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IL CODICE DI DISCIPLINA
di Gioacchino Natoli
convegno "La Magistratura tra l'applicazione del nuovo ordinamento giudiziario e le prospettive di modifica"
(Palermo, 20 giugno 2006)

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Sono numerosi i cambiamenti che la cd. riforma Castelli (d. lgs. 23.2.2006 n° 109, pubbl. in G.U. 21.3.2006 n° 67) ha introdotto in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati.
Si deve subito notare che fra i doveri da rispettare non vi è - stranamente - alcun riferimento alla necessità di attenersi al valore dell'indipendenza, che non è un privilegio del singolo ma un diritto ed una garanzia per il cittadino.
E si deve aggiungere che dal testo finale è scomparso l'utile riferimento ad una sorta di principio di offensività nell'illecito disciplinare, che pur era stato previsto nello schema di decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 28 ottobre 2005 (art. 2) sotto la rubrica "condotta disciplinarmente rilevante", quando la condotta stessa non incideva negativamente, nel concreto, sui beni giuridici tutelati.
Detto ciò, questa che segue appare essere, in sintesi, la topografia principale del decreto delegato n° 109:
1. sistema disciplinare ed incompatibilitÃ
2. superamento dell'art. 18 della legge sulle guarentigie
3. tipizzazione degli illeciti disciplinari
4. innovazioni sul versante sanzionatorio
5. innovazioni procedimentali
6. esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare per il Pg della Cassazione
7. trasferimenti d'ufficio a carattere sanzionatorio o amministrativo.

Ovviamente, non si potranno - per ragioni di tempo - esaminare tutte le delicate materie implicate. Si farà riferimento, di conseguenza, solo a due o tre aspetti di questa "riforma-contro", ritenuti da chi vi parla i più meritevoli di una pur modesta riflessione.

In ordine di importanza, appare opportuno partire dalla tipizzazione degli illeciti.
Invero, sarebbe meglio definirla "presunta", così come notato dai migliori commentatori, perché nel decreto legislativo figurano - peraltro in modo pedissequo rispetto al contenuto della delega - fattispecie disciplinari che, per il loro oggettivo contenuto o per la loro minacciosa indeterminatezza, sembrano contrastare con i diritti del cittadino-magistrato ovvero con le prerogative di una giurisdizione libera da timori e condizionamenti.

Orbene, la nuova disciplina prevede tre grandi categorie di illeciti.

La prima è costituita da quelli commessi "nell'esercizio delle funzioni" (art. 2).
In questo catalogo compare in esordio una statuizione che, per la sua assoluta genericità , sembra avvalorare la facile profezia di una sicura e straordinaria crescita di procedimenti disciplinari "obbligatori".
Si tratta della norma che qualifica come illeciti i comportamenti che arrechino "ingiusto danno" o "indebito vantaggio" ad una delle parti in violazione dei doveri di imparzialità , correttezza, diligenza, laboriosità , riserbo ed equilibrio, non rispettando la dignità della persona oppure ledendo la credibilità ed il prestigio del magistrato o dell'istituzione giudiziaria (art. 2.1.a).
A fronte della latitudine di questa disposizione, sembra arduo continuare a parlare di tipizzazione (sia pure tendenziale o elastica) delle nuove fattispecie di illecito disciplinare. L'incipit, infatti, appare assolvere ad una funzione del tutto opposta: codificare l'atipicità dell'illecito, foriera di una pletora di denunce disciplinari per condotte poste in essere nell'esercizio delle funzioni.
Come non immaginare, allora, che in questo contesto l'esposto disciplinare "per danno ingiusto o vantaggio indebito" possano divenire l'ultima risorsa di un imputato in difficoltà , in una strategia processuale tesa a condizionare il magistrato o il processo ? E inoltre, se ogni corretta tecnica legislativa non può fare a meno di "clausole finali o di chiusura" per delimitare o meglio chiarire le singole condotte specifiche, può ben dirsi che il legislatore delegato ha rovesciato tale prospettiva con una sorta di "clausola di apertura", che mostra un'indeterminatezza tale da vanificare la tanto declamata promessa di tipizzazione delle condotte illecite.
Nel lungo elenco, poi, di illeciti disciplinari funzionali (ben 29 tipologie riguardanti: l'imparzialità , la correttezza, la diligenza, il riserbo, i media, l'abnormità e gli errori inescusabili) compaiono previsioni di spinosa incertezza o di problematica applicazione, sulle quali non vi è qui tempo per commenti analitici.

Si intende fare riferimento-flash, allora, soltanto a tre situazioni.
La prima è quella dei rapporti con i media (art. 2, comma 1, lett. v, z, aa, bb), che sanzionano - in particolare - le dichiarazioni o le interviste riguardanti soggetti a qualsiasi titolo coinvolti in affari in trattazione, ovvero già trattati ma non ancora divenuti definitivi. Siccome la ipotesi della lett. z) eccettua soltanto l'attività del procuratore della Repubblica (o di un suo delegato), ciò sembra significare che le stesse (ormai diffuse) conferenze-stampa, che accompagnano le indagini preliminari più importanti, impingerebbero nel divieto.
Infatti, l'attività consentita al procuratore (o al suo delegato) nel decreto legislativo entrato in vigore ieri l'altro - concernente l'assetto delle procure - non può che essere quella finalizzata a ristabilire la correttezza dell'informazione nel caso in cui alla collettività venga offerta una errata rappresentazione della realtà giudiziaria, che può indurre preoccupazioni o esporre ad ingiusto pregiudizio mediatico un magistrato (è questo, invero, il senso delle note risoluzioni del Csm del 18.4.1990, del 19.5.1993 e dell'1.12.1994). Una diversa interpretazione della norma, tra l'altro, creerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra il dirigente (cui sarebbero permesse le informazioni sui procedimenti in corso) ed i suoi aggiunti e sostituti: il che sarebbe davvero troppo, pur in una procura improntata al modello del "dirigente assoluto" (per usare un'acuta espressione del presidente emerito Elia).

La seconda situazione è collegata all'omessa segnalazione - da parte del capo dell'ufficio o del presidente di sezione o di collegio - dei fatti a lui noti che possono costituire illecito, compiuti da magistrati dell'ufficio, della sezione o del collegio (art. 2.1.dd). Il termine "a lui noti", peraltro, è l'unico "contributo additivo" del legislatore delegato rispetto al contenuto della delega.
Ora non v'è dubbio che deve sempre essere assicurato un serio esercizio del potere di sorveglianza da parte dei dirigenti o dei loro collaboratori (ex artt. 14 e 15 L.G.). Ma l'incriminazione specifica di questa omessa segnalazione rischia, invece, di alimentare un clima di serie incertezze e di incrementare la corsa verso denunce disciplinari "difensive" o "tuzioristiche" dei capi, dimenticando che il compito principale di un dirigente e di un semi-direttivo dovrebbe essere - al contrario - proprio quello di realizzare armonia e positivo coinvolgimento dei colleghi.

La terza riguarda la altrettanto insoddisfacente soluzione data alla delicata questione di un possibile sindacato disciplinare sull'attività interpretativa (art. 2.2). Caduto, infatti, lo scoperto iniziale tentativo di usare l'arma disciplinare contro interpretazioni non condivise o sgradite (forse perché troppo grossolano e violento), sopravvive nel testo delegato una formulazione infelice, secondo la quale è esclusa ogni responsabilità nella "attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all'art. 12 delle pre-leggi". Tuttavia, il discrimine tra violazione ed interpretazione della legge incontra ex se non poche difficoltà , atteso che l'opinabilità delle opzioni interpretative - pur non potendo sfociare nella discrezionalità senza limiti - è carattere consustanziale della funzione giudiziaria stessa. Si intende dire, dunque, che essendo il concetto di violazione del tutto opposto a quello di interpretazione pur opinabile, dovrebbe parlarsi di violazione solo quando si tracima nell'area di ciò che è "indiscutibilmente" fuori dall'interpretazione. Ad ogni modo, sembrano restare irrisolti, però, molti interrogativi sull'interpretazione giuridica:
- quid est dell'interpretazione "evolutiva adeguatrice", che non è direttamente contemplata nell'art.12 ?
- e dell'interpretazione delle norme sull'interpretazione ?
- e sul significato da attribuire all'espressione "volontà della legge" ?
Il tutto con buona pace del mai dimenticato Giovanni Tarello.

Si è abbandonata, infatti, la strada piana della limitazione della sanzione ai soli casi di provvedimenti abnormi, e si è scelta quella scivolosa di trasformare tutte le complesse e dibattute questioni interpretative in altrettante occasioni di controllo disciplinare. In questa triste temperie, il "giudice senza timori e senza speranze", vagheggiato dalle moderne democrazie liberali, sembra destinato a cedere il campo ad un preoccupato "giudice-funzionario" di stampo napoleonico, costantemente oppresso da preoccupazioni disciplinari anche quando veste i panni tecnici dell'interprete.

Passiamo ora alla seconda categoria: quella degli illeciti "extra-funzionali" (art. 3).
Tra queste ipotesi il legislatore delegato ha ribaltato il consolidato approdo di una complessa quérelle, famosa negli anni Sessanta e Settanta. Ovvero, la questione della legittimità delle critiche ai procedimenti in corso, provenienti dall'interno della stessa magistratura.
La soluzione prospettata sembra particolarmente ambigua.
Si prevede di punire, infatti, "la pubblica manifestazione di consenso o di dissenso in ordine ad un procedimento in corso quando - per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso - sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo" (art. 3.1.f).
Se si tiene presente che già un'altra norma (art. 2.1.e) sanziona "l'ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato", non sussistono dubbi sul fatto che questa nuova fattispecie può riguardare solo le critiche (o i consensi) di carattere giuridico e culturale, giacché in caso contrario si tratterebbe di una inutile ripetizione. Dunque, seguendo l'incerta logica di questa norma incriminatrice, sfuggirebbero alla sanzione, da un lato, i commenti più morbidi ed edulcorati; dall'altro, quelli del magistrato che "non conta nulla" (cioè appartenente ad una specie di "serie B o C", di stampo simil-razziale).
Saranno sempre sanzionati, invece, sia i commenti più forti e radicali sia quelli, pur morbidi ed edulcorati, espressi da magistrati che - per la posizione rivestita - vengono ritenuti dal legislatore espressione di una sorta di "serie A" dell'ordine giudiziario ! L'uso di un termine anodino come "posizione" si presta, infatti, ad interpretazioni ambigue, le quali non escludono in radice la possibilità di considerare i magistrati come divisi in classi gerarchiche ovvero in categorie culturali differenti.
L'inclusione o meno del soggetto nella vietata "posizione di condizionamento" potrà dipendere, invero, da una inammissibile valutazione ad personam. Una sanzione riconducibile quindi al cd. "tipo di autore", che appare inaccettabile oltre che espressione di una (da tempo) ripudiata dottrina penalistica tedesca degli anni Trenta.

A suscitare le maggiori perplessità , tuttavia, sono le tre fattispecie che concludono questo elenco di altre 10 condotte illecite.
Orbene, se il divieto di iscrizione a partiti politici è sacrosanta alla luce del dettato costituzionale (art. 98), il decreto legislativo prevede invece sanzioni anche nei confronti di ogni forma di "coinvolgimento nelle attività di centri politici … che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque appannare l'immagine del magistrato" (art. 3.1.h). E' certamente disinvolta - sul piano del rigore e della precisione tecnico-linguistica - la locuzione "centri politici", che risulta poco chiara e sarà fonte di perplessità non appena ci si allontani dalla nozione (pacifica) di partito politico.
Ma è ancor più vago, e causa di sicuri problemi, il termine "coinvolgimento". Esso, infatti, fa riferimento ad una categoria generica, che può svariare dalla semplice partecipazione convegnistica ad un interessamento - di qualsiasi livello - all'attività di un "centro politico".
Il risultato certo, però, sarà che una ipotesi di incolpazione di questo stampo potrà avere l'effetto di recidere ogni forma attiva di partecipazione dei magistrati alla vita della comunità , di cui pure essi sono membri.
Ad esempio, la presenza/partecipazione alle manifestazioni dei "comitati in difesa della Costituzione" cosa integrerà ?
E' esercizio di una facoltà connessa al diritto costituzionale di partecipazione popolare al processo di formazione delle leggi, oppure sarà da considerare coinvolgimento in "centri politici" ?
Ma la forza deterrente della norma giunge al culmine nella disposizione che qualifica come illecito disciplinare "ogni altro comportamento tale da compromettere l'indipendenza, la terzietà e l'imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell'apparenza" (art. 3.1.l). Orbene, da voci autorevoli - come quelle di Presidenti amati quali Pertini, Scalfaro e Ciampi - abbiamo imparato che il magistrato deve apparire (oltre che essere) imparziale.
Da questo alto insegnamento abbiamo tratto, da tempo, due corollari: il primo è quello per cui ogni magistrato deve essere il miglior custode della propria imparzialità ; l'altro è che la legge può - ove lo ritenga - vietare determinati comportamenti che potrebbero farlo apparire parziale, oppure non sufficientemente imparziali.
Qui, però, la nuova norma annulla i confini tra le due sfere e - in luogo di determinare specifiche previsioni inibitorie di condotte inopportune - sembra legittimare un vero e proprio "diritto disciplinare dell'apparenza", che è sganciato da ogni riflesso di carattere concreto ed effettuale.

Sulla terza ed ultima categoria - quella degli "illeciti disciplinari conseguenti a reato" (art. 4) - non vi sono aspetti meritevoli di particolare commento, se non la clausola di chiusura secondo cui costituisce illecito qualunque fatto di reato idoneo a ledere l'immagine del magistrato.
Ancora una volta si è fatto ricorso ad una categoria generica, peraltro modificando in pejus il contenuto della legge-delega, che parlava più propriamente di fatti idonei a compromettere la credibilità del magistrato.
Passando ad una seconda notazione dell'odierna riflessione, pur in considerazione del poco tempo a disposizione, bisognerà dire qualcosa sull'obbligatorietà dell'azione disciplinare per il Pg della Cassazione (art. 14.3).
Mentre il ministro della giustizia continuerà , infatti, ad avere la "facoltà di esercitare" l'azione disciplinare (come previsto all'art. 107 Cost.), il Pg avrà invece l'obbligo di attivarsi sempre per esercitarla, inviandone comunicazione al Csm ed al ministro, il quale ultimo potrà estenderla anche ad altri fatti.
Tale nuovo assetto - da un lato - trasformerà (nel giro di alcune settimane) quasi tutti gli attuali esposti pendenti al Csm in altrettanti procedimenti per i quali il Pg dovrà obbligatoriamente attivarsi (con ricadute organizzative facilmente intuibili sul blocco dell'attività della sezione disciplinare del Consiglio, onerata di una pendenza mai conosciuta nei decenni precedenti); dall'altro, farà pagare ai magistrati un prezzo molto alto.
Infatti, in futuro, qualunque segnalazione di carattere disciplinare che sia rivolta al Pg (o di cui egli venga a conoscenza) comporterà il deferimento dinanzi alla sezione disciplinare, con tutti i rischi e le implicazioni, non solo psicologiche, che ne potranno discendere per l'indipendenza dell'incolpato e per l'offuscamento della sua immagine.

Terza ed ultima riflessione - avente una notevole rilevanza anche sotto l'aspetto quantitativo - è quella connessa ai trasferimenti d'ufficio, a carattere amministrativo, ex art. 2 L. G. (art. 26.1).
Va subito detto che la riforma lascia in vita questa forma di trasferimento; ma non si può non notare che appare strana la qualificazione di esso come amministrativo, laddove la giurisprudenza di Tar e Cds ha ormai da alcuni decenni ritenuto che la sua natura giuridica sia "para-giurisdizionale" per le ovvie garanzie di difesa connesse al fatto che si tratta di trasferimenti che incidono sul principio costituzionale di inamovibilità (art. 107, c.1, Cost.).
A parte ciò, comunque, il decreto delegato dispone oggi che i magistrati possono, senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o ad altre funzioni "quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa, non possono - nella sede occupata - svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità ".
Si è sostituito, intanto, il concetto di "prestigio dell'ordine giudiziario" con quello di "svolgimento delle funzioni con piena indipendenza ed imparzialità ". Il che non è esattamente la stessa cosa e darà luogo a qualche problema interpretativo nuovo. Ma ciò che appare maggiormente rilevante, da subito, è il fatto che il comma 2 dell'art. 26 prevede che, dal momento dell'entrata in vigore del d. lgs. (cioè da ieri), gli atti pendenti presso il Csm ai sensi dell'art. 2 L.G. devono essere immediatamente trasmessi al Pg della Cassazione per le sue determinazioni in ordine all'azione disciplinare.
Anche questo aspetto (come quello relativo agli esposti) inciderà pesantemente sotto il profilo dell'intasamento dei ruoli presso la Procura generale della Suprema Corte, in relazione all'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare che dovrà essere inevitabilmente attivata, e che - a cascata - si riverserà subito dopo sulla sezione disciplinare del Consiglio.
Quest'ultima, secondo un noto studio compiuto dall'ANM, ha avuto negli anni una media di smaltimento dei processi pari a non più di 140 sentenze annue.
A seguito della trasformazione degli esposti in procedimenti disciplinari nonché delle procedure ex art. 2 in altrettanti procedimenti della stessa specie, è sicuro che si riverseranno nei prossimi mesi presso la sezione disciplinare - in quasi contemporaneità - almeno 1000 nuovi procedimenti.
I tempi di smaltimento di tali procedure sono facilmente preventivabili (occorreranno anni), e ciò renderà irragionevole la durata anche di tali processi, che invece marciavano in modo accettabile.
Non va trascurato, poi, che il tempo che la sezione disciplinare del Consiglio avrà a disposizione per decidere è stato seccamente dimezzato (da due anni ad uno), con la conseguenza che gran parte di tutto questo immane lavoro istruttorio sarà quasi certamente inutile perché non potrà essere definito entro l'anno dalla richiesta del giudizio (art. 15.2).

Alla luce di tutto ciò, in conclusione, non deve sembrare esagerata l'affermazione che il codice disciplinare e l'assetto del procedimento delineati dal decreto delegato avranno di certo - come effetto oggettivo - quello di precipitare ciascun magistrato in un'atmosfera di incertezze e di timori, capaci di condizionarne ogni fase della vita professionale e di rallentarne la produttività e la motivazione, in ragione delle temute conseguenze negative di ogni suo atto o scelta.

Grazie per l'attenzione.

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