E’ un fatto che in tutti gli uffici giudiziari si conosce benissimo, di ogni magistrato che vi presta servizio, se e quanto e come lavora; se si aggiorna; se è o meno equilibrato; se affronta e tenta di superare con impegno i problemi o se tende a scaricarne o differirne la soluzione; se tratta con rispetto le parti processuali e i cittadini che a vario titolo entrano in contatto con il suo lavoro e se nell’organizzazione del proprio lavoro privilegia le esigenze personali o l’efficienza e l’efficacia dell’attività che svolge; se è capace di gestire l’udienza, assicurandone la massima efficacia possibile riducendo al minimo i disagi per gli utenti occasionalmente coinvolti nel singolo procedimento, definendo in tempi ragionevoli i processi da trattare in più udienze; se impronta il rapporto con i colleghi al dialogo ed alla collaborazione professionale; se collabora con il personale amministrativo, valorizzandone le capacità e sollecitando il superamento delle carenze, preoccupandosi anche del tempestivo e corretto espletamento delle incombenze di cancelleria o se si disinteressa di tutto ciò che non riguarda il contingente espletamento dello specifico momento della singola pratica; se è riservato o aduso a utilizzare le notizie d’ufficio per appagamenti personali di vario genere; se ha rapporti corretti e trasparenti con gli avvocati, sempre privilegiando la parità di trattamento nel lavoro rispetto allo stato delle relazioni personali o se indulge in rapporti preferenziali o di colleganza con una parte del foro; se adotta provvedimenti adeguati al caso e se partecipa al singolo momento del procedimento giurisdizionale consapevole e preparato sul caso specifico o no.
In tutti gli uffici giudiziari tutto questo si conosce benissimo.
Lo sa, o lo dovrebbe sapere, il capo dell’ufficio. Lo sanno i colleghi dell’ufficio e, a volte, i colleghi dei gradi superiori. Lo sanno gli avvocati. Lo sa il personale amministrativo. Se ne sono accorti i cittadini che hanno avuto occasione di incontrare quel magistrato.
Così come tutti sanno dell’adeguatezza o meno del singolo capo dell’ufficio al proprio ruolo.
Tutti lo sanno, ma nel momento delle valutazioni formali questa conoscenza specifica e puntuale, diffusa, comune, certa, si perde, si stempera, si annacqua, diviene altro.
Questa è forse la maggior colpa della magistratura italiana, la nostra maggior colpa; perché l’autogoverno risponde al disegno costituzionale solo se coniuga l’autonomia rispetto ai controlli esterni con l’efficacia e l’adeguatezza dell’autocontrollo. Altrimenti esplodono le contraddizioni ed i limiti del corporativismo.
Personalmente condivido molto un’affermazione di una delle relazioni introduttive: non diciamoci che non è questo il momento dell’autocritica. Perché le ragioni dell’obbligata fermissima opposizione alla filosofia complessiva della riforma dell’ordinamento giudiziario licenziata per ora dal Senato della Repubblica (una filosofia che rende improbo il confronto leale sul singolo punto, pur astrattamente possibile, perché le condizioni per un utile ed efficace confronto vi sono quando la riforma mira a risolvere problemi delicati, oggettivi e tuttora aperti e non, come qui è stato, e ripetutamente, proclamato, a riequilibrare il rapporto politica-magistratura con una sorta di epocale regolamento dei conti) -quelle ragioni, dunque- sono assolutamente le stesse che impongono un autogoverno corretto ed efficace.
Perché, se la magistratura italiana non fosse in ipotesi capace di selezionare dirigenti degli uffici giudiziari capaci ed adeguati al ruolo e magistrati effettivamente adeguati alle singole funzioni cui sono destinati, io per primo, come cittadino, farei fatica a comprendere perché la valutazione e la selezione dei magistrati debba essere lasciata agli stessi magistrati. I principi costituzionali non possono vivere di mera astrattezza, devono impregnare la realtà vissuta.
Questa colpa della magistratura è tanto più grave quanto più è per tutti evidente che in realtà assolutamente agevole, faticosa ma semplice, sarebbe la via per acquisire effettivamente quella conoscenza: basta verificare il lavoro del magistrato, senza mediazioni di stereotipate e inutili relazioni dei capi degli uffici o di autorelazioni paradossalmente inaffidabili, perché è noto che la disponibilità mentale all’autorelazione, e quindi quello che potremmo definire l’effetto-sirena che di fatto questo strumento si propone, è spesso inversamente proporzionale allo spessore del magistrato: chi tra noi è maestro delle statistiche generalmente fa ottime autorelazioni, chi lavora senza pensare alle statistiche frequentemente trova insuperabili remore a scrivere di sé.
Relazioni dei capi ed autorelazioni dovrebbero servire solo come traccia, come indicazione di spunti per la verifica: volete sapere chi sono professionalmente? guardate il mio lavoro, sentite i colleghi, gli avvocati, il personale. Dandomi infine la facoltà di interloquire, se lo ritengo necessario.
Chi ha esperienza d’appello vive quotidianamente questa verità : fonte privilegiata e veridica per la valutazione del magistrato è il suo lavoro. Quando ripetutamente giungono alla verifica processuale sentenze scritte e processi trattati da uno stesso magistrato del primo grado, il giudice d’appello impara a conoscere quel collega, anche se non lo ha mai visto, è in grado di apprezzarne le qualità professionali per quel che sono effettivamente, prescindendo da occasionali ‘cadute’ o ‘exploit’. Ne apprende la capacità di gestire il dibattimento e condurre l’istruttoria, e di dare risposte adeguate alle effettive problematiche del processo, nonché la preparazione, ‘remota’ e ‘prossima’. Il che vale anche per il lavoro del collega pubblico ministero, in ordine all’adeguatezza dell’imputazione ai fatti, all’esaustività delle prove introdotte a sorreggere la contestazione formulata, alla capacità di bene introdurre quelle prove.
E’ solo un esempio, questo. E sia chiarissimo: non per, neppure indirettamente, sostenere la tesi (l’attuale riformatore) di chi vorrebbe il magistrato che svolge le funzioni di appello o di cassazione giudice dei giudici, invece che delle loro sentenze, ma solo per comprovare l’assioma che il lavoro giudiziario è la fonte privilegiata e veridica per la valutazione del magistrato.
Ciò non è oggi. Le valutazioni sono tendenzialmente generiche, sì che il sistema, quale può ricavarsi da taluni provvedimenti dei consigli giudiziari e dello stesso consiglio superiore della magistratura, finisce con il valorizzare quelle che potremmo qualificare ‘stelline’ o ‘medaglie’: il ‘di più’, rispetto al ‘normale’ lavoro giudiziario, che il magistrato che legittimamente aspiri a un incarico direttivo, semidirettivo o di altro genere deve preoccuparsi di poter esibire. Anche se il più delle volte si tratta di fatti che appaiono troppo spesso solo, o prevalentemente, l’occasione fondante l’artificio dialettico che consente di giustificare una decisione. Perché anche nel caso della ‘stellina’ si finisce per il privilegiare la forma sulla sostanza. Sicchè, per esemplificare, l’aver fatto parte della commissione uditori del consiglio giudiziario diviene ‘titolo’ privilegiante per incarichi di formazione, senza che si accerti che cosa quella commissione uditori ha fatto: che ben diverso è il caso della commissione che abbia promosso direttamente incontri, approfondimenti o attività varie, da quella che si sia limitata ad approvare il programma di tirocinio prima predisposto e poi concretizzato dal collaboratore degli uditori; così è, appunto, dell’attività di collaboratore degli uditori, di referente per la formazione o l’informatica, e così via.
Altro esempio è quello della ‘produzione scientifica’, troppe volte genericamente richiamata, senza apparenti valutazioni sull’effettiva dignità scientifica del lavoro e, comunque, in un contesto in cui il ‘normale’ lavoro giudiziario non è sufficiente. Certo, basta appunto intendersi su cosa sia e cosa si intenda per ‘normale’ lavoro giudiziario.
Ultimo esempio di ‘stellina’, che a volte si trova nei provvedimenti incredibilmente -sia permesso il termine proprio in questa sede, dove la comune presenza è inequivoco indice di un comune interesse e, quindi, della piena consapevolezza dei presenti circa la piena dignità e l’essenzialità del nostro associarsi-, il riferimento palese all’attività associativa; quando questa attività , nella quale ripeto con convinzione tutti noi presenti crediamo, è e deve essere solo servizio, mai potendo divenire in qualsiasi modo azione spendibile per le valutazioni di carriera.
Insomma: non possono contare i dati formali in sé. Ogni qualvolta un dato qualsiasi è ritenuto importante per la valutazione è necessario che si verifichi la pertinenza e la sostanza di quel dato. E’ quello che facciamo ogni giorno, nel nostro lavoro, e, checchè se ne dica, facciamo bene nella maggioranza grandissima di casi e persone. Ma è quello che troppo spesso sembra scordiamo, quando si entra nel terreno certo delicato, quando non obiettivamente minato, della valutazione di professionalità e della progressione in carriera.
Franca ma serena autocritica, dunque, quale presupposto per essere legittimati a criticare negativamente e radicalmente. Ma questa autocritica deve evidenziare come le indubbie carenze -a volte i tradimenti, consapevoli o meno, dell’autogoverno che si manifestano nell’applicare regole palesemente diverse per casi del tutto simili- coinvolgono anche i componenti laici. Sembra inevitabile dover constatare che gli aspetti più negativi del corporativismo e del correntismo non abbiano tratto alcun contenimento e rimedio dalla rilevante presenza di estranei alla magistratura, il cui apporto è di fatto quasi sempre indispensabile per determinare le specifiche maggioranze. Ma se questo è, e auspicherei di essere motivatamente smentito, occorre cogliere il dato argomentativo che emerge dalla constatazione: l’intervento di soggetti estranei alla magistratura e, per giunta, di nomina diretta da parte degli eletti dal popolo, non risolve per sé le patologie della magistratura, che deve pertanto rinvenire in se stessa quello scatto di orgoglio e rinnovamento deontologici, ad ogni livello e per ogni funzione, indispensabili per rendere al cittadino credibili le proprie ragioni teoriche.
Non è invece soluzione idonea ed accettabile quella contenuta nella riforma approvata dal Senato. Alla magistratura non servono cursus honorum ‘paganti’, non servono corsie per i presunti ‘bravi’ che allontanino dalla frontiera del primo grado, dove il cittadino comune incontra il suo primo e spesso decisivo giudice. Servono accertamenti seri, oggettivi, trasparenti, anche frequenti, non di ‘bravura’ ma di adeguatezza al ruolo ed alla funzione, quali che siano quelli in concreto esercitati. Sul punto per l’ennesima volta il legislatore s’avvia a calpestare norme costituzionali: chissà se comprenderà , per esempio, che l’art. 105 Cost. non permetteva al Senato di condizionare al parere favorevole di una scuola della magistratura estranea al csm (che vi interviene solo con la nomina di due su sette componenti del suo comitato direttivo e con proposte per i programmi) la stessa possibilità di accedere ai concorsi per le funzioni di appello e cassazione e per il mutamento inquirente/giudicante (artt. 2, punti f.1, i.8.2, i.13, i.10.2). Se non comprenderà , questa e le altre violazioni, che l’ANM si appresti alla tutela giurisdizionale: il giudice a Berlino non può non esserci anche per i magistrati ordinari italiani.
Carlo Citterio