttamente o indirettamente.
Quanto alla giurisprudenza disciplinare formatasi in relazione a questo illecito, è stato ritenuto che “configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, sia per divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti da segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, sia per violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui, la condotta del magistrato che autorizzi un laureato in giurisprudenza, iscritto nell’albo dei praticanti avvocati, a prestare, anche gratuitamente, attività di collaborazione e di supporto presso gli uffici di una Procura della Repubblica, pure prendendo visione di atti segretati o riservati, giacché, da un lato, l’attività di divulgazione consiste nel rendere noto un fatto o una notizia, anche ad una sola persona, che a sua volta possa operare nello stesso senso, e, dall’altro, l’acquisizione di dati o notizie processuali, segrete o riservate in quanto contenute in fascicoli del pubblico ministero procedente in sede di indagini preliminari, è senz’altro potenzialmente idonea a ledere i diritti degli indagati, con pericolo non astratto ma concreto di pregiudizio per gli stessi”.50
In altri casi in cui la giurisprudenza disciplinare si è occupata di questo illecito, non si è pervenuti all’accertamento di responsabilità del magistrato incolpato, come nella fattispecie del pubblico ministero di una Procura della Repubblica calabrese che, nell’esercizio delle proprie funzioni giudiziarie, aveva posto scarsa attenzione al profilo della riservatezza nello svolgimento dell’attività investigativa ed aveva omesso qualsiasi cautela idonea a prevenire la diffusione di notizie attinenti a procedimenti in corso, rendendo in tal modo possibile ripetute ed incontrollate fughe di notizie.51
In altra ipotesi, è stato ritenuto che non configuri tale fattispecie la condotta del magistrato che comunichi ad un indagato, tramite un comune amico, l’avvenuta emissione di un provvedimento di revoca della misura di custodia cautelare già depositato ed in concomitanza con la conoscenza di esso da parte dei difensori, poiché in tale caso si tratta di un atto non più coperto da alcun segreto o di cui sia vietata la divulgazione, né è ipotizzabile la lesione di diritti altrui.52
Da ultimo, è risultata non provata la divulgazione, da parte di un giudice fallimentare, di notizie relative ad un procedimento, di cui egli era relatore, in corso di trattazione ed i cui atti erano coperti da segreto.53
Profili penali e disciplinari delle esternazioni extrafunzionali.
Come si è visto, gli illeciti funzionali connessi alla violazione del riserbo possono concorrere, ove essi integrino anche un reato, con gli illeciti previsti dall’art. 4 d.lgs. n. 109/2006 (“illeciti disciplinari conseguenti a reato”), con relativa applicazione dell’art. 5 del medesimo decreto legislativo quanto alla sanzione da irrogare in tali casi.
Vari sono stati anche i contesti extrafunzionali nei quali è stata valutata la rilevanza sia penalistica, che disciplinare delle dichiarazioni di natura critica pronunciate dal magistrato. In tali casi, la natura diffamatoria delle dichiarazioni dipende dal superamento dei limiti di continenza nel diritto di critica, configurabile in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato54 o si traducano in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo55.
Va anzitutto osservato che se per i fatti di cui il magistrato si rende autore, integrandosi il reato di diffamazione, anche a mezzo stampa (art. 595, 596 bis c.p.), oppure di rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.), oppure qualsiasi altro reato, ed interviene “condanna irrevocabile” o “sentenza ai sensi dell'articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale”, trattandosi di “delitto doloso” e stabilendo la legge la “pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria”, si configura l’illecito disciplinare di cui all’art. 4, primo comma, lett. a) del d.lgs. n. 109/2006, indipendentemente dal carattere di particolare gravità della condotta, che invece viene in rilievo nelle ipotesi di delitti colposi (lett. b)) o per i quali è prevista la pena dell’arresto (lett. c)).
Non si rinvengono nella giurisprudenza disciplinare appositi precedenti in materia, a circa otto anni dall’entrata in vigore del nuovo sistema tipizzato. Se il magistrato incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, egli, ai sensi dell’art. 12, quinto comma, del d.lgs. n. 109/2006, subirà la sanzione della rimozione.
Anche tenuto presente il principio di autonomia che caratterizza il processo disciplinare rispetto a quello penale, in tali fattispecie, non sembra che la sanzione disciplinare prevista come obbligatoria per legge, possa essere messa in discussione nel conseguente processo disciplinare, anche se possono essere valutati aspetti peculiari e distinti dalla responsabilità penale (ad esempio, la cessata appartenenza del magistrato all’ordine giudiziario per altra causa, che implica l’estinzione del giudizio).
La casistica è invece sterminata in relazione all’ultima ipotesi prevista dall’art. 4. Si tratteranno, in sintesi, le sole ipotesi in cui la responsabilità disciplinare ex art. 4, primo comma, lett. d) (“qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita”) derivi da fattispecie in cui rilevino interazioni tra processi penali trattati e media.
In questo contesto va sottolineato che la condotta del magistrato, oltre a dover configurare, in astratto, l’ipotesi di un reato, deve essere idonea a ledere l’immagine del magistrato stesso.
Va sottolineato, ancora, che l’archiviazione del procedimento penale, non essendo equiparabile ad una sentenza assolutoria, poiché trattasi di provvedimento revocabile ed insuscettibile di passare in giudicato, in nessun caso preclude la configurabilità dell’illecito, tanto se disposta per estinzione del reato o sua improcedibilità, quanto per infondatezza della notizia di reato, anche per difetto dell’elemento soggettivo.56
In effetti, non si tratta, in questi casi, soltanto di verificare se la condotta del magistrato lo abbia, comunque, reso immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere od abbia compromesso il prestigio dell'ordine giudiziario, come nella vigenza dell’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, ma occorre inquadrare la condotta in una ben precisa fattispecie tipizzata.
Ciò non pone questioni quando, nell’esaminare sotto un diverso profilo il fatto storico cui si riferisce il decreto di archiviazione, la mancata configurabilità dell’illecito disciplinare di cui all’art. 4, primo comma, lett. d) non determini una situazione di contrasto rispetto alla decisione del giudice penale.
Tale contrasto può verificarsi, eventualmente, quando l’archiviazione si fondi sulla ritenuta infondatezza della notizia di reato, in quanto le valutazioni di merito già effettuate in sede penale, certamente rilevanti, sono prive, appunto, di autorità di cosa giudicata e non precludono l’autonoma valutazione del giudice disciplinare.
La giurisprudenza si è mostrata, in genere, rispettosa delle determinazioni assunte in sede di archiviazione, sovente facendole proprie, pur riconoscendo che le stesse non sono suscettibili di efficacia extrapenale.57
Per quanto riguarda la critica di carattere scientifico a sentenze, si è configurato l’illecito in esame nel caso della pubblicazione di un articolo di commento ad una sentenza in cui il tono di dileggio e di arroganza impiegato in una pluralità di espressioni era tale da offendere la reputazione dell’intera magistratura e non solo dei giudici che avevano emesso la sentenza criticata, delineando un quadro di incapacità e di ignoranza, in tema di reati concernenti le armi e le munizioni, del complesso degli appartenenti all’ordine giudiziario.58
Altro versante è stato quello delle dichiarazioni rivolte pubblicamente nei confronti di altri magistrati. In tale ambito, è stata esclusa la natura diffamatoria di dichiarazioni pubblicate dalla stampa con cui, in un contesto di "forte personalizzazione" di una vicenda tra due magistrati, uno di essi aveva affermato che se l’altro non conosceva la differenza tra astensione e incompatibilità “era un suo problema”, in quanto l’affermazione "non appare superare la soglia di una opinione di forte dissenso interpretativo, non certo fino ad integrare una grave scorrettezza, né, tanto meno, un illecito penale"59.
Si è affermata, di contro la responsabilità disciplinare di un magistrato che, usando uno pseudonimo, aveva formulato su un sito internet giudizi dal contenuto altamente diffamatorio nei confronti di diversi colleghi, affermando che essi avrebbero agito nell'ambito di un processo per ragioni politiche, usando reiteratamente espressioni gratuitamente lesive, prove di qualsiasi prova o fondamento e, comunque, diffamatorie, esorbitanti gli ordinari limiti di continenza, ed idonee, quindi, a ledere il prestigio dell'ordine giudiziario.60
Altro versante in cui è stata verificata la natura offensiva delle dichiarazioni del magistrato è quello delle discussioni telematiche in mailing list riservate, ma aperte ai giornalisti che ne facciano richiesta e, quindi, suscettibili di essere riportate dalla stampa. I casi vagliati in sede disciplinare esulano tuttavia dai rapporti tra processi penali in corso e media.
In effetti, le esternazioni dei magistrati si sono spesso collocate in un contesto di forte aggressività, anche verbale, da parte di noti esponenti politici; agli esempi fatti, possono aggiungersi quelle pratiche “mediatiche” che alcuni organi di informazione hanno recentemente svolto attraverso servizi fotografici su momenti della vita privata di magistrati, titolari di procedimenti di interesse pubblico, descritti e presentati in modo sottilmente denigratorio.
Tuttavia, anche ai fini della valutazione dei limiti della continenza nel diritto di critica, l’attività magistratuale non consente deroghe al principio generale secondo cui tale limite “è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Pertanto, il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale”.61
L’illecito in esame, in presenza di dichiarazioni del magistrato di contenuto inutilmente sprezzante ed offensivo, può essere escluso solo se si ritenga il reato di diffamazione, presupposto della responsabilità disciplinare, giustificato dalla esimente della provocazione (art. 599 c.p.).
Non può, invece, ritenersi che una reazione oltre i limiti della continenza e, quindi, tale da far assumere alle esternazioni carattere penale, non sia lesiva dell’immagine del magistrato per essere stata effettuata in un contesto di attacchi denigratori; il rispetto della continenza costituisce, infatti, un risvolto del generale dovere di riservatezza ed il superamento dei relativi limiti, anche per l’impatto mediatico delle dichiarazioni offensive, ne implica la violazione, con conseguente compromissione dell’immagine del magistrato.
Il collegamento tra dovere di riservatezza e rispetto della continenza si registra pure con riguardo alla trasmigrazione delle dichiarazioni dall’ambito privato in cui sono profferite a quello pubblico. Si è, così, affermata la responsabilità disciplinare per fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, nel caso di dichiarazioni a contenuto offensivo rese ad un giornalista nel corso di un colloquio telefonico, anche se il giornalista stesso non informi il magistrato della successiva pubblicazione delle sue dichiarazioni.62
Ovviamente, la responsabilità disciplinare presuppone che le considerazioni critiche espresse nell’ambito di conversazioni di natura privata abbiano contenuto diffamatorio, con la conseguenza che, quando ciò sia escluso, il solo fatto che siano poi divenute di pubblico dominio non rileva sotto il profilo disciplinare, non essendo configurabile l’illecito, in quanto il fatto non è inquadrabile nell’ipotesi della diffamazione.
La rilevanza disciplinare delle esternazioni extrafunzionali dei magistrati.
Anche sul piano delle esternazioni extrafunzionali non conseguenti a reato possono venire in rilievo i rapporti tra processi in corso e media, pur se non con riferimento a specifici atti o notizie inerenti il singolo processo. Esternazioni extrafunzionali di un magistrato, specie se si occupi di indagini o processi di rilevante interesse nazionale possono porre problemi di lesione di immagine della sua imparzialità. Bisogna vedere se questa lesione di immagine si riverberi nella violazione di un illecito tipizzato nel sistema vigente.
Per questo profilo va anzitutto sottolineato che la legge n. 269 del 2006 ha abrogato due previsioni che facevano riferimento alle esternazioni extrafunzionali del magistrato e precisamente:
la lettera bb) dell’art. 2 che prevedeva come illecito funzionale “il rilasciare dichiarazioni ed interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura”;63
la lettera f) dell’art. 3, che prevedeva come illecito extrafunzionale “la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo”.64
E’ stata poi abrogata la norma di chiusura prevista dall’art. 3, lett. l, che prevedeva come illecito extrafunzionale “ogni altro comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza”.
Nonostante tali abrogazioni, il profilo della imparzialità, unitamente al requisito dell’indipendenza, costituendo tratti essenziali della giurisdizione, vengono, comunque, in rilievo quando si tratti di dichiarazioni o di manifestazioni pubbliche del magistrato rese al di fuori degli uffici giudiziari e dei processi65 che siano suscettibili di incrinarne la complessiva immagine di imparzialità.
L’apparenza di imparzialità costituisce il confine entro il quale i diritti del magistrato come cittadino e, in particolare, i diritti di libertà di espressione e di opinione, possono esplicarsi senza pregiudizio alcuno per i valori essenziali della giurisdizione.
Ciò non può significare che si debba pretendere dal magistrato una neutralità totale rispetto ad orientamenti, culturali e politici; l’appartenenza al corpo sociale implica la possibilità di godere di identici diritti individuali e di libertà di chiunque altro; l’astratta pretesa di una figura di magistrato asettico è stata più volte messa in discussione, nel senso che una configurazione meccanicistica della funzione giudiziaria non rispetta neppure nel fondo i caratteri della funzione, nel cui esercizio in realtà il magistrato non è neutrale.
Egli infatti assume su di sé alcuni principi e alcuni valori, che non promanano da sue personali convinzioni, ma che sono doverosi riferimenti dell’agire cui è tenuto e del suo dovere di ius dicere; principi e valori che caratterizzano il quadro costituzionale e le regole fondanti del processo, che comportano prese di posizione conformi a quel quadro di principi e che si traducono in strumenti atti a rendere coerente l’esercizio impersonale della funzione con questo assetto.66
In sintesi, l’imparzialità equivale a neutralità rispetto agli interessi delle parti, ma è al tempo stesso adesione a principi generali che trascendono gli interessi in gioco nel singolo caso.
Tra questi principi costituzionali v’è quello del necessario binomio indipendenza-imparzialità: il magistrato ha il dovere di conformare la propria condotta, dentro o fuori del processo, a questa esigenza, a buon diritto ritenuta dal Consiglio superiore della magistratura un pre-requisito del corretto esercizio della giurisdizione.
Tale binomio vale sia per il giudice che per il pubblico ministero, la cui posizione istituzionale non consente di operare distinzioni; si pensi ai requisiti costituzionali di indipendenza del pubblico ministero nella Carta fondamentale ed ancora alla sottolineatura di questo connotato in numerose sedi internazionali o sovranazionali: dalla Raccomandazione n. 19 del 2000 del Consiglio d’Europa67, alle regole statutarie delle giurisdizioni internazionali68. Questi principi trovano referenti normativi, sia di rango legislativo che di carattere processuale (art. 358 c.p.p.), sia anche di carattere paranormativo, come il “codice etico” dei magistrati italiani, il cui art. 13 afferma che “il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo”.
L’interferenza tra i diritti di libertà e di espressione del pensiero e delle convinzioni politiche, da un lato, ed il possibile pregiudizio per l’apparenza di imparzialità del magistrato, dall’altro, non è questione nuova, essendovi state sul tema innumerevoli pronunce della sezione disciplinare, anche nel sistema abrogato.
La tematica è stata anche oggetto di pronunce della Corte costituzionale che, chiamata a valutare il bilanciamento tra il diritto individuale del magistrato-cittadino ed i limiti che derivano dallo svolgimento di una funzione fondamentale dello Stato, pur riconoscendo al magistrato gli stessi diritti di espressione attribuiti a chiunque dall’art. 21 Cost., ha affermato che l’esercizio di questi diritti, potenzialmente suscettibili di entrare in conflitto con la prescrizione di imparzialità-indipendenza, non può essere privo di limiti. In particolare, “ deve riconoscersi (…) che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino ma deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale. Per quanto concerne la libertà di manifestazione del pensiero non è dubbio che essa rientri tra quelle fondamentali protette dalla nostra Costituzione ma è del pari certo che essa, per la generalità dei cittadini, non è senza limiti, purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e principi costituzionali, espressamente enunciati o desumibili dalla Carta costituzionale (…). I magistrati, per dettato costituzionale (…), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell’adempimento del loro compito. I principi anzidetti sono quindi volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione; assicurano, nel contempo, quella dignità dell'intero ordine giudiziario, che la norma denunziata qualifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa. Nel bilanciamento di tali interessi con il fondamentale diritto alla libera espressione del pensiero, sta (…) il giusto equilibrio, al fine di contemperare esigenze egualmente garantite dall’ordinamento costituzionale”.69
La Corte costituzionale ha ancora ripetuto che il valore della imparzialità e quello dell’indipendenza, posti per dettato costituzionale, “vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”.70
Lo stesso CSM,71 a proposito del rispetto dei criteri di equilibrio, dignità e misura nei rapporti del magistrato con i mezzi di informazione, ne afferma l’appartenenza “allo stile magistratuale, al buon costume giudiziario e forense, all'educazione civile e alla cultura di chi esercita una pubblica funzione in generale e la funzione giudiziaria in particolare”, precisando che “si tratta di tutta una trama di prassi e di stili difficilmente catalogabili e controllabili, che deve rimanere eminentemente affidata all'autoregolamentazione e all'autocontrollo, alla formazione culturale, alla riprovazione all'interno del mondo giudiziario, del mondo forense e, più in generale, della pubblica opinione, piuttosto che alle sanzioni disciplinari”, in quanto “è sempre, del resto, una velleità assurda quella di giuridificare tutte le regole sociali, morali e deontologiche”.
Anche il Presidente della Repubblica, nella qualità Presidente del C.S.M., ha più volte invitato i magistrati a “ispirare le proprie condotte a criteri di misura e di riservatezza, e a non cedere a fuorvianti esposizioni mediatiche che possano mettere in discussione l’imparzialità dei singoli, o dell’ufficio giudiziario cui appartengono o della magistratura in generale”.72
Va poi tenuta presente la prescrizione generale di “riserbo” (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006) che si correla direttamente all’esercizio della funzione istituzionale e che deve necessariamente valere anche al di fuori delle funzioni.
Nonostante la pluralità di fonti che riconoscono l’esistenza di un generale dovere di riserbo del magistrato in funzione della sua immagine di imparzialità, per la sua violazione non è previsto alcun illecito specifico.
Tale carenza comporta un vuoto di tutela in particolare, con riferimento a due situazioni in cui è forte il pericolo di compromissione dell’immagine di imparzialità del magistrato e precisamente:
-
le dichiarazioni che possono classificarsi in senso lato come aventi contenuto “politico”;
-
le esternazioni consistenti nel sostenere pubblicamente le ragioni e la bontà delle iniziative di indagine delle quali lo stesso magistrato dichiarante sia assegnatario.
Nella prima, le critiche puramente politiche, le manifestazioni ideologiche, le dichiarazioni o i commenti sulle iniziative del potere politico-governativo, pur svolte in modo occasionale, possono creare un concreto pericolo di confusione dei ruoli, quello pubblico di magistrato e quello di cittadino, potendo ingenerare nella collettività il convincimento - non importa se erroneo - che l’attività istituzionale del magistrato sia stata condizionata, se non guidata, dalle opinioni personali.
Pericolo tanto maggiore quanto più il magistrato sia conosciuto in ragione delle funzioni delicate che riveste, stante il maggior impatto mediatico derivante dalle sue pubbliche dichiarazioni.
Ora, le esternazioni di contenuto politico, salvo che vengano in rilievo aspetti di natura penalistica, nel qual caso è configurabile l’illecito di cui all’art. 4, possono assumere rilevanza disciplinare, ai sensi della lettera h), parte prima, dell’art. 3 (partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici) solo quando siano reiterate nel tempo e siano caratterizzate da “faziosità” e “partigianeria”. In primo luogo, infatti, non rientra nell’illecito di cui alla lettera h), parte prima, dell’art. 3, l’occasionale partecipazione all’attività di partito, con qualsiasi modalità sia effettuata, incluse, quindi, le occasionali esternazioni di contenuto politico, mancando l’elemento oggettivo dell’organico schieramento con una delle parti politiche in gioco.
Non sono, altresì, configurabili né la fattispecie di cui alla lettera i) dell’art. 3 (“l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l'esercizio di funzioni costituzionalmente previste”), considerata l’inidoneità di mere dichiarazioni verbali a provocare tale effetto di condizionamento, come affermato dalla giurisprudenza disciplinare , né l’illecito di cui alla lettera a) dell’art. 3 (“uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri”), non rappresentando l’affermazione delle proprie idee politiche un vantaggio ingiusto perseguito dal magistrato.
Va, infine, esclusa la configurabilità dell’illecito di cui alla lettera d), seconda parte dell’art. 3 (svolgimento di attività tali da recare pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dall’art. 1).
Da un lato, le esternazioni a contenuto politico di carattere occasionale non sono riconducibili al concetto di attività, che presuppone una pluralità di azioni tra loro coerenti e coordinate. Dall’altro, se tali esternazioni sono reiterate, le stesse o costituiscono legittimo e sobrio esercizio del diritto fondamentale di manifestazione del pensiero, ed allora non sono illecito in alcun caso, ovvero sono caratterizzate da “faziosità” e “partigianeria”, ed allora l’illecito configurabile è quello tipico di cui alla lettera h), parte prima.
Una situazione di vuoto sanzionatorio si verifica pure nel caso di pubbliche dichiarazioni del magistrato titolare di indagini delle quali egli sostenga pubblicamente le ragioni e la bontà.
Si tratta di fattispecie che presenta aspetti di forte problematicità per la possibilità che da tale condotta ne risulti condizionato, anche solo in forza di suggestioni morali o per l’autorevolezza del dichiarante o per l’eco mediatica di tali interventi, il giudizio di chi è chiamato a definire la sorte processuale di quella indagine.
Ciò nonostante, ridottissimi sono gli spazi per la rilevanza disciplinare di tali comportamenti.
Da un lato, la menzione dell’indagine può non attingere alcun carattere di violazione delle regole di segretezza o di riservatezza, né possono venire in rilievo le specifiche ipotesi di cui all’art. 2, primo comma, lettere u) e v), o quelle previste dal d.lgs. n. 109/2006 (o quella di cui alla lett. g), in combinato disposto con l’art. 5, terzo comma, del d.lgs. n. 106/2006).
Non sono, poi configurabili né l’”interferenza” cui fa riferimento la lettera e) dell’art. 2, in quanto l’esternazione attiene alla valorizzazione della propria attività professionale, né il “condizionamento” di funzioni costituzionali, di cui all’art. 3, lettera i), insussistente in caso di mere dichiarazioni verbali, secondo la giurisprudenza formatasi sull’illecito, né, infine, il “vantaggio ingiusto” di cui all’art. 3, lett. a), non costituendo l’affermazione dell’impostazione accusatoria alcun “vantaggio” per una parte imparziale quale il P.M., e tantomeno “ingiusto”, trattandosi di organo di giustizia.
L’unica ipotesi nella quale le esternazioni extrafunzionali a contenuto “autopromozionale” possono avere rilevanza disciplinare è quella in cui sia configurabile l’illecito previsto dalla lettera d), seconda parte dell’art. 3, il che si verifica quando esse non siano occasionali, ma siano reiterate nel tempo nell’ambito di una ben precisa, unitaria, strategia comunicativa e vengano svolte con modalità tali da costituire un concreto pregiudizio per l’assolvimento dei doveri di correttezza e riserbo nell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 1, primo comma.
Quindi, le occasionali esternazioni aventi contenuto “politico” od “autopromozionale” sono apprezzabili soltanto sul piano deontologico, secondo l’art. 6 del “codice etico” nella parte in cui prevede - come detto nella parte introduttiva della relazione - che “ fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione”.
Dunque, nel passaggio da un sistema in cui l'atipicità dell'illecito disciplinare poteva essere integrata da un'attività ermeneutica fondata anche su norme interne alla magistratura, quale il codice etico dei magistrati73, ad uno incentrato sulla tipizzazione degli illeciti, si è avuto un sostanziale arretramento della tutela74 in presenza di condotte, come quelle ora prese in esame, stridenti con l’immagine di imparzialità, riserbo ed equilibrio del magistrato, ma non perseguibili, in quanto non previste quale illecito, mentre nel vigore dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 potevano assumere rilevanza disciplinare se costituenti una violazione del codice etico e ritenute compromissive del prestigio e della credibilità del singolo appartenente all'ordine giudiziario, nonché dello stesso intero corpus magistratuale.
Per concludere, vorrei ricordare le parole che il Capo dello Stato, con commozione, pronunciò alla LUISS di Roma il 20 settembre 2013, in occasione della commemorazione di Loris D’Ambrosio.
Bisogna “spegnere nell'interesse del Paese” il perdurante “conflitto tra politica e giustizia”. “Molto importante - per questo aspetto - è il contributo che ci si deve attendere dalla magistratura”. Per questo i “modelli di comportamento” devono sempre essere “equilibrio, sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità e senso della misura e del limite”.
Mario Fresa
sostituto procuratore generale
della Corte di cassazione
2 Ricordiamo la penosa vicenda risalente al 1989, di Lanfranco Schillaci, accusato di violenza sessuale sulla figlia di due anni, linciato su tutti i quotidiani e poi assolto con formula piena con sentenza passata in giudicato.
3 Con ciò richiamando alcuni suoi precedenti, quali Buscemi c. Italia, n. 29569/95, § 67; CEDU 1999 VI; Kayasu c. Turchia, nn. 64119/00 e 76292/01, § 77, 13 novembre 2008; e Poyraz c. Turchia, n. 15966/06, § 69, 7 dicembre 2010.
4 Il CPPE è l’organo consultivo del Consiglio d’Europa ed è stato costituito nel 2005, il cui Presidente è attualmente un magistrato italiano, il dott. MURA, sostituto procuratore generale della Corte di cassazione. Il CPPE è l’organo parallelo al Consiglio Consultivo dei Giudici (CCJE), con il quale ha redatto la Dichiarazione di Bordeaux, su giudici e magistrati del pubblico ministero in una società democratica, adottata ufficialmente a Brdo (Slovenia) il 18 novembre 2009. Al par. 10 della Dichiarazione di Bordeaux già si sottolineava che “è (…) interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.
5 V. il commento di SALVI, I rapporti tra Procuratori e Media nel parere del CPPE, in Questione Giustizia, 17 gennaio 2014, il quale sottolinea come parere del CCPE sia fondato sulla concezione dell'informazione non come diritto del PM, ma come dovere, corrispondente al diritto della collettività ad essere informata.
FRESA, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al CSM: iniziativa, istruttoria, conclusione, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano 2010, Cap. IV, par. 4.2.
Si segnalano in dottrina, FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208 ss., 315 ss, DI AMATO, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303 ss.; CAVALLINI, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239 ss.; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di TENORE, Milano, 2010, 222 ss.; CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, in Ordinamento giudiziario, leggi, regolamenti e procedimenti, a cura di ALBAMONTE-FILIPPI Torino, 2009, 744 ss.; DE NARDI, La responsabilità di espressione dei magistrati, Napoli, 2008; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 69 ss.; GRISOLIA, A proposito di esternazioni dei magistrati e controllo disciplinare, in Quest. Giust., 2002, 6, 1237 ss.; DE NUNZIO, Libertà di manifestazione del pensiero e deontologia professionale del magistrato, in Doc. Giust., 1998, 1977 ss.; GILARDI, Rapporti ‘maturi’ tra giustizia e mass-media: basta poco per riequilibrare l’informazione, in Guida al dir., 1997, 100 ss.; GIOSTRA, Disinformazione giudiziaria: cause, effetti e falsi rimedi, in Dir. pen. e proc., 1995, 390 ss.
10 Si rimanda per brevità a FIMIANI-FRESA, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, op. cit., 208-212.
11 FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 243.
In questo senso, FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, in Foro It., 2007, V, 72; DE NARDI, La libertà di espressione dei magistrati, Napoli, 2008, 555; FANTACCHIOTTI, op. cit., 243; contra, CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 751.
CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, che ha trovato conferma in Cass., sez. un., 12 maggio 2010 n. 11431, ove peraltro l’assoluzione relativa all’illecito di cui alla lett. v) non era stata oggetto di ricorso da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione.
CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, che ha riguardato dichiarazioni di un pubblico ministero condannato alla sanzione della censura con trasferimento d’ufficio per plurime violazione dei doveri di diligenza e correttezza, connesse ad indagini di rilevanza nazionale. Cass., sez. un., 11 luglio 2008 n. 19279 ha dichiarato inammissibile il ricorso del magistrato per tardività.
15 CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 752; FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73; FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244, parla apertamente di dolo specifico e ritiene da escludersi la rilevanza disciplinare quando la dichiarazione pubblica sia giustificata dallo scopo di difendersi da offese e critiche ricevute o di fornire notizie a tutela della corretta informazione giudiziaria. Nello stesso senso, APOSTOLI, Implicazioni costituzionali della responsabilità disciplinare dei magistrati, Milano, 2009, 159; BELTRANI, Come (ri)cambia l’illecito disciplinare, in Dir. e giust., 2006, n. 41, 90.
16 CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., in fattispecie in cui un pubblico ministero era stato incolpato dell’illecito in esame perché manteneva un disinvolto rapporto con la stampa ed i mezzi di comunicazione del tutto disattento ai profili di opportunità, nonché di riservatezza delle attività d'indagine preliminare, oggettivamente in grado di determinare la divulgazione del contenuto di atti giudiziari sottoposti al segreto d'ufficio, anche quando svincolati dal segreto investigativo, rendendo dichiarazioni senza la delega del Procuratore della Repubblica e suscitando altresì pubblicità sulla propria attività di indagine. In particolare, rilasciava interviste su quotidiani aventi per contenuto fatti oggetto di indagini in corso e (sia pure allusivamente) soggetti nelle medesime coinvolti, spesso utilizzando espressioni improprie ed incontinenti, in termini di inammissibili sfoghi, del tenore “vogliono togliermi le inchieste”, “vogliono fermarmi”, ed altre della medesima portata; inoltre, dichiarava che il procuratore della Repubblica aveva disatteso le sue richieste di essere affiancato nelle indagini più delicate ed anzi era stato oggetto di accuse “per convincere il CSM ad allontanarmi per incompatibilità ambientale”. Rendeva, quindi, in più occasioni, dichiarazioni pubbliche o interviste riguardanti gli affari in corso di trattazione, con le quali faceva apparire che le iniziative giudiziarie o con finalità di accertamenti deontologici, adottate nei suoi confronti, fossero in realtà manifestazioni di un complotto per far cessare la sua attività di indagine anche con il ricorso ad istituti processuali strumentalmente utilizzati per intaccare l'autonomia e il potere diffuso della magistratura.
CSM, sez. disc., 4 luglio 2003 n. 70, in fattispecie in cui è stata sottoposta al vaglio disciplinare una intervista rilasciata da un sostituto Procuratore della Repubblica a un quotidiano contenente critiche all'operato del Procuratore della Repubblica in relazione ad un procedimento trattato dall'ufficio di appartenenza e già a lui stesso assegnato, nonché ai componenti del Consiglio superiore della magistratura in relazione al provvedimento negativo assunto nei suoi confronti. Le dichiarazioni sono state ritenute continenti ed il pubblico ministero è stato assolto (la sentenza non è stata impugnata per cassazione).
CSM, sez. disc., ord. 4 febbraio 2009 n. 11 nella ordinanza nota giornalisticamente come risolutiva del conflitto tra procure della Repubblica.
19 Cass., sez. un., 8 luglio 2009 n. 15976. E’ interessante notare che lo stesso episodio, riesaminato nel merito da CSM, sez. disc., 26 ottobre 2009 n. 143, come si è visto, è stato poi ritenuto non configurare la violazione di cui alla lett. v) in quanto “la pur vivace intervista, non può essere, a parere del Collegio, assunta autonomamente. Essa appare dimostrativa di uno stato d'animo turbato e dunque di una imperfetta lucidità rispetto agli obblighi e agli obiettivi che mai debbono essere dimenticati da un Procuratore della Repubblica. Tuttavia non sembra certo al collegio l'intento, e con esso ovvero la sua obiettiva idoneità, di realizzare una lesione ulteriore a quella già considerata nel complessivo capo a) della rubrica” (il magistrato è stato condannato in via definitiva alla sanzione disciplinare della temporanea incapacità ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo per anni uno con trasferimento d'ufficio ad altra sede e ad altre funzioni per l’illecito di cui alle lett. c), e) ed ff) dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006).
CSM, sez. disc., 9 luglio 2010 n. 148, dalla quale emerge che le dichiarazioni, su un quotidiano di tiratura nazionale, erano state le seguenti: “ripeto, ho pianto per i bambini. I loro corpi sono i morti che mancavano. Io credo che il ritrovamento non crei contrasto con l'impianto accusatorio dell'epoca quando gli elementi acquisiti risultarono sufficienti per sostenere il coinvolgimento del padre e la sua custodia cautelare. La situazione non è cambiata, anche alla luce dei due corpi ritrovati. Quando la difesa riuscirà a scalfire l'impianto dell'accusa e a dimostrare che invece lo è, saranno possibili altre valutazioni. E' omicidio anche se si vede cadere qualcuno o se si sa che è in pericolo di vita e non si fa nulla”. Ed ancora: “Ci sono molte cose che restano inspiegate e che lui dovrebbe spiegare. Resta un punto fermo e cioè che lui quella sera è stato visto nella piazza delle Quattro Fontane con i suoi figli. Deve dire dove ha portato i bambini quella sera, deve spiegare. Invece dice di non aver visto i figli quella sera, non ha risposto a molte domande, ha depistato, non ha offerto alcuna giustificazione. E mi chiedo qual è il padre che non vede tornare i suoi figli e che alle sei e mezzo del mattino se ne va a lavorare? Lui ha dimostrato quantomeno noncuranza, indifferenza e disaffezione... ...Difendo il lavoro della Procura e della squadra mobile in questa inchiesta. E' stato mirabile. Adesso tutti sono bravi a dire questo o quello, con il senno di poi. Ma prima era come cercare un ago in un pagliaio”. La sentenza, che aveva condannato il magistrato alla sanzione dell’ammonimento, è stata annullata, per motivi procedurali, da Cass., sez. un., 5 luglio 2011 n. 14664.
21 CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, su cui però v. oltre, particolarmente in ordine all’illecito di cui alla lett. aa).
22 CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., secondo cui “… quanto alle dichiarazioni rese senza la delega del procuratore, (…) esse non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma”.
Pare opportuno riportare l’intero testo dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006 (“Rapporti con gli organi di informazione”): “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione.
2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.
3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio.
4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3”.
24 FUZIO, Le dichiarazioni dei magistrati agli organi di informazione: limiti e rilevanza disciplinare, op. cit., 73, il quale osserva anche che “l’evidente discrasia sembra collegarsi ad una svista se non ad un mero errore materiale (che ben si giustifica con la fretta e le modalità con le quali la modifica è stata approvata)”.
FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 244.
Il testo originario della lett. v) era il seguente: “pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo, riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”.
28 Peculiare la fattispecie esaminata da CSM, sez. disc., ord. 9 luglio 2012 n. 99, che ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un sostituto procuratore, in relazione all’addebito di aver violato la lett. v) del d.lgs. n. 109 del 2006 ed il terzo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 106 del 2006, in quanto era risultato che aveva partecipato ad una conferenza stampa avente ad oggetto indagini da lui svolte, senza tuttavia rendere alcuna dichiarazione.
29 CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, cit., secondo cui “la Sezione ben conosce la disputa dottrinale secondo la quale ci si trovi innanzi ad un refuso del Legislatore che intendeva sanzionare le dichiarazioni dei singoli sostituti procuratori non autorizzati. Ma già la sezione disciplinare, esaminate questioni analoghe, affermò che esse "non rilevano disciplinarmente poiché la norma sanziona la violazione del comma 2 dell'art.5 il quale tuttavia non riguarda il divieto, per i magistrati delle procure, di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l'attività giudiziaria dell'ufficio, previsto invece dal successivo terzo comma".
30 FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 240.
31 Sul punto, v. BERRUTI, L’informazione sui fatti giudiziari, un difficile problema di democrazia, in Doc. giust., 1989, n. 12, 85 ss., ove tra l’altro afferma: “il caso del giudice che intrattiene un rapporto personale con uno specifico canale di informazione, allo scopo di fornire a questo notizia di cui viene a conoscenza per ragioni del suo ufficio, non solo può sortire conseguenze personali (penali/disciplinari) per il singolo magistrato che si lasci suggestionare dalla consapevolezza di potere acquistare un qualche potere attraverso la divulgazione di notizie riservate ed esclusive, ma produce di sicuro dannose conseguenze di sistema: in effetti, al di la della retorica dell’appello alla libera informazione, la delegittimazione della istituzione giustizia presso la pubblica opinione è inevitabile . Almeno nella misura in cui si sposta all’esterno del meccanismo giurisdizionale la sede naturale della verifica delle attività giudiziarie e si esprimono, in favore del singolo addetto, le prerogative ed i poteri che debbono rimanere della istituzione. Inoltre, l’assoluta incontrollabilità del percorso e dell’approdo finale di iniziative siffatte fornisce a chiunque vi abbia interesse la possibilità di strumentalizzazioni di ogni genere. Con inevitabile aumento della confusione e della banalizzazione dei problemi da parte del pubblico e, dunque, della perdita di ogni possibilità di valutare con pienezza di conoscenza. Infine, ed è questo il dato che preoccupa maggiormente in prospettiva, siffatto tipo di provvedimenti rivela una potenzialità profondamente inquinante di tutta la cultura democratica della giurisdizione. Lo spostamento della sede naturale dei processi verso il complesso magma che crea le grandi opinioni popolari, genera sempre la semplificazione più facile, che fa prevalere presso il pubblico la figura del singolo magistrato sulla funzione dell’istituto. Si badi, è dimostrabile storicamente che ogni focalizzazione della pubblica opinione, per effetto della attività scorretta di un giudice, su di una particolare vicenda, fa sì che la oggettività della giurisdizione ed il suo essere essenzialmente attività dello Stato scompaiono, sostituiti dalla immagine pettegola e miope di incomprensibili contrasti che toglie ogni stimolo ad un serio approfondimento delle questioni. Con la conseguenza, perfettamente prevedibile e manipolabile, dell’emergere di una esigenza collettiva di interventi, quali che siano, che possano esorcizzare, al momento, sfiducia e timore. Cosicché il sistema giudiziario, per effetto di spinte alle quali non è in alcun modo in grado di resistere, finisca talvolta con il subire interventi anche ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura quanto meno troppo caratterizzati dal contingente”.
32 Così viene definita da CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 752, mutuando categorie penalistiche.
Il testo è il seguente: “Quando per il concorso di più illeciti disciplinari si debbono irrogare più sanzioni di diversa gravità, si applica la sanzione prevista per l'infrazione più grave; quando più illeciti disciplinari, commessi in concorso tra loro, sono puniti con la medesima sanzione, si applica la sanzione immediatamente più grave. Nell'uno e nell'altro caso può essere applicata anche la sanzione meno grave se compatibile”.
CSM, sez. disc., 10 maggio 2013 n. 65, cit., che ha condannato alla sanzione della censura un pubblico ministero minorile per aver sollecitato personalmente la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio da parte di giornalisti televisivi e della stampa che si trovavano occasionalmente, e per altre ragioni, dinanzi al suo ufficio giudiziario, per rilasciare agli stessi un “comunicato” ed alcune dichiarazioni, dopo essersi proposta con queste affermazioni: “Ma tutte queste telecamere sono qui per cosa? ... se volete avrei io da dirvi qualcosa. Mi chiamo (…), sono sostituto procuratore dei minori e quello che ha dichiarato in aula (…) non mi va giù”.
35 CSM, sez. disc., ord. 16 gennaio 2014 n. 14, con riguardo alla nota denuncia di violenza sessuale ad opera della D'Addario, vicenda di forte impatto mediatico, divulgata dagli stessi interessati. Secondo il giudice disciplinare, nella specie, non si è trattato “di un'iniziativa personale (…) dettata da voglia di protagonismo, né tanto meno dell'utilizzo di un canale privilegiato con la stampa”.
36 Nel sistema abrogato è interessante il principio sancito da CSM, sez. disc., 14 aprile 2000 n. 50, applicabile anche alla fattispecie tipizzata, secondo cui “il magistrato può liberamente intervenire su questioni giuridiche generali nonché su casi o provvedimenti giudiziari specifici esercitando il diritto di libera manifestazione del pensiero e di critica e fornendo un contributo di conoscenza, approfondimento, riflessione e valutazione. A questa attività di critica, autonoma e spontanea - pienamente garantita dalle norme che a tutti i cittadini riconoscono libertà di manifestazione del pensiero - si può legittimamente affiancare una ulteriore attività del giurista consistente nel rispondere a sollecitazioni esterne ed a quesiti e nell'enunciare il proprio punto di vista o il proprio parere, in qualità di esperto, sia su temi generali sia su questioni particolari. In tal caso, tuttavia, occorrerà che il magistrato riveli particolare cura che l'opinione espressa o il parere giuridico conservino le caratteristiche di un intervento autonomo ed autorevole, effettuato in condizioni e forme tali da rendere impossibile la sua assimilazione ad una ‘consulenza’. La doverosa cautela del magistrato deve, da un lato, esprimersi nel non costituire rapporti costanti e privilegiati con i soggetti destinatari di opinioni o risposte, e, dall'altro, deve mirare ad evitare che il proprio apporto di riflessione e di chiarimento tecnico assuma caratteristiche diverse da quelle del consiglio spassionato e dell'opinione ispirata al rispetto della verità”.
Cass., sez. un., 24 novembre 2009 n. 24666. Cfr. analogo caso che si è ripetuto in periodo più recente, ove però il pubblico ministero che aveva svolto dichiarazioni denigratorie nei confronti della Corte costituzionale in relazione alla decisione che aveva accolto il noto ricorso per conflitto di attribuzioni proposto dal Presidente della Repubblica, si è lasciato decadere dall’ordine giudiziario e conseguentemente CSM, sez. disc., ord. 18 dicembre 2013 n. 1/2014, ha dichiarato il non luogo a procedere per cessata appartenenza all’ordine giudiziario.
39 CSM, sez. disc., 11 novembre 2011 n. 51/12, che ha invece condannato il medesimo magistrato alla sanzione della censura in merito ad altro illecito posto in essere in violazione del dovere di correttezza.
40 FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 241, ne indica due; CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 749, ne indica quattro, con una più specifica distinzione interna alle due fattispecie principali (intenzionalità o negligenza con riferimento alla prima, affare in corso di trattazione o definito con riferimento alla seconda).
Su cui v. MARUOTTI, Violazione del segreto d’ufficio, in Treccani.it, L’Enciclopedia italiana, 2013.
Cfr. CSM, sez. disc., 18 maggio 2005 n. 21 riguardante il noto caso dell’estensore della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Perugia, in data 17 novembre 2002, aveva condannato il senatore Andreotti alla pena di 24 anni di reclusione per l'omicidio del giornalista Pecorelli, aveva rivelato al giornalista di un quotidiano il contenuto della motivazione della sentenza prima che essa fosse formalmente depositata, mettendolo a parte di interi brani, che venivano dal giornalista riportati, in forma "virgolettata", nel testo di un lungo articolo pubblicato, in via esclusiva, sul quotidiano stesso.
FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 242.
La questione pose seri problemi di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e giustizia, come testimoniato dall’intervento del Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano, alla cerimonia per lo scambio degli auguri con le Alte Magistrature della Repubblica, il 17 dicembre 2008, in cui fece riferimento ad un vero e proprio “corto circuito istituzionale e giudiziario”, dinanzi al quale “sono in giuoco, al di là dei singoli casi, essenziali norme di condotta, di cui garantire il rispetto”.
45 CSM, sez. disc., ord. 4 febbraio 2009 n. 11, che richiama CSM, sez. disc., 27 luglio 2008 n. 71, concernente l’altro noto caso di un giudice per le indagini preliminari assolto dall’incolpazione di aver determinato un danno ingiusto ad alcuni politici citati a sproposito in un provvedimento giudiziario.
Proprio per questo, i magistrati sono stati poi ritenuti responsabili di illeciti disciplinari correlati alla violazione del dovere di correttezza e diligenza.
Cass., sez. un., 24 settembre 2010 n. 20159 riguardante la medesima fattispecie oggetto del menzionato intervento disciplinare cautelare, a conferma di CSM, sez. disc., 19 ottobre 2009 n. 156. Più recentemente, in senso conforme, CSM, sez. disc., 15 marzo 2013 n. 56, secondo cui non integra l’illecito in esame la divulgazione e la utilizzazione a fini processuali di atti coperti da segreto investigativo in altro procedimento.
Contra, FANTACCHIOTTI, Profili sostanziali: le infrazioni disciplinari e le relative sanzioni, op. cit., 242.
Cfr. Cass., sez. un., 9 luglio 1998 n. 11732 che, in un noto caso di una rivelazione di notizie provenienti da un procuratore della Repubblica, ebbe ad affermare che “in via di astratta e pur remota ipotesi la rivelazione di qualsiasi notizia è idonea ad influire negativamente su un procedimento penale, anche quella apparentemente più banale ed insignificante, con la conseguenza che, se all'integrazione dell'illecito in questione bastasse il primo dei due elementi ora detti (il pericolo astratto), il solo fatto della rivelazione conterrebbe, in via di presunzione assoluta, il pericolo per le indagini. Se invece si ritiene, con la Sezione disciplinare, che al comportamento rivelativo debba aggiungersi un ulteriore elemento della fattispecie, ossia il pericolo per il corretto svolgimento delle indagini, allora l'inflizione della sanzione dev'essere giustificata con un minimo di riferimenti al caso concreto, non essendo sufficiente, ed anzi risultando contraddittoria, l'affermazione di astratta idoneità del comportamento. Non occorre che il danno si sia realizzato ma è pur sempre necessario che il pericolo appaia effettivo e concreto”.
50 CSM, sez. disc., 18 settembre 2009 n. 117, la quale ha pure osservato, da un lato, che l’attività di divulgazione è consistita nel rendere noto un fatto o una notizia, anche ad una sola persona, che a sua volta potesse operare nello stesso senso e, dall’altro, che l’acquisizione di dati o notizie processuali, segrete o riservate in quanto contenute in fascicoli del pubblico ministero procedente in sede di indagini preliminari, è senz’altro potenzialmente idonea a ledere i diritti degli indagati, con pericolo non astratto ma concreto di pregiudizio per gli stessi. Va osservato che la sentenza è stata annullata da Cass., sez. un., 27 aprile 2010 n. 9960 per un motivo di ricorso attinente la mancanza di recidiva del magistrato incolpato, ma, nel merito, il giudice di legittimità ha pienamente confermato il principio di diritto enunciato dal giudice disciplinare.
51 CSM, sez. disc., 18 gennaio 2008 n. 3, cit., che ha assolto il magistrato dall’incolpazione di cui alla lett. u) in quanto l’addebito faceva riferimento ad un profilo di negligenza senza tuttavia in alcun modo indicare in cosa essa sarebbe concretamente consistita, rendendo per ciò stesso indeterminata la contestazione.
52 CSM, sez. disc., ord. 26 gennaio 2010 n. 15, in fattispecie di divulgazione non di atti giudiziari, ma di notizie relative al procedimento, sicché pare assorbente la considerazione del mancato pericolo di lesione dei diritti altrui, mentre sembra ininfluente la circostanza che l’atto non fosse più coperto da segreto o non divulgabile, trattandosi di “affare”, sia pur definito.
54 Cass. pen., Sez. V, 13 aprile 2011, n. 15060, secondo cui “in tema di diffamazione, il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Pertanto, il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha escluso la scriminante del diritto di critica nei confronti degli imputati che avevano affisso nelle bacheche aziendali e diffuso con volantini un comunicato in cui contestando la posizione dissenziente di un iscritto alla C.G.I.L. lo si definiva 'notoriamente imbecille”.
Cass. pen., Sez. V, 27 gennaio 2011, n. 3047, secondo cui “in tema di diffamazione a mezzo stampa, la sussistenza dell'esimente del diritto di critica presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto di critica, a condizione che l'offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia 'contenutà (requisito della 'continenzà) nell'ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto, fermo restando che, entro tali limiti, la critica, siccome espressione di valutazioni puramente soggettive dell'agente, può anche essere pretestuosa ed ingiustificata, oltre che caratterizzata da forte asprezza. (Fattispecie in cui un consigliere regionale aveva affermato in intervista rilasciata a un quotidiano - con riferimento alla scarcerazione di numerosi stranieri arrestati per violazione della legge sugli stupefacenti - "non è la prima volta che a Bergamo si butta all'aria per cavilli burocratici un lavoro di mesi delle forze dell'ordine" e " a questo punto certi magistrati, anziché pensare a 'resistere, resistere, resistere dovrebbero pensare a lavorare, lavorare, lavorare", aggiungendo l'invito a riflettere "tra uno sciopero e l'altro sullo stato d'animo dei cittadini residenti nella zona interessata allo spaccio di stupefacenti)”.
57 Ex multis, CSM, sez. disc., ord. 29 novembre 2011 n. 167; 28 settembre 2009 n. 20/2010; 30 maggio 2008 n. 59.
58 CSM, sez. disc., 6 giugno 2008 n. 60, che ha condannato con la sanzione della censura il magistrato autore delle critiche.
CSM, sez. disc., ord. 13 marzo 2009 n. 35 che, in accoglimento della richiesta del Procuratore generale, ha dichiarato il non luogo a procedere perché il fatto non costituisce illecito disciplinare.
60 CSM, sez. disc., 19 gennaio 2007 n. 1. Nella fattispecie, verificatasi nella vigenza dell’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, la Sezione disciplinare, rilevato che i fatti erano sussumibili nell’ipotesi di cui all'art. 4, lett. d, ha ritenuto gli stessi di particolare gravità, evidenziando come l'incolpato, nell'accusare i colleghi di svolgere la propria attività con finalità politiche, abbia egli stesso svolto attività definibile come "politica", candidandosi, peraltro, successivamente alle elezioni amministrative, senza successo.
CSM, sez. disc., n. 39/2009, cit., relativa al caso delle dichiarazioni volte a rappresentare la Corte costituzionale come condizionata e contigua - quantomeno in alcuni suoi esponenti - a un diverso potere dello Stato.
63 Per considerazioni critiche su tale abrogazione, cfr. DE NARDI, Libertà di espressione dei magistrati, op. cit., 385, secondo cui la fattispecie meritava, semmai, di “essere riprodotta nell’ambito degli illeciti extrafunzionali, potendo rappresentare un valido criterio di valutazione della generalità delle esternazioni poste in essere al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie” e DI PAOLA, P.M. e giudici, così cambiano gli illeciti, in Diritto e Giustizia, 2006, 42, 110, il quale evidenzia come il legislatore non abbia adeguatamente tenuto conto della rilevanza del fenomeno delle esternazioni dei magistrati e della insufficienza della previsione di rilevanza disciplinare nella sola ipotesi in cui il fatto costituisca reato e sia, quindi, configurabile l’illecito di cui all’art. 4, atteso che “nella gran parte delle fattispecie, la ricorrenza del profilo diffamatorio della dichiarazione resa alla stampa non è configurabile”.
CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 758, pur riconoscendo che “l’abrogazione della lettera f) dell’art. 3, ha creato lacune di tutela disciplinare, rispetto a comportamenti idonei a pregiudicare la fiducia dei cittadini nella magistratura”, ritiene che la stessa “non suscita rimpianti: si trattava di un illecito di pericolo in cui l’evento rispetto al quale la condotta doveva assumere connotati di idoneità causale - il condizionamento della libertà di decisione del titolare del procedimento – era evidentemente sovradimensionato, assumendo connotazioni di rilievo penalistico. Di converso, gli elementi costitutivi della condotta tipica, ossia a) il carattere pubblico della manifestazione di consenso o dissenso, b) la natura extrafunzionale dell’illecito e c) il generico riferimento alla posizione del magistrato autore della condotta ovvero le modalità di espressione da parte sua del giudizio sulle vicende relative al procedimento, delineavano una fattispecie suscettibile di ingenerare indebite compressioni della sfera soggettiva del magistrato, per giunta su un terreno, quello della riflessione critica sulla giurisprudenza e la gestione dei processi, nel quale la libertà di manifestazione del pensiero del magistrato e la sua partecipazione alla discussione pubblica appaiono irrinunciabili”. Contra DE NARDI, Libertà di espressione dei magistrati, op. cit., 386, per il quale l’abrogazione comporta “il rischio che non possano essere più sanzionate condotte che invece lo erano durante la vigenza dell’art. 18 r.d.lgs. n. 511/1946”.
Anzi, si potrebbe dire che viene ancora più in rilievo, perché non concerne un singolo procedimento, un caso isolato, in cui fare operare istituti ad hoc come l’astensione o la ricusazione, ma involge la figura complessiva del magistrato.
Si pensi al dovere di optare per l’interpretazione della legge conforme a Costituzione o, se ciò non è possibile, al dovere di sollevare questione incidentale di costituzionalità di una norma sospetta di non esserlo.
Convenzione di Roma del 17 luglio 1988 sul Tribunale penale internazionale, art. 42: “il pubblico ministero non sollecita né accetta istruzioni da alcuna fonte esterna”; analogamente, art. 16.2 dello statuto del Tribunale penale internazionale de L’Aja, annesso alla risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Corte Cost. n. 224 del 2009, la quale ha tra l’altro anche affermato che “se deve riconoscersi – e non sono possibili dubbi in proposito – che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che quindi possono, com’è ovvio, non solo condividere un’idea politica ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo”, è però proprio dalla Costituzione che deriva “l’esigenza di assicurare la terzietà dei magistrati ed anche l’immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si contendono il campo”.
Parere CSM del 18 dicembre 1997, sul disegno di legge recante: “Responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, delle incompatibilità e degli incarichi estranei ai compiti di ufficio”.
CSM, sez. disc., 23 gennaio 2009 n. 39, confermata da Cass., sez. un., 24 novembre 2009, n. 24666, con riferimento a dichiarazioni concernenti la Corte costituzionale, ha ritenuto insussistente l'addebito “atteso che dette dichiarazioni non avrebbero potuto in alcun modo condizionare l'esercizio di funzioni costituzionali. Anzi, il ritenerne la sussistenza costituirebbe grave ingiuria ai componenti della Corte Costituzionale. Che verrebbero meno ai loro doveri per delle dichiarazioni che, sia pur provenienti da persona autorevole, sono da considerarsi quanto meno irrilevanti”.
Ipotizzato in dottrina, peraltro senza specificazioni, da CAPUTO, Gli illeciti disciplinari, op. cit., 758.
Cfr., nel sistema dell’illecito atipico ex art. 18 r.d.lgs. n. 511/1946, con riferimento alle c.d. esternazioni, Cass., sez. un., 20 novembre 1998 n. 11732 e Cass., sez. un., 17 novembre 2005 n. 23235.