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La giustizia in Italia :gli errori degli ultimi anni, i problemi reali, le riforme possibili.

(di Giovanni Melillo e Armando Spataro)1Ottobre 2003

1-Il pubblico interesse, stella polare della possibile riforma della giustizia. 2-L'alluvionale produzione legislativa degli ultimi anni. 3-Il monitoraggio prima di ogni riforma. 4-La frantumazione e l'abbandono del programma di riforma nella XIII legislatura. Il "giusto processo" penale, oggi. 5- Il diritto penale sostanziale. 6-Le riforme ad personam del secondo Governo Berlusconi: valori e principi da ripristinare. 7-Il contesto internazionale. 8- Il controllo del pubblico ministero. 9- L'efficienza del sistema: strutture, risorse, organici. 10- Le riforme ordinamentali realmente utili. 11- La riforma del processo civile. 12- La riforma del diritto minorile.

1-Il pubblico interesse, stella polare della possibile riforma della giustizia. E' opinione diffusa, ampiamente condivisa dall'intero ceto dei giuristi, che il nostro sistema giudiziario funzioni poco e male. Non si vuole qui discutere di tutto ciò che dovrebbe fare un Governo che abbia realmente a cuore il tema dell'efficienza della giurisdizione, ma solo individuare alcuni vistosi punti di sofferenza del sistema, in particolare quelli che rivelano un'accentuata crisi dei principi basilari di ogni sistema democratico di giustizia: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la separazione dei poteri. E prospettare, quindi, secondo i parametri offerti dalla concreta esperienza giudiziaria, alcune delle possibili linee di un'azione riformatrice che valga a porre rimedio almeno alle situazione di maggiore criticità .

Sarebbe agevole affermare, prima di ogni altra considerazione, l'assoluta necessità di eliminare i guasti prodotti dalle scelte di politica giudiziaria ad personam operate dall'attuale maggioranza politica, ricucendo - con speculari "controriforme" - i più vistosi strappi provocati dalle leggi sul rientro anonimo dei capitali illecitamente costituiti all'estero, sul falso in bilancio, sulla composizione e sistema elettorale del CSM, sulle rogatorie, sul legittimo sospetto, sull'immunità alle cinque più alte cariche dello Stato etc., ma il discorso, come si vedrà , è ben più complesso e coinvolge anche le scelte e le responsabilità della maggioranza di centro sinistra nella precedente legislatura.

2-L'alluvionale produzione legislativa degli ultimi anni. Secondo i criteri di classificazione del sistema Teseo attingibili dalla consultazione del sito web del Parlamento, dal luglio 1996 ad oggi sono state approvati 120 provvedimenti legislativi in materia di "diritto e giustizia". Tenendosi debitamente in conto la complessità del contenuto di non poche delle leggi progressivamente introdotte nell'intera XIII legislatura e nei primi due anni di quella in corso e, dunque, la loro incidenza su plurime aree tematiche (sì che, ad esempio, una legge contenente norme processuali detta sovente anche disposizioni in materia di ordinamento giudiziario ovvero apporta innovazioni anche di diritto sostanziale), una sommaria ricognizione di tale così abbondante produzione normativa vale a circoscriverne gli specifici ambiti di intervento: 18 leggi si riferiscono al diritto civile sostanziale e processuale, 41 introducono modifiche del sistema di diritto penale sostanziale e processuale (ad esse si aggiungono 9 riguardanti la specifica materia dell'ordinamento penitenziario e dell'esecuzione della pena), 16 attengono all'ordinamento giudiziario, 1 alla disciplina della professione di avvocato, 6 all'utilizzazione del personale e delle risorse dell'amministrazione della giustizia ordinaria, 1 al generale potenziamento del sistema di giustizia amministrativa. Complessivamente, 21 delle 120 leggi approvate sono dichiaratamente finalizzate a dare ratifica ed esecuzione ad accordi internazionali ovvero comunque a garantire l'attuazione di impegni assunti dallo Stato nel rapporto con altri Stati ovvero con organizzazioni internazionali. La restante parte delle novità legislative hanno oggetti e finalità eterogenei e sovente effetti temporalmente limitati (l'istituzione di Commissioni parlamentari d'inchiesta, l'utilizzazione delle forze armate in attività di prevenzione e tutela dell'ordine pubblico, la previsione di erogazione di benefici in favore delle vittime di determinati delitti, la regolazione delle conseguenze dannose di eventi calamitosi).

3-Il monitoraggio prima di ogni riforma. Già questi dati servono a dimostrare che in questi anni, più che un deficit di riforme, si è manifestato un eccesso ingiustificato di interventi che hanno alterato gli equilibri normativi su cui si reggeva il sistema giustizia, determinando incoerenze interne, se non proprio - e spesso - insuperabili contraddizioni. Occorre evitare, dunque, di invocare immotivamente nuove riforme, specie se ciò avviene -è in Italia è accaduto recentemente anche ad opera dell'attuale opposizione - all'indomani di sentenze sgradite o di decisioni comunque clamorose: questa è esattamente la strada che favorisce, nello sconcerto generale, l'avvento di riforme rancorose e punitive nei confronti della magistratura.

Tuttavia, prima di impegnarsi nell'ennesimo, probabilmente inutile, esercizio di ingegneria processuale, si dovrebbe ragionare intorno all'esigenza di introduzione di moderni ed efficaci criteri di monitoraggio delle reali condizioni e delle effettive modalità di esercizio della giurisdizione, specie di quella penale in conseguenza della legislazione di questi anni, poiché a tale possibilità è razionalmente connessa la giustificazione di ogni sforzo realmente riformatore che non voglia rivelarsi apparente e dunque inutile: stupisce, dunque, l'indifferenza verso questi problemi dell'attuale politica dell'amministrazione giudiziaria, segnata, da un lato, dal progressivo strozzamento delle risorse finanziarie (ma su questo si tornerà appresso) e, dall'altro, dall'ossessiva ricerca, rivelata da progetti di riforma dell'ordinamento giudiziario continuamente emendati, della restaurazione di anacronistici assetti gerarchici che nulla di buono hanno offerto in passato. Occorre, invece, prendere realisticamente atto che la sorte di ogni futura politica riformatrice, oltre che dalla definizione e coerente realizzazione di necessari obiettivi di semplificazione e razionalizzazione del sistema delle leggi penali, dipende soprattutto dalla capacità di assicurare trasparenza, efficienza e credibilità al lavoro giudiziario attraverso rigorose verifiche del suo esercizio effettivo.

4-La frantumazione e l'abbandono del programma di riforma nella XIII legislatura. Il "giusto processo" penale, oggi.

Una breve analisi delle linee di tendenza della politica giudiziaria nella XIII e nell'attuale legislatura servirà ad individuare le strade da abbandonare e quelle da intraprendere se si vuol realmente perseguire l'efficienza del sistema. In particolare, nella XIII legislatura gli sforzi si concentrarono inizialmente su riforme strutturali ed organizzatorie (il riferimento attiene innanzitutto al complesso degli interventi connessi all'istituzione del giudice unico di primo grado), considerati prioritari rispetto all'esigenza, pure affermata nel programma elettorale della coalizione vincente (Indicazioni per un programma di riforme della Giustizia, a cura di Giovanni Maria Flick, Roma, 1995), di porre finalmente mano ad un organico progetto riformatore in grado, oltre che di avviare un reale processo di razionalizzazione dell'amministrazione giudiziaria, di individuare i valori ai quali riservare la costosa tutela in astratto apprestata dal processo penale (arginando anche la tendenza a piegare il diritto penale a meri scopi di rassicurazione sociale, di volta in volta conseguenti ad obiettive spinte emergenziali ovvero a presumibili aspettative dell'elettorato) e di superare la logica di interventi settoriali destinati al fallimento pratico anche quando positivi sembrano apparirne i fini ispiratori specifici. Il complesso di progetti di legge presentati dal Ministro della Giustizia Flick, anziché divenire il motore delle politiche di maggioranza, fu presto trasformato nelle voci di una sorta di ménu à la carte, dal quale scegliere soltanto le meno indigeste secondo le regole di occasionali quanto apparenti convenienze e della ricerca di una mediazione politica tanto esasperata quanto lontana dall'originaria ispirazione riformatrice: di qui un processo di produzione normativa assolutamente disorganico ed incoerente. La stessa esperienza della Bicamerale, in materia di giustizia, si alimentò di ambigui progetti di revisione costituzionale non a caso riaffiorati nei programmi politici della attuale maggioranza di centro destra. Insomma, altro non rimase dell'originaria ispirazione riformatrice che l'affannosa ricerca di obiettivi limitati e facilmente spendibili, per di più condotta all'insegna dell'anacronistica pretesa di conseguirli "a costo zero". Ed è proprio in questa cornice che si collocano alcuni interventi che hanno finito per accentuare, oltre ogni ragionevole misura, la disgregazione del sistema processuale penale: la legge n. 479 del 16 dicembre 1999 (cd. Carotti) che ha aggravato quella peculiare caratteristica del sistema italiano riassumibile nella sostanziale imponderabilità della durata del suo svolgimento; le astruse soluzioni ai delicati problemi della definizione dei confini del diritto al silenzio dell'imputato in procedimento connesso o collegato escogitate con la legge n. 63 dell'1.3.2001, di attuazione del principio del giusto processo; l'assoluta mancanza di equilibrio della nuova disciplina delle indagini difensive, attributiva di diritti e facoltà ai quali non corrisponde alcun correlativo dovere per il difensore; l'assoluto formalismo delle prescrizioni contenute nella nuova disciplina della difesa d'ufficio e la disincentivante nuova disciplina dei collaboratori di giustizia (L. 13.2.2001 n.45), peraltro potenzialmente in conflitto con il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale2. Ben altri e più pregnanti rilievi tecnici sarebbero ovviamente possibili sul contenuto di queste leggi e, in genere, sulla politica giudiziaria del precedente governo di centrosinistra3, ma è chiaro - comunque - che si tratta di una legislazione che va attentamente ma coraggiosamente rivisitata. Se, infatti, è probabile che un certo grado di instabilità e di contraddittorietà del processo penale sia, anche in altri Paesi, un'espressione tipica ed ineliminabile della disorganicità caratteristica dell'esperienza giuridica contemporanea, l'ipertrofia legislativa e la contraddittorietà delle spinte politico-culturali tipiche del nostro ordinamento hanno prodotto una situazione insostenibile, nella quale il processo penale sembra complessivamente concepito, da un lato, per consentire che un uso sapiente quanto spregiudicato delle garanzie difensive possa letteralmente interdire l'esercizio della giurisdizione e, dall'altro lato, per stritolare i soggetti più deboli.

Insomma, appare evidente che, la definizione di "giusto processo", mediaticamente selezionata con l'unanime consenso delle forze parlamentari all'atto della modifica dell'art. 111 della Costituzione (L. cost.le n. 2 del 23.11.1999), oggi è strumentalmente spesa per giustificare la necessità di ulteriori peggioramenti del codice di procedura: ieri quelli della proposta-Pittelli, oggi quelli allo studio dei sedicenti quattro "saggi" coordinati dal Ministro della Giustizia. Il rischio è che, per tale via e in tempi calamitosi come questi, l'attuazione di quei principi sia paradossalmente piegata verso esiti illiberali, primo tra tutti il controllo politico del pubblico ministero. Del resto, la formula utilizzata per definire i principi del giusto processo nulla dice sul valore costituzionale della fase delle indagini preliminari, limitandosi ad affermare che "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo" ; ma quest'espressione ha un preciso significato tecnico-giuridico, indicando soltanto la fase processuale che inizia con l'esercizio dell'azione penale a conclusione - e non nel corso - delle investigazioni: astrattamente, dunque, essa apre la strada all'attribuzione della competenza investigativa direttamente agli organi di polizia giudiziaria che dipendono dall'esecutivo ovvero ad attrarre lo stesso pubblico ministero nell'orbita dell'esecutivo. Giustamente, è stato sottolineato (Francesco IACOVIELLO, Giusto processo? Alcune domande, in Cassazione penale, 2003, p.1461) che "nello scrivere la disposizione (dell'art. 111) qualche Padre fondatore aveva la vista lunga. Qualche altro era distratto".

Lungi dal proseguire sulla strada di un garantismo selettivo, insensibile ai diritti dei soggetti marginali, delle vittime dei reati ed alle esigenze di efficienza del sistema processuale essenziali alla tutela della sicurezza collettiva, una seria azione riformatrice del processo penale dovrebbe imboccare la difficile strada dello snellimento del dibattimento, della revisione della disciplina della prescrizione dei reati e delle notificazioni, della riforma del sistema delle impugnazioni e del giudizio di appello e di cassazione. Non si tratta di arretrare sul piano delle garanzie, ma di riequilibrare il rapporto tra queste e l'efficienza complessiva del sistema. A ricordare la necessità di ciò dovrebbe, del resto, risultare sufficiente la consapevolezza dei rischi connessi alla minaccia della criminalità organizzata, mafiosa e terroristica, l'una espunta dal novero delle priorità politiche e l'altra ancora affrontata senza adeguati strumenti : a tal proposito, viene da chiedersi perché in questa materia non siano state ancora attribuite alla Procura nazionale antimafia le funzioni di impulso e coordinamento investigativo già utilmente sperimentate nel contrasto della mafia, nonostante si tratti di un intervento possibile - questa volta sì - "a costo zero", auspicato dalla magistratura e dalle stesse forze di polizia e sull'opportunità del quale le forze politiche dichiaratamente convergono.

5- Il diritto penale sostanziale

Si tratta del settore che meno necessita di interventi riformatori, anche se appare necessaria ed urgente, anche alla luce della più recente giurisprudenza della Cassazione, la rivisitazione del regime penale (ed amministrativo) delle condotte collegate alla immigrazione clandestina ed al suo favoreggiamento: in proposito, non è azzardato affermare che ci si trova in presenza di leggi razziali che non fanno onore alla tradizione ed alla storia di questo paese (non a caso sono ben 467 le ordinanze con cui sono state sollevate questioni di incostituzionalità della "Bossi-Fini"). Non è ancora chiara, invece, al di là delle allarmanti anticipazioni circolate in questi mesi, la direzione in cui si sta muovendo la cd. Commissione Nordio, quella che doveva riformare il Codice Penale in sei mesi; è innegabile, tuttavia, che esistano ancora spazi, sia pur molto limitati, per ulteriori depenalizzazioni: è pensabile, ad es., che si debba celebrare un processo penale a carico del gestore di un pubblico esercizio che non esponga l'elenco dei giochi proibiti? Ma prima di procedere bisognerà valutare - ed è ancora presto per farlo - l'incidenza deflattiva per il lavoro dei giudici ordinari della competenza penale attribuita ai giudici di pace e considerare anche un effetto indesiderato, eppure reale, della politica di depenalizzazione: il calo di attenzione del legislatore (e probabilmente anche di specializzazione dei magistrati) sui temi della tutela dell'ambiente, della sicurezza del lavoro, della responsabilità professionale, dei consumatori, cioè delle materie una volta tesoro dell'esperienza pretorile ed oggi schiacciate dalla soffocante mole degli affari giudiziari che affluiscono verso uffici sempre più poveri di mezzi e risorse. Anche di questo ci si dovrà occupare in futuro.

6-Le riforme ad personam del Governo Berlusconi: valori e principi da ripristinare.

Se la ricerca della mediazione a costo del sacrificio della propria identità culturale e politica è stato il tratto distintivo della politica giudiziaria del precedente governo, quello dei programmi dell'attuale maggioranza è senza dubbio la tutela degli interessi personali di pochi e la connessa mortificazione della magistratura. E' prioritaria, dunque, l'esigenza di rivisitare criticamente e porre rimedio agli effetti più nefasti della recente legislazione in tema di giustizia, o almeno di quelli resistenti alla intrinseca capacità dell'ordinamento di assorbire e neutralizzare i tentativi di distorcere il contenuto ed il significato di fonti superiori. La cd. legge sulle rogatorie, n. 367 del 2001, di ratifica ed esecuzione dell'Accordo di assistenza giudiziaria stipulato il 10.9.1998 fra Italia e Svizzera vale, al di là di quanto si dirà oltre, ad offrire una dimostrazione emblematica della forza di resistenza del sistema assicurata dal rigore e dalla coerenza sistematica dell'opera interpretativa offertane dai giudici, i quali, prima ancora di invocare l'intervento correttivo della Corte Costituzionale, hanno il dovere, più volte richiamato dal giudice delle leggi, di ricercare, nella ricognizione del contenuto delle norme, una interpretazione alternativa a quella che determinerebbe il contrasto con la legge fondamentale dello Stato. Di fatto, era accaduto che la maggioranza politico-parlamentare aveva provato a trasfondere in quella legge un'idea di interpretazione delle norme che regolano la prova penale assunta per i canali dell'assistenza giudiziaria internazionale già sconfitta nelle aule dei tribunali ove era stata considerata contraria alle prassi ed allo spirito della cooperazione internazionale. Ma le cose non si sono rivelate così semplici come dovevano apparire nella mente degli ispiratori della riforma: i giudici, che applicano le nuove norme nel quadro dei principi del diritto costituzionale e del diritto internazionale, hanno, in pratica, rifiutato l'interpretazione avuta di mira dal legislatore (in ciò aiutati, come ha per primo osservato Franco Cordero, dalla obiettiva povertà tecnica dello sforzo di traduzione della volontà politica originatrice) e ne hanno ribadito un'altra, considerata più coerente ai principi costituzionali che regolano i rapporti internazionali ed alla gerarchia delle relative fonti: è stata così confermata la utilizzabilità di alcune prove documentali assunte a carico di imputati eccellenti in ben noti procedimenti; la Corte di Cassazione ha poi confermato la correttezza della decisione. Ma da ciò alte grida: i giudici, si è detto, pretendono di "interpretare" la legge, così alterando la volontà sovrana del Parlamento eletto dal popolo (questo il significato della risoluzione approvata a maggioranza dal Senato il 5.12.01, pericolosamente violatrice del principio della separazione dei poteri). Ma si trattava, in realtà , di un caso classico di antropologia dell'invidia. È stato il potere legislativo, infatti, a pretendere di condizionare l'interpretazione delle leggi secondo criteri lontani da quelli suggeriti dalla Costituzione e dal diritto internazionale. È stata la politica, in altri termini, a pretendere di inchiodare l'interpretazione della legge e di negare la facoltà di interpretazione che spetta soltanto al giudice e che gli consente di difendere la propria indipendenza nel rapporto con il potere politico, soprattutto quando questo rivela la sua riluttanza ad accettare il controllo del potere giudiziario. E che questa maggioranza non intenda abbandonare tale pretesa è confermato dal tenore del disegno di legge delega di riforma dell'ordinamento giudiziario approvato dalla Commissione Giustizia del Senato in sede referente il 25 settembre scorso: vi si prevede, infatti, a pena di sanzione disciplinare per i reprobi, un metodo di interpretazione della legge che condurrebbe alla sua applicazione solo in termini graditi alla maggioranza stessa. Si ignorano, così, principi giuridici elementari, pronunce delle Corti internazionali e della Corte Costituzionale, le elaborazioni della dottrina: viene vietata "l'attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo". E' chiara la ragione del divieto, tanto più che, proprio in commissione, si è ricordato, a mò di esempio, che i giudici della Repubblica si erano permessi di interpretare la legge sulle rogatorie in modo difforme dalla volontà del Parlamento. Verrebbe da stupirsi di fronte a tanta approssimazione giuridica se essa non fosse accompagnata da così forte determinazione politica: si vuol negare al giudice, con scelte del tutto estranee alla cultura costituzionale, l'essenza stessa del suo lavoro, cioè l'individuazione della norma che, tratta dalla lettera della legge, va applicata al caso concreto, anche alle ipotesi non previste dal legislatore.

Proprio questa incredibile vicenda (non a caso duramente stigmatizzata dall'appello diffuso il 9.10.03 dal mondo accademico) richiama la necessità di non perdere di vista la gravità del frequente ricorrere, per via legislativa, a vere e proprie avventure sul terreno della legalità costituzionale o a palesi tentativi di interferire per via amministrativa sull'esercizio della giurisdizione o dell'autogoverno della magistratura, come tali in grado di generare pericolosi conflitti di attribuzione. È stato recentemente osservato4 come gli strumenti correttivi e stabilizzatori previsti dall'ordinamento possano essere esposti ad un serio rischio di sfiancamento dinanzi alla moltiplicazione dei comportamenti istituzionali anomali : è quanto può verificarsi di fronte a ripetuti interventi della Corte Costituzionale (sono fin qui state sottoposte alla Consulta 53 leggi approvate in questa legislatura, di cui 48 di iniziativa del Governo; tra quelle esaminate, ben 12 sono le bocciature) o "con i moniti alla moderazione ad alla correttezza costituzionale del Presidente Ciampi, che vengono invariabilmente seguiti da manifestazioni di piena adesione da tutte le parti, salvo essere subito e completamente ignorati da parte di chi vuole mantenere un clima incandescente nei rapporti istituzionali".

Anche per tale via, si rivela che il problema non è quello di far seguire ad ogni eventuale cambio di maggioranza di governo la sostituzione delle leggi gradite alla vecchia maggioranza con altre ben viste dalla nuova, ma di dare avvio ad una nuova stagione politico-istituzionale nella quale : a) sia ripristinato il rispetto della funzione giudiziaria messo in gioco dalle continue manipolazione del principio del tempus regit actum che vuole che ogni legge processuale sia applicata secondo il normale criterio cronologico, senza eccezioni votate ad influire sull'esito dei procedimenti in corso; b) l'evoluzione del sistema penale processuale e sostanziale sia guidata dall'esigenza di assicurare la rapidità e la credibilità della risposta giudiziaria, in conformità ai valori condivisi dalla comunità internazionale ed alle esigenze di armonizzazione normativa e di progressiva integrazione degli apparati tipiche del processo di costruzione della nuova dimensione istituzionale europea; c) sia evitata ogni lesione delle prerogative di autonomia ed indipendenza della magistratura essenziali al bilanciamento dei poteri dello Stato ed alla salvaguardia del principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

L'interdipendenza dei parametri appena enunciati è evidente, ma ciascuno di essi si presta ad offrire utili specule di osservazione della recente legislazione e dei pericoli insiti tanto in taluni, non ancora realizzati progetti di riforma, quanto nel silenzio e nell'inazione del legislatore in numerosi, cruciali campi.

La sensazione che l'esito del processo penale sia ormai assolutamente incerto in dipendenza delle continue modificazioni legislative destinate ad incidere anche sugli atti già formati sembra difficilmente contestabile. Tuttavia, quel che è più grave è che ciò appare assumere dimensioni eclatanti in diretta corrispondenza alla rilevanza politica ed economica degli interessi e delle posizioni personali coinvolte. La tendenza ad una nuova espansione delle immunità parlamentari e l'introduzione della sospensione dei processi nei confronti delle alte cariche dello Stato ne costituiscono evidente dimostrazione, al pari delle preoccupanti nuove eccezioni portate al principio del giudice naturale. Si è di fronte a patenti violazioni del principio di eguaglianza formale dei cittadini che aprono la strada ad artificiose possibilità di elusione delle leggi in favore di pochi ed in danno dell'interesse generale alla stabilità Stato di diritto. Lo dimostra, in particolare, la vicenda del cd. lodo Schifani ove, a tacer d'ogni altro aspetto di estremismo istituzionale e delle reazioni negative della comunità internazionale, l'introduzione, senza le garanzie offerte dal procedimento di revisione costituzionale, di una causa di sospensione dei processi dalla durata potenzialmente indeterminata assai probabilmente varrà , al di là di ogni possibilità di intervento della Corte Costituzionale, ad assicurare l'azzeramento dello specifico rischio processuale la cui sussistenza ne ha determinato l'approvazione. Ma lo dimostrano anche altri casi. In concreto, ad esempio, l'invocazione dell'applicazione del nuovo regime della rimessione del procedimento penale ad un giudice diverso da quello naturale (cd. legge Cirami) non ha condotto agli esiti dichiaratamente perseguiti nelle particolari vicende processuali ancora una volta assurte a fattore dominante l'orientamento della maggioranza parlamentare per il rigore opposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (per questo anch'esse, naturalmente, accusate di avere agito per finalità politiche) nel concreto apprezzamento della sussistenza dei presupposti legittimanti il ricorso a quell'eccezionale rimedio, ma è un dato di fatto che la nuova disciplina è sempre più spesso strumentalmente chiamata in causa nei processi di criminalità organizzata ed ogni qual volta prevalgano strategie difensive dilatorie. È stato efficacemente detto (Gaetano SILVESTRI, cit.) che "se la peggiore giustizia è la tardiva giustizia, gli effetti ritardatori a valanga prodotti da alcune nuove leggi possono giovare a pochi e danneggiare molti (parti lese, coimputati desiderosi di dimostrare la propria innocenza, intere comunità devastate dalla criminalità organizzata), senza aggiungere nulla al diritto di difesa tutelato dalla Costituzione".

In questa prospettiva (tutti parlano di ragionevole durata dei processi, ma si susseguono interventi che allontanano la soluzione del problema), non possono non suscitare grande preoccupazione il progetto di legge n. 2574 bis, approvato l'8.10.03 dalla Camera dei Deputati, intitolato "Modifiche al Codice di procedura penale concernenti la Corte di Cassazione" e la proposta di legge A.C. 1447-1992 in materia di "Revisione dei processi penali a seguito di sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'uomo", pure approvata dalla Camera dei Deputati, nel silenzio generale, lo scorso 28 luglio. Nel primo caso siamo di fronte ad una serie di previsioni (concernenti la procedura di dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi e l'ampliamento dei casi e dei tempi di sospensione obbligatoria del procedimento nel quale sia avanzata istanza di rimessione ai sensi della Legge Cirami) che si prestano ad essere utilizzate come mero espediente dilatorio, così determinando un rilevante allungamento dei tempi delle decisioni ed incentivando l'uso strumentale del ricorso per cassazione al solo fine di far maturare i tempi per la prescrizione dei reati. Con il secondo progetto sarà possibile la revisione delle sentenze penali di condanna nel caso di successivo accertamento da parte degli organi di giustizia del Consiglio d'Europa, della violazione, nel corso del giudizio, delle disposizioni previste dall'art.6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Anche per le scelte di diritto transitorio che si profilano (la richiesta, a seguito della solita provvidenziale norma transitoria, potrà essere formulata, entro 180 gg. dall'entrata in vigore della legge, "..anche nel caso in cui la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ...sia stata pronunciata prima di tale data"), rischia di prodursi un nuovo effetto inflazionistico di incalcolabile portata, le conseguenze del quale possono soltanto oggi intravedersi immaginando il prevedibile fiorire di ricorsi avverso le sentenze definitive pronunciate sulla base di regole di assunzione e valutazione della prova diverse da quelle attuali e, come tali, non conformi ai nuovi principi costituzionali in tema di giusto processo.

7-Il contesto internazionale.

Il cenno che precede consente di affrontare un tema centrale per il futuro della giustizia italiana : la sua proiezione internazionale. La dimensione valutativa offerta dalla comparazione della recente produzione legislativa italiana con il sistema delle fonti di diritto internazionale e gli obiettivi di comuni politiche europee in materia di contrasto delle forme più gravi di criminalità e di efficace cooperazione giudiziaria è forse quella che maggiormente si presta all'apprezzamento dell'importanza, gravemente sottovalutata anche nella passata legislatura, di assicurare il tempestivo adeguamento dell'ordinamento italiano agli standards riconosciuti come vincolanti nelle sedi politiche internazionali e, correlativamente, della serietà del rischio di isolamento ed arretramento politico, giuridico e culturale che grava sull'Italia per effetto di scelte in stridente contrasto con le quelle che si compiono sul piano internazionale e sovranazionale. I punti di osservazione sono molteplici e variegati. Si pensi alla materia della corruzione. La XIII legislatura si aprì all'insegna del fiorire di iniziative parlamentari dichiaratamente volte a rafforzare l'autorità dello Stato dinanzi alla forza degenerativa di questo grave fenomeno criminale, tanto che sembrò necessario ed opportuno istituire un'apposita Commissione per l'esame dei numerosi disegni di legge presentati per prevenire la commissione di reati di questo tipo. Ebbene, l'intera legislatura non bastò all'approvazione del testo elaborato da quella Commissione, presto espunto dalle priorità delle maggioranze politiche succedutesi dopo il manifestarsi delle difficoltà e dei contrasti parlamentari. Gli unici interventi legislativi in materia furono di fatto imposti dalla particolare cogenza di taluni obblighi assunti in ambito comunitario ed internazionale. A tutt'oggi la situazione non è mutata, ma, per quanto possibile, si è aggravata. È ancora priva di ratifica la Convenzione penale sulla corruzione approvata il 4.11.1998 dal Consiglio d'Europa, finalizzata a favorire l'incriminazione di un ampio ventaglio di condotte di corruzione riferite non soltanto agli agenti pubblici (il relativo adattamento normativo imporrebbe, ad esempio, il superamento dell'ambigua distinzione fra le fattispecie di corruzione e di concussione), ma anche agli agenti privati, prevedendosi l'obbligo di incriminazione delle condotte di corruzione nel settore privato, oggetto anche di un'apposita e quasi coeva (22.12.1998) azione comune dell'Unione Europea.

La recente legislazione in materia di reati societari, poi,contraddice palesemente gli impegni assunti dinanzi alla comunità internazionale di adottare misure repressive efficaci ed effettive nel contrasto della corruzione come del riciclaggio (a far tempo dalla Convenzione di Strasburgo dell'8.11.1990) e, in generale, per la tutela della trasparenza dei mercati e della libertà di concorrenza economica. Il principio di effettività delle misure di prevenzione e di repressione va, naturalmente, interpretato, ma c'è da chiedersi se il complessivo effetto di abbattimento della capacità di reale deterrenza delle norme poste a protezione della correttezza e delle fedeltà dei bilanci connesso alla depenalizzazione di alcune condotte fraudolente, alla trasformazione di altre da delitti in contravvenzioni (con conseguente abbattimento dei termini di prescrizione ed esclusione della possibilità di ricorso alle più incisive misure cautelari o di ricerca della prova) ovvero alla previsione della punibilità di altre ancora soltanto in presenza di una querela (in molti casi neanche immaginabile, se i soggetti legittimati a proporre l'istanza punitiva sono i beneficiari economici degli scopi della fraudolenta rappresentazione della situazione patrimoniale) possa ritenersi compatibile con l'impegno a reprimere gli ulteriori illeciti (innanzitutto la corruzione politica ed amministrativa servente fini di ingiusto arricchimento) per commettere i quali normalmente si apprestano o occultando specifiche risorse economiche. Allo stesso modo, poiché corollario naturale di ogni inchiesta penale su casi di corruzione o di criminalità organizzata dovrebbe essere la ricerca e la confisca delle ricchezze accumulate attraverso il delitto, la sostanziale neutralizzazione degli strumenti di repressione delle condotte di falsificazione dei bilanci riduce grandemente le possibilità di accertamento giudiziale dell'origine e della sorte di profitti e proventi illeciti. Si tratta di argomenti già emersi in sede giudiziale, ma il problema di una profonda rivisitazione della nuova legislazione sembra corrispondere ad irrinunciabili esigenze di coerenza etico-politica: del resto, pur non essendo state ancora definite le questioni sollevate dai Tribunali di Milano e di altre sedi giudiziarie dinanzi alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia della Comunità Europea, va ricordato che il Servizio giuridico della Commissione UE, già nella primavera scorsa, ha depositato alla Corte di Lussemburgo una memoria nella quale si sostiene il contrasto tra la nuova normativa italiana sul falso in bilancio e reati societari con le direttive europee in materia, risultando compromesse dalla prima l'idoneità "ad assicurare la portata e l'efficacia del diritto comunitario nelle ipotesi di falso od omissioni nei conti annuali delle società ", la possibilità - in conseguenza della drastica riduzione dei termini di prescrizione - di portare a conclusione i procedimenti penali in tempo utile e - per effetto della introduzione della procedibilità a querela e di soglie di tolleranza - di rendere incisiva ed effettiva la sanzione di comportamenti illegali. E' chiaro, dunque, che a prescindere dalla decisione del Corte di Lussemburgo (che potrebbe condurre alla disapplicazione delle disposizioni di diritto interno), si tratta di una normativa eticamente intollerabile che favorisce i poteri forti sul piano economico e che, dunque, va del tutto disinnescata.

Alla medesima esigenza di effettività degli sforzi di repressione di fenomeni criminali connotati dalla transnazionalità delle strutture organizzative e degli interessi coinvolti corrispondono i sempre più ampi e profondi sforzi di miglioramento della cooperazione internazionale. Se nella legislatura in corso sono emersi nettamente atteggiamenti governativi di diffidenza quando non di aperta contrapposizione ad ogni significativa svolta innovatrice (come è avvenuto con le riserve opposte dal Ministro della Giustizia all'adozione delle Decisioni quadro del Consiglio dell'Unione Europea in materia di repressione del razzismo e della xenofobia, o nel vertice di Laeken dell'11.12.2001 in tema di esecuzione dei mandati di arresto, o riservando la sottoscrizione del Secondo Protocollo addizionale alla Convenzione generale sull'assistenza giudiziaria in materia penale adottato dal Consiglio d'Europa nel novembre 2001) che mal si conciliano con il ruolo propulsivo tradizionalmente svolto in questo campo dall'Italia, non può tacersi che la sottovalutazione delle esigenze di tempestivo adeguamento della legislazione nazionale agli obiettivi fissati in sede internazionale ed europea ha segnato anche la passata legislatura ed interessato trasversalmente gli schieramenti politici. Infatti, la stessa dolorosa vicenda della legge sulle rogatorie, originata dalla ratifica dell'Accordo italo-svizzero del 1998, è stata obiettivamente resa possibile da ciò che il relativo disegno di legge di iniziativa governativa n. 6499 del 1999 fu approvato soltanto negli ultimi giorni della legislatura dalla Camera dei Deputati, di fatto rinunciandosi a concludere il relativo iter nonostante l'importanza delle innovazioni contenute in un accordo internazionale, pure lungamente preparato e fortemente voluto, che anticipava alcune delle più significative evoluzioni della materia (poi tradotte nella nuova Convenzione del 29.5.2000 di assistenza giudiziaria tra gli Stati membri dell'Unione Europea) : evidentemente la definitiva approvazione del provvedimento non costituiva una reale priorità di quella maggioranza e della relativa azione di impulso governativa. Non solo: la mancata approvazione della legge di ratifica nella passata legislatura ha, in fatto, fornito la possibilità (e l'alibi), al successivo governo sorretto da diversa maggioranza, di varare una delle leggi - appunto, quella sulle rogatorie - che più ha diviso il paese e messo in discussione la credibilità dell'Italia nei rapporti internazionali di cooperazione giudiziaria. Gran parte degli effetti distorsivi di quella legge, come si è detto, sono stati evitati dal doveroso sforzo giurisprudenziale di darne un'interpretazione compatibile con gli assetti reali del diritto internazionale e con le norme costituzionali, ma la materia esige comunque una rivisitazione profonda, imposta dall'evoluzione delle prassi di collaborazione internazionale e dalle esigenze ampiamente recepite nella già ricordata Convenzione dell'Unione Europea del 29.5.2000: in primo piano quelle di massima semplificazione e depoliticizzazione delle procedure esecutive interne sottostanti il filtro ministeriale all'inoltro ed all'esecuzione delle domande di assistenza giudiziaria. Si pensi, quanto ai rischi ancora esistenti in materia, alla "interpretazione creativa" che del cd. Lodo Schifani il Ministro Castelli ha dato nel luglio scorso, pretendendo di porre in dubbio la doverosità dell'invio alle autorità statunitensi di una commissione rogatoria del PM di Milano in un procedimento a carico del Presidente del Consiglio e riguardante una sua azienda. La base di partenza di una ragionevole riforma del settore, del resto, esiste già ed è offerta dalle proposte di adattamento normativo elaborate dalla Commissione di Studio istituita presso il Ministero della Giustizia il 15 luglio 1999 e di fatto cessata nelle sue funzioni nell'ottobre 2001 in conseguenza delle dimissioni presentate da gran parte dei magistrati e professori universitari che ne facevano parte proprio a seguito dell'approvazione della cd. legge sulle rogatorie. Il relativo progetto normativo risulta pressoché integralmente trasfuso nel disegno di legge n. 1951 del 2001, di iniziativa di deputati dell'opposizione, ma tracce assai consistenti di esso permangono finanche nel d.d.l. d'iniziativa governativa n. 2372 del 2002 che pure mira a preservare le tradizionali prerogative ministeriali: entrambi giacciono ancora all'esame, in sede consultiva, della Commissione Giustizia della Camera, né all'uno né all'altro essendo seguita la scelta politica di assicurarne l'inserimento prioritario nell'ordine di svolgimento dei lavori parlamentari.

Nella dimensione di collaborazione istituzionale offerta dall'Unione Europea è oggi possibile ritrovare molti ed efficaci anticorpi alle tendenze disgregative dello Stato di diritto visibili attraverso le logiche di garantismo selettivo che permeano (soprattutto, ma non solo, come si è visto) le più recenti scelte legislative in materia di giustizia.

Dunque, è essenziale che ogni futuro programma di politica giudiziaria preveda la decisa condivisione degli assetti organizzativi e normativi che in Europa si vanno delineando e dei quali, fino alla primavera 2001, l'Italia è stata motore e protagonista non secondaria. Nulla a che vedere, dunque, con le affermazioni - segnate, soprattutto nella percezione possibile all'estero, da ormai stucchevoli note folkloristiche - di Ministri della Repubblica (Bossi, 1.3.2002: "Mobilitiamoci contro l'U-E., la nuova Urss"; Castelli, 30.3.2003: "Toghe rosse, un pericolo per l'Europa"), che a vario titolo hanno manifestato contrarietà o riserve rispetto ai passi avanti che, nel campo della cooperazione, della armonizzazione delle normative nazionali e dell'integrazione delle strutture, va compiendo l'Europa. Non si tratta solo di aderire con convinzione agli specifici accordi varati o allo studio da parte degli Stati membri dell'U.E. (revocando ogni riserva o resistenza fin qui manifestata), ma anche appoggiare l'azione e l'assestamento dei suoi organismi e, innanzitutto, di Eurojust, unità composta da magistrati o funzionari di polizia distaccati da ciascuno Stato membro, la cui istituzione, prefigurata dalla decisione del Consiglio dell'Unione Europea (Tampere, 16.10.1999), è stata definitivamente deliberata il 28.2.2002 dallo stesso Consiglio. Si tratta di un organismo sovranazionale dotato di autonoma personalita' giuridica e finanziato a carico del bilancio dell'Unione Europea, che ha il compito di rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata, agevolare il coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell'azione penale, prestare assistenza nelle indagini riguardanti i casi di criminalità organizzata etc. anche al fine di semplificare l'esecuzione delle rogatorie (il Consiglio europeo di Nizza del 7-9.12.2000 aveva già attribuito una formale collocazione di Eurojust all'interno del Trattato dell'Unione europea, così "costituzionalizzandolo" quale pendant giudiziario dell'Ufficio Europeo di Polizia, cioè l'Europol) e, di fatto, quale premessa della futura costruzione di una vera e propria Procura europea. In questa prospettiva, diventa centrale, dunque, la questione della natura delle funzioni e dello statuto giuridico dei magistrati italiani destinati a farne parte. Essendo incontestabile la pertinenza alla funzione giurisdizionale dei compiti assegnati a tali magistrati, si pone, dunque, il problema di definire procedure di selezione e regole di svolgimento dell'incarico compatibili con i principi di autonomia ed indipendenza della magistratura. In particolare, appare necessario assicurare che la designazione dei magistrati in Eurojust (come in altri organismi sopranazionali) sia riservata al CSM, al fine di porre un argine alle eventuali interferenze del potere politico di uno o più Stati o delle stesse istituzioni comunitarie: un punto programmatico che non può essere marginale per chi si proponga di governare democraticamente il paese e garantire l'indipendenza dell'ordine giudiziario. Né si tratta di preoccupazioni ingiustificate; poiché l'art. 9, par. 3, della Decisione istitutiva di Eurojust prevede che ciascuno Stato definisce la natura e la portata dei "poteri giudiziari" che conferisce al proprio membro nazionale sul suo territorio, l'11.7.2003 il Consiglio dei Ministri aveva approvato un disegno di legge con il quale si attribuiva al Governo il potere di designare il magistrato italiano in Eurojust (sia pure in una rosa di candidati sottoposta al preventivo vaglio dell'organo di autogoverno), nonchè il potere di impartire al medesimo "direttive per l'esercizio delle sue funzioni", tra cui figuravano anche quelle di richiedere e scambiare, anche in deroga al segreto investigativo, informazioni scritte in ordine a procedimenti penali ed al contenuto degli stessi. Nella relazione d'accompagnamento al progetto di legge si diceva anche che il Governo rinuncia alla facoltà di attribuire poteri giudiziari al suo rappresentante in Eurojust, le cui funzioni vengono evidentemente ritenute di natura amministrativa. E' vero che il Presidente Ciampi ha rimandato al mittente tale disegno di legge, ma è pur vero che quello successivamente messo a punto non tranquillizza in alcun modo: siamo di fronte, infatti, a vere e proprie prove tecniche di controllo politico sull'attività giudiziaria, ad una anticipazione del complessivo disegno del Governo di sottoporre l'azione del Pubblico Ministero alle proprie direttive.

8- Il controllo del pubblico ministero.

Ecco, dunque, la partita decisiva che si profila, quella che si gioca intorno allo statuto normativo ed al ruolo del pubblico ministero. Sono fin troppo evidenti le aspettative di condizionamento politico dell'attività del pubblico ministero connesse all'idea della separazione delle carriere. Ma parallelamente crescono non meno insidiose spinte allo svuotamento delle attuali prerogative processuali del pubblico ministero che sono invece essenziali all'effettività del suo statuto di autonomia. Il principio legale (art. 330 c.p.p.) che abilita il pubblico ministero a prendere notizia dei reati direttamente e, quindi anche in mancanza di una denuncia o dell'iniziativa degli organi di polizia, lungi dal rappresentare un'anomalia procedurale, costituisce invece una fondamentale garanzia processuale della posizione di indipendenza della magistratura inquirente, oltre che di promozione dell'effettiva eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, garantendo la possibilità di avviare un'indagine ed esercitare l'azione penale anche nei casi nei quali manchi una iniziativa delle strutture di polizia, che dipendono dall'esecutivo. Allo stesso modo il complesso delle regole procedurali che oggi garantiscono al pubblico ministero la direzione ed il controllo delle indagini preliminari realizza più elevati standards di garanzia dei diritti della difesa. La conservazione dell'una e dell'altra serie di prerogative processuali non è meno rilevante per la tutela dell'effettività della giurisdizione penale, rivelando le proposte di segno contrario - fondate sulla concezione del pubblico ministero passivo recettore di notizie di reato preconfezionate dalla polizia - scopi dichiarati di controllo politico strumentale dell'azione penale. In altri termini, l'obiettivo di condizionarne l'esercizio può realizzarsi non soltanto attentando all'unità della giurisdizione e all'effettività dello statuto di indipendenza ed autonomia del pubblico ministero, ma anche, più silenziosamente, svuotando le attribuzioni a lui spettanti in tema di avvio e conduzione delle indagini. In questo campo, dunque, la riforma per il futuro consiste nella difesa dell'esistente: si contrasti ogni disegno di separazione delle carriere, ma si eviti anche di invocare ambiguamente "una più accentuata distinzione delle funzioni" (come di recente è stato fatto anche da autorevoli parlamentari dell'opposizione). Se si vuol alludere solo ad un sistema di incompatibilità su base territoriale che impedisca, per un tempo più o meno lungo, l'esercizio della funzione giudicante nello stesso circondario o distretto al magistrato che vi abbia in precedenza esercitato quella requirente (e viceversa), si usi un lessico adeguato e tecnicamente più preciso : da tempo, infatti, la stessa magistratura ha mostrato disponibilità a discutere questa prospettiva e lo stesso CSM, sin dal 24.2.93, si era espresso in favore di un sistema di incompatibilità a livello circondariale. Ma per il resto, va programmaticamente difeso l'attuale sistema. Perché è possibile assicurare ai cittadini un più elevato livello di garanzie solo se, come in Italia, giudici e magistrati del pubblico ministero partecipano allo stesso concorso per l'accesso alla professione, sono animati dalla stessa cultura della giurisdizione (frutto anche di medesimi programmi di formazione ed aggiornamento), realizzano una continua osmosi di esperienze professionali e godono delle stesse prerogative costituzionali di indipendenza ed autonomia.

9- L'efficienza del sistema: strutture, risorse, organici.

La sufficiente dotazione e la corretta amministrazione delle risorse del sistema giustizia non è argomento che riguarda la sola efficienza - in senso manageriale - del sistema (il che non sarebbe, peraltro, di per sé un obbiettivo marginale), ma riveste un'importanza decisiva sotto il profilo politico ed istituzionale, al punto da essere una pre-condizione del corretto esercizio della giurisdizione. La velocità dei tempi delle decisioni, la loro esecuzione, l'organizzazione degli uffici giudiziari, il rapporto con gli utenti possono determinare o meno la fiducia della collettività : non un tema - dunque - da apprendisti manager, ma centrale per la legittimazione democratica del sistema stesso. Si spiega così che le previsioni della competenza in materia trovino posto nella Costituzione: "Ferme le competenze del CSM, spettano al Ministro della Giustizia l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia" (art. 110). Ma l'attuale Ministro, pur così sollecito nel richiedere "pareri pro veritate" sulla interpretazione delle leggi a consulenti esterni alla sua amministrazione e così straordinariamente capace nel suscitare un clima di permanente conflittualità con la magistratura, poco o nulla ha fatto in materia; anzi, il 18.12.2002, recatosi in visita al Consiglio Superiore della Magistratura per un incontro sui problemi organizzativi della giustizia, ha dichiarato che il primo problema da risolvere è per lui quello di un nuovo equilibrio tra politica e magistratura e di una complessiva riforma dell'ordinamento giudiziario, cui ha espressamente condizionato ogni intervento in materia organizzativa. Ha anche precisato che non avrebbe richiesto alcun investimento per un'azienda che non funziona e che, nonostante la carenza di personale e la legge sull'aumento dell'organico varata nel marzo del 2001, non avrebbe dato corso all'assunzione di altri magistrati, né avrebbe preso provvedimenti per la copertura del ruolo degli amministrativi (le cui drammatiche carenze sono state denunciate dai responsabili delle associazioni di categoria e da molti uffici giudiziari italiani) e degli ufficiali giudiziari. I magistrati italiani, dunque, continueranno ad operare in una situazione generale in cui mancano assistenti e idonee strutture; la riforma ordinamentale - peraltro costruita con finalità punitive -piuttosto che quella strutturale e dei servizi, rimane ancora l'obiettivo principale del Governo : un discorso, quello del Ministro, che ha avuto quasi il sapore della provocazione nei confronti di un CSM che pure si era avvicinato all'incontro in un clima di collaborazione istituzionale, denunciando "la mancanza - negli uffici - di carta per le fotocopie e benzina per le auto". Eccola, dunque, la vera priorità da mettere in campo ed attorno alle quali schierarsi: esattamente ciò che questo Governo non ha inteso fare. Occorre dar vita, cioè, prima di ogni altro passo, alla "campagna" per le strutture, l'organizzazione, le risorse materiali, la tecnologia, la razionale distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio; una campagna che dovrà essere sostenuta da investimenti finanziari (altro che il verbo delle "riforme a costo zero" del Ministro Diliberto!) vantaggiosi per i cittadini già nel medio periodo e che si rivelerà capace di spazzare la falsa rappresentazione di una giustizia inefficiente per le colpe dei magistrati.

10- Le riforme ordinamentali realmente utili.

E' innegabile, comunque, che siano necessarie anche alcune riforme ordinamentali (di quelle processuali penali già s'è detto), ma poco o nulla di utile e razionale si ritrova nei progetti del governo, peraltro mutevoli a scadenze ravvicinate, a seconda del succedersi di sentenze sgradite o degli umori dei leaders che vi si cimentano: non lo svuotamento delle prerogative del CSM e l'attribuzione di maggiori poteri al Ministro ed alla Corte di Cassazione (anche in tema di formazione professionale); non l'avvio della separazione delle carriere e la previsione di una griglia infinita e mortificante di concorsi per il tramutamento di funzioni e la progressione in carriera; non l'esaltazione della carriera formale che così gravi danni ha arrecato alla giurisdizione ed il conformismo giurisprudenziale; non il progetto preoccupante di gerarchizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero né il divieto di permanenza "presso lo stesso ufficio nello stesso incarico" per oltre dieci anni (che determinerebbe una obbligatoria migrazione, periodica e di massa, di migliaia di magistrati, obbligati a cambiare mestiere, con evidente sacrificio delle professionalità acquisite e delle esigenze di specializzazione, rapidità e prevedibilità delle decisioni giudiziarie imposte anche dall'estendersi della tutela giurisdizionale dei diritti nel contesto europeo), non, infine, le già ricordate regole per la interpretazione delle leggi, né i ridicoli ed anticostituzionali divieti per i magistrati di partecipare a qualsiasi manifestazione o ad associazione diverse da quelle con scopi sportivi, ricreativi, solidaristici e scientifici (sarebbe proibita, per tale via, la stessa possibilità di partecipazione alle attività dell'ANM o ad un dibattito scientifico comportante critiche alla politica giudiziaria di un qualsiasi governo !).

La difesa dell'indipendenza della giurisdizione, però, non può significare acritica difesa della situazione esistente, sicchè occorrono iniziative legislative mirate:

- la composizione numerica del CSM deve essere riportata a quella esistente prima della Legge di riforma 28.3.2002, n.44, essendosi quella attuale rivelata del tutto inadeguata ai crescenti compiti dell'autogoverno ed al loro rilievo istituzionale. Va rafforzata, inoltre, la funzione dei Consigli Giudiziari, anch'essi gravati da nuovi compiti (basti pensare a quelli derivanti dall'amministrazione della magistratura onoraria), ma non attraverso la previsione della presenza di componenti laici eletti da Consigli regionali, bensì, in una prospettiva di decentramento, affidando loro alcune competenze attualmente del CSM e coinvolgendo l'avvocatura e la rappresentanza della magistratura onoraria in attività organizzative e nella formazione professionale;

- a proposito di formazione, occorre riconoscere che oggi la stessa radice democratica della giurisdizione - essere tecnici riconosciuti del diritto - si deve collocare su un terreno di dibattito continuo, aperto, centrato anche su temi istituzionali e sociali con gli avvocati, l'accademia, la pubblica amministrazione. Essere giuristi vuol dire anche costruire una comune cultura del diritto e della giurisdizione: ecco perché occorre un deciso rilancio della specifica esperienza delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, il cui successo è oggi ostacolato sia dal diverso approccio, anche organizzativo, realizzatosi nelle Università italiane (troppo spesso condizionate da "logica proprietaria"), sia - soprattutto - dalle resistenze del mondo forense, inspiegabilmente orientato verso la gestione autonoma dei percorsi formativi dei futuri avvocati. Ed occorre, naturalmente, dare vita alla Scuola della Magistratura, strumento essenziale per il raggiungimento dell'obbiettivo primario di assicurare il livello medio di preparazione di ciascun magistrato; una scuola che deve essere in grado di fronteggiare le esigenze formative dei magistrati in tirocinio, quelle permanenti di aggiornamento professionale in genere e quelle particolari dei dirigenti;

- occorre intervenire sul tema delicatissimo ed ampio della valutazione della professionalità , per cui è disponibile il confortante esito delle riflessioni maturate da circa 15 anni in sede istituzionale. Proprio il CSM, lealmente collaborando con il Ministero della Giustizia, si è impegnato per la costituzione di una commissione paritetica che già nel luglio del 2002 ha definito i suoi studi finalizzati ad individuare i possibili parametri di valutazione della produttività dei magistrati, nonché i carichi di lavoro medio esigibili da ogni magistrato (che sono evidentemente differenti a seconda del "mestiere" svolto e della sede in cui si opera), ma il Ministro non ha ancora avviato la sperimentazione concordata, utile per anche indirizzare la tipologia della formazione professionale richiesta, le politiche di utilizzo e destinazione del personale, anche ad incarichi direttivi e semidirettivi e le necessarie valutazioni periodiche dell'operato dei dirigenti degli uffici (che, in caso di esito negativo, dovrebbero poter determinare la loro rimozione ad opera del CSM). In ogni caso è necessario pervenire alle cd. "verifiche periodiche di professionalità " (indipendenti dalla progressione economica), già proposte dal Ministro Flick nella scorsa legislatura, che non debbono avere come obbiettivo quello di giungere ad una graduatoria di bravura dei magistrati, che renderebbe la magistratura ancora attenta alla costruzione di titoli ed al conformismo giurisprudenziale, bensì quello di disporre di fonti di conoscenza, di elementi che possano essere indice di neghittosità , di negligenza, di incapacità a svolgere il proprio mestiere e la mancanza di attitudine a svolgere una diversa funzione o un incarico direttivo o semi-direttivo. Fonti di conoscenza che non possono che essere costituite dal "prodotto del lavoro del magistrato", da documentare anche con obbligatorie autorelazioni e da intendersi non soltanto come l'atto di esercizio della sua funzione, bensì e soprattutto come capacità complessiva di gestione del lavoro in un determinato ufficio;

- in considerazione dell'acquisita consapevolezza dell'importanza della magistratura onoraria (ormai numericamente imponente) occorre individuare processi organizzativi e formativi adeguati, in modo da rendere omogeneo e non improvvisato il suo apporto all'efficienza complessiva del servizio giustizia; un impegno che, non potendosi affidare solo alla normativa secondaria prodotta dal CSM attraverso le sue circolari, richiede scelte legislative ;

- è necessaria la tipizzazione degli illeciti disciplinari, tema in relazione al quale è inaccettabile il già ricordato ddl approvato dalla Commissione Giustizia del Senato il 25.9.02, fondato su una logica tutta interna alle necessità politiche dell'attuale maggioranza. Un discorso serio in materia disciplinare, piuttosto, può essere utilmente ripreso utilizzando come base di partenza proprio il progetto-Flick, all'epoca unanimente apprezzato;

- gli interventi sulla giustizia disciplinare, però, non possono non riguardare anche gli avvocati, non essendo ulteriormente tollerabile l'esercizio della funzione difensiva fondato su strategie meramente dilatorie (non consentite dal codice di rito) o, peggio, sulla sistematica diffamazione dei giudici e dei pubblici ministeri, che nulla hanno a che fare con l'esercizio del legittimo diritto di critica;

- occorre finalmente intervenire legislativamente per sancire, al pari di quanto avviene per i magistrati, l'assoluta incompatibilità tra l'esercizio della funzione parlamentare e quello della professione forense, non essendo corretto in democrazia che la prima, come abbondantemente si è visto in questa legislatura, venga utilizzata per la tutela - o per tentativi di tutela - degli interessi dei propri clienti, dando così luogo a vistosi conflitti di interesse .

11- La riforma del processo civile.

Anche nel settore del rito civile, pur se in misura minore che nel penale, occorrono strumenti per fronteggiare l'eccessiva durata dei processi che ha provocato, negli anni passati, una serie impressionante di giudizi e di conseguenti condanne a carico del nostro paese dinanzi alla corte di Strasburgo. Il problema, come per il penale, non può essere affrontato con un' ulteriore lievitazione del numero dei magistrati togati: oltre che difficilmente sostenibile dal punto di vista finanziario, non potrebbe che tradursi in una immediata dequalificazione professionale della magistratura medesima. Va innanzitutto perseguita, allora, la strada individuata con le riforme del 1990 e del giudice unico; esse sono in corso di perfezionamento con la proposta di legge approvata dalla Camera a luglio, che punta ad eliminare passaggi obbligati e a dare maggiore flessibilità al processo civile, che deve essere condotto da giudice e parti insieme, secondo il principio di collaborazione. Va decisamente contrastata, invece, la proposta Vaccarella, ancora ferma presso il Ministero di Giustizia, incentrata sul predominio esclusivo dell'avvocato in tutta la fase preparatoria e sulla applicabilità delle preclusioni (sull'esempio del nuovo rito societario). Un rito equilibrato non può avere nè troppi automatismi, nè essere affidato ai costumi interpretativi delle varie curie o del foro, giacchè le logiche deresponsabilizzanti e le lungaggini prenderebbero di nuovo il sopravvento. Del resto, al di là della diversa ampiezza che può assumere ogni intervento legislativo mirante a limitare l'intervento del giudice alle fasi decisorie, esso non appare convincente sia dal punto di vista meramente teorico, che dal punto di vista pratico della sua reale potenzialità acceleratoria dei tempi del processo: da un lato, il processo civile diventerebbe anch'esso un processo non in grado di assicurare eguale tutela ai cittadini; dall'altro, un'attività istruttoria che non preveda il coinvolgimento del giudice riduce i tempi dell'istruttoria medesima, ma non necessariamente quelli del processo, determinando un semplice spostamento temporale dell' "imbuto". Occorre impegnarsi, quindi, per preservare la centralità del ruolo del giudice nella raccolta delle prove e, pur trattandosi di obiettivo limitato, per il potenziamento degli strumenti contro le liti o le impugnazioni temerarie. L'effettività della giustizia civile, peraltro, non meno di quella penale, si persegue attraverso l'esecuzione delle sentenze; ecco perché vanno rafforzate le iniziative per migliorare i tempi della fase dell'esecuzione civile: a tal fine, andrebbero studiate e riprese le positive esperienze realizzate in alcune sedi giudiziarie, ad iniziativa dei giudici, fondate prevalentemente sull'uso intelligente e mirato degli strumenti informatici. I tempi sono anche maturi per porsi un problema non secondario, se - cioè - per alcuni tipi di sentenze (dunque, per alcune materie) possa essere prevista la motivazione a richiesta (in forma "lunga"), imponendo la forma "breve" quale forma ordinaria. Piuttosto, va contrastata la pericolosa tendenza all'erosione delle competenze del giudice civile in favore dei Tar, sia attraverso la legge 205 del 2000 che ha attribuito ai Tar ampia competenza su molte materie in sospetta violazione dell'art 103 Cost. (la Corte Costituzionale non ha ancora deciso i ricorsi pendenti), sia conferendo alle autorities sempre maggiori poteri. I provvedimenti di queste ultime sono peraltro ricorribili al Tar e in tal modo anche altre materie sensibili sono ormai sottratte al giudice ordinario. Con un'ulteriore conseguenza: che l'esatta interpretazione della legge (nomofilachia) non è più compito effettivo del giudice ordinario, perchè le sentenze del Consiglio di Stato non sono ricorribili per cassazione se non per motivi di giurisdizione.

Risultati più apprezzabili, infine, potrebbero venire da un ampliamento della competenza dei giudici onorari, considerando che la giustizia civile in Italia ha assicurato una rapida definizione dei processi solo nel periodo in cui oltre i due terzi delle controversie erano devolute ai giudici onorari. Ma questo, inevitabilmente, richiama la necessità di un'efficace attività di formazione della magistratura onoraria.

Va comunque affermato con forza che, anche per il settore civile, la garanzia della ragionevole durata del processo risiede, innanzitutto, nell'organizzazione giudiziaria :

i magistrati devono inoltre essere posti in condizione di poter riservare ogni energia per l'attività propriamente giurisdizionale, mediante la predisposizione di moduli organizzativi che li sollevino da compiti materiali o di cancelleria. Non è più differibile, dunque, l'attuazione del c.d. ufficio del giudice, la creazione di una struttura autonoma composta da personale qualificato in grado di coadiuvare il giudice anche nella ricerca di materiale giurisprudenziale, oltre che nella redazione di provvedimenti di non grande complessità o comunque seriali.

12- La riforma del diritto minorile.

Tra le riforme "di sistema" che sono all'orizzonte si colloca pure, nei programmi dell'attuale Go

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