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LEGALITA’, MAGISTRATURA, EMARGINAZIONE
Intervento di Mario Fresa magistrato addetto al massimario della corte di cassazione

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La realizzazione di una piena democrazia in un Paese civile passa attraverso un rafforzamento dei valori della legalità e della giustizia. Anni di magistratura mi hanno evidenziato, forse, l’aspetto peggiore della società civile: delitti, intrighi, complotti, liti anche tra le mura domestiche.
L’aumento a dismisura del contenzioso e dei processi sta a significare, evidentemente, che c’è un malessere nel Paese, una perdita del senso e del significato della Legalità.
Certo, noi magistrati, nello stretto esercizio delle nostre funzioni, non siamo decisivi per un ricupero di quei valori fondanti del vivere civile. Condanniamo, sanzioniamo, reprimiamo, ci attiriamo le ire delle parti soccombenti molto più di quanto possiamo essere apprezzati da chi abbia avuto ragione.
Ma noi magistrati siamo anche cittadini di questo Paese e, come tali, abbiamo il dovere, come ogni altro cittadino, di diffondere i valori fondamentali della legalità e della nostra Costituzione. Per varare le norme della Carta costituzionale e per affermarne i principi, molti dei nostri padri sono morti o hanno sacrificato quanto ad essi vi era di più caro. E sono principi di civiltà che tutti hanno il dovere di promulgare e difendere.

L’istinto primordiale di ciascuno di noi è sempre quello di vivere in un mondo privo di regole e di giudici che quelle regole puntualmente applichino. Ma l’assenza di regole provoca ineluttabilmente gli arbitri, i soprusi, la lesione dei diritti altrui. Ed allora una sola legge dominerebbe la società: la legge del più forte, del più potente, dei più prepotenti che annienterebbero i più onesti ed i più deboli. Ma i più deboli, in assenza di giudici, tenderebbero ad organizzarsi ed a farsi ragione da sé, per sovvertire questo stato di cose. Regnerebbe il caos.
Le leggi dunque sono una necessità, ma – affinché non rimangano scritte solo sulla carta e contribuiscano a rendere civile un Paese – è ugualmente necessario che vi sia qualcuno che le applichi, in modo rigoroso e imparziale, come il giudice di Berlino, che in tempi di assolutismo monarchico, seppe dar ragione al mugnaio che subiva le prepotenze del re di Prussia.

La celebre frase “ci sarà ancora un giudice a Berlino” simboleggia il principio di uguaglianza dei cittadini, sintetizzato nell’art. 3 della Costituzione.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

L’art. 3 consta di due paragrafi ben distinti che, secondo i giuristi, tradizionalmente riportano alla distinzione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale. Il primo si limita a proclamare un principio, sacrosanto si, ma tendenziale.
Pensiamo alla distinzione dei sessi ed alle progressive conquiste delle donne negli anni. Nel ’48 le donne non potevano accedere, ad esempio, alla professione di magistrato; vi sono entrate a partire dagli anni ‘60 ed ancora oggi vi sono pochissime donne magistrato ai vertici degli uffici giudiziari. Sempre a proposito della distinzione tra i sessi, vi è tutta una legislazione a tutela della lavoratrice madre, che tende a limitare le disuguaglianze tra i sessi sul luogo di lavoro.
Pensiamo alle razze ed alle leggi in materia di immigrazione (è oggi di grande attualità, per esempio, la tematica relativa alla concessione del diritto di voto agli immigrati).
Pensiamo alle religioni ed ai diversi interventi dello Stato verso una laicità di approccio alle tematiche religiose (ha sicuramente fatto discutere l’intervento giudiziario di qualche anno fa recante l’ordine di rimozione del crocifisso nella scuola di Ofena, vicino L’Aquila).
E così via.
E’ quindi con il secondo paragrafo dell’art. 3 che lo Stato si impegna ad assicurare effettività al principio di eguaglianza, che non è ancora pienamente attuato nel nostro Paese. Esso è però un obiettivo primario, per la realizzazione del quale tutti dobbiamo impegnarci.

Certo, un Paese civile ha bisogno di leggi, ha bisogno di giudici che le applichino in maniera imparziale, ma ha bisogno pure che tutti rispondano allo stesso modo dinanzi alla legge. E ciò è compito, sicuramente, del giudice, che deve trattare allo stesso modo chi gli compare dinanzi nelle aule di tribunale per essere giudicato. Allo stesso modo, tanto che sia un lavavetri extracomunitario, tanto che sia un potente imprenditore. La giurisdizione, la magistratura sono qui per questo: per assicurare a tutti e, in particolar modo agli emarginati, la tutela dei loro diritti e per impedirne la violazione ai potenti, ai prepotenti, agli arroganti a coloro i quali ritengono, a torto, di essere legibus soluti (svincolati dal rispetto delle leggi).
Ma la tutela dei poveri e degli emarginati è anche compito primario del Parlamento, che deve porre tutti i cittadini nella condizione di essere trattati in modo uguale, senza distinzione, appunto, “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Ed è compito, infine, del Governo attuare in concreto le leggi che il Parlamento vara, proprio al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono l’effettiva uguaglianza tra gli uomini.
Su questa ripartizione tra i poteri dello Stato si regge la democrazia di ogni ordinamento moderno e democratico. Poteri che si bilanciano reciprocamente e si garantiscono a vicenda, realizzando un sistema di pesi e contrappesi finalizzato ad evitare che uno di essi prenda pericolosamente il sopravvento sull’altro.
La tripartizione dei poteri dello Stato risale al filosofo illuminista francese Montesquieu (vissuto verso la fine del XVIII secolo), ma il principio di uguaglianza è una conquista delle democrazie di ogni tempo. Esso infatti si è affermato sin dai tempi antichi. Fin dall’antica Grecia, invero, il principio della ISONOMIA, che significa, appunto, “la legge è eguale per tutti” era considerato essenziale alla vita della democrazia della polis. E puntualmente, tale principio è entrato in crisi ogni qualvolta nella storia si sono affermate forme di Stato assolutistiche o dittatoriali.
Uno dei padri costituenti, Piero Calamandrei, grande giurista vissuto ai tempi del fascismo, era solito raccontare che nello studio di un avvocato di sua conoscenza, si vedeva appesa dietro la scrivania una tabella con una scritta: “non è”. Domande a quei tempi non se ne facevano, ma un cliente più coraggioso di altri ne chiese il significato e gli fu risposto: “si tratta di una errata corrige”; “nelle aule giudiziarie, laddove è scritto che la legge è uguale per tutti c’è un errore di stampa; bisogna leggere ‘non è’”.
La storia di questi cinquant’anni di democrazia possono tutti racchiudersi nel tentativo di trasformare quel “non è” in “è”. E nella difesa dei valori di libertà ed uguaglianza, accanto all’azione dimostrativa di tanti valorosi cittadini, che hanno faticosamente cercato di costruire nel Paese una cultura della legalità, decisivo è sempre stato il contributo della magistratura e di tanti eroici magistrati, che hanno sacrificato la propria vita per non far risorgere quell’errata corrige nelle aule dei tribunali, indagando sui fenomeni di terrorismo, mafia e criminalità in genere. Penso a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, ma penso anche a tanti altri magistrati meno noti, come ad esempio Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” morto in Sicilia nell’adempimento dei propri doveri, lasciato solo e senza scorta mentre si recava nei luoghi di lavoro, ove indagava su poteri malavitosi molto forti e conniventi con pezzi delle istituzioni. Cosa pensate che guidasse questi magistrati se non la coscienza di dover rendere effettivo il dettato costituzionale e rendere tutti eguali dinanzi alla legge, anche a costo di dover morire?
Essi hanno dato l’esempio per tutti, e non solo per i magistrati.

Paolo Borsellino diceva: “l’affermazione della legalità non deve essere una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale, morale … che coinvolga tutti, affinché tutti si abituino a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

In queste parole immortali vi è tutto il senso del vivere civile. Il rispetto delle leggi non dev’essere vissuto come una sorta di repressione, ma con la consapevolezza che esso è strumentale alla conquista di una vera democrazia, ove tutti siamo partecipi delle scelte politiche e sociali e dove tutti siamo consapevoli di dover dare il nostro contributo per il progredire della civiltà. Dove tutti possiamo essere posti nella condizione di migliorare la qualità della vita, senza più paure o insicurezze, allarmi o frustrazioni.

Per realizzare questo sono però necessarie alcune condizioni imprescindibili:

1) che i magistrati, ma anche gli avvocati ed ogni altro operatore della giustizia,, facciano fino in fondo il loro dovere, in un’ottica di collaborazione per il miglioramento delle Istituzioni e per assicurare a tutti i cittadini una tutela rapida e giusta dei loro diritti; e ciò anche facendo “autocritica” per come, a volte, sono andate le cose in passato. I magistrati devono sempre ricordare di essere sì servitori dello Stato, ma non burocrati e funzionari dello Stato; che dietro ogni pratica c’è una storia di difficoltà e sofferenza; che dalla loro decisione dipende un destino umano.

2) che la giurisdizione, e la magistratura che la esercita “in nome del popolo italiano”, siano rispettate da tutti, a cominciare da quei politici che rappresentano i cittadini esercitando il potere legislativo o esecutivo, perché, per tutelare i diritti in maniera rapida e giusta, bisogna essere forti e credibili. Una magistratura delegittimata è una magistratura non più in grado di garantire i diritti, soprattutto delle fasce di cittadini più deboli, poveri ed emarginati, che sono quelli incapaci di ricorrere a forme alternative e più onerose di tutela.

3) che la politica si riappropri delle sue prerogative più nobili, metta da parte gli slogan inutili e dannosi, metta da parte l’ottica del particolarismo e le crociate contro chi sta svolgendo soltanto il proprio dovere, dia più spazio ai contenuti ed agli interessi della collettività e si impegni in modo più credibile di quanto sinora abbia fatto per garantire a tutti dignità, rispetto, speranza di una vita migliore.



Mario Fresa
Massimario della Cassazione

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