AVVOCATO PARLAMENTARE / 2
La campagna elettorale in corso è occasione opportuna per proporre due riflessioni sul tema dell'AVVOCATO PARLAMENTARE.
Pubblichiamo le 'due voci' che sulle relative problematiche sono inserite nella nostra rivista Giustizia Insieme, del cons. Carlo Citterio e dell'avv. Valerio Spigarelli
GLI AVVOCATI PARLAMENTARI/
(Avv. VALERIO SPIGARELLI)
Torna d’attualità il tema della compatibilità tra l’attività professionale forense e l’attività parlamentare che ha tenuto banco sui media all’inizio dell’estate così come era già avvenuto in primavera a seguito della presentazione di un disegno di legge da parte dell’Onorevole Di Pietro. Il tema è sempre quello che era già stato in altre occasioni sollevato: la sovrapposizione degli interessi professionali degli avvocati rispetto alla produzione legislativa, nel caso in cui vengano eletti in Parlamento, permetterebbe loro di proporre e far approvare leggi giustificate (solo?) dagli interessi professionali contingenti che li muovono. Assai più banalmente, o se si vuole con maggior crudezza, alcuni (o tutti?) gli avvocati eletti nelle assemblee legislative strumentalizzerebbero la loro attività parlamentare per la tutela degli interessi dei clienti che difendono perseguendo, e se del caso realizzando, per via legislativa, quelli che per via giudiziaria, o comunque latu sensu professionale, sono i loro peculiari obiettivi. Una versione ancor più cruda vuole che questo tipo di attività sia finalizzata ad ottenere, da sedicenti legislatori, quel che in tribunale, da avvocati, non riuscirebbero ad ottenere. In definitiva la categoria professionale degli avvocati, in quanto geneticamente portatrice di interessi particolari, si dimostrerebbe priva della vocazione al naturale fine dell’attività legislativa, che dovrebbe essere quello di realizzare il bene comune, e dunque, allo scopo di eliminare il fenomeno, occorrerebbe impedire lo svolgimento dell’attività professionale nel corso del mandato parlamentare. Va sottolineato che, pur senza sposare tutte queste considerazioni, la proposta di introdurre l’incompatibilita' e' stata sollecitata anche da esponenti dell' avvocatura, e dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Torino
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Come è ampiamente noto, il dibattito viene alimentato dalle polemiche politiche e parlamentari che vedono la “questione giustizia”, ormai da almeno tre lustri, dominata dalle vicende giudiziarie dell’attuale presidente del Consiglio. In particolare la lettura di ogni proposta legislativa sui temi del diritto e del processo penale in funzione della sua ricaduta su questo o quel processo che vede coinvolto - direttamente o indirettamente - l’Onorevole Berlusconi ha dato luogo alla individuazione delle così dette leggi ad personam. Questi provvedimenti sarebbero approntate da un “drappello di avvocati parlamentari” (così ormai identificato dalle maggiori testate nazionali) che opererebbero in Parlamento al precipuo scopo di produrre provvedimenti idonei a risolvere i diversi procedimenti che vedono coinvolto il leader. Va detto, ad onor del vero, che mentre l’accusa in passato veniva contestata con puntuali indicazioni dei motivi di necessità generale dei progetti di legge in discussione, negli ultimi tempi è capitato di sentir rivendicare questa “particolarità” persino da qualcuno dei proponenti che ha ribaltato la questione e sostenendone la legittimità come risposta ad un accanimento, parimenti ad personam, che una parte della magistratura inquirente dimostrerebbe nei confronti dello stesso Berlusconi. Senza entrare nel merito di questa ultima questione su di un dato si può richiamare l’attenzione: fatta eccezione per la legge che ha accorciato i termini della prescrizione per taluni reati (allungandola a dismisura per molti altri e soprattutto per alcune categorie di imputati, ndr) il più gran numero delle leggi in discorso sono risultate inidonee allo scopo, o perché cadute sotto la scure della Corte Costituzionale o perché interpretate dalla giurisprudenza in maniera contraria all’intenzione dei proponenti. Di tal che, a giudicare dagli effetti e certo non per le intenzioni, l’importanza del fenomeno, sarebbe assai più circoscritta di quanto il suo indubbio rilievo politico pretenda. Ciò senza contare quelle norme che sono state incluse nella categoria ma tutto sommato hanno avuto genesi, e soprattutto iniziale paternità, ben diverse (qui il riferimento è alla riforma dei reati societari) poiché frutto di una iniziativa parlamentare non ascrivibile ad un singolo schieramento. Peraltro, senza voler minimizzare la vicenda, nell’ultima legislatura sono state lette come leggi ad personam anche proposte la cui ricaduta nei processi che riguardano il Premier erano del tutto fisiologiche e l’argomento è stato apertamente strumentalizzato da chi tali proposte avversava. Insomma, attesa la veste di indagato o di imputato di Berlusconi in diversi procedimenti, ogni proposta che incide negli equilibri del processo viene inquadrata nella categoria. Tanto premesso, sul tema personalità delle iniziative parlamentari, anzi proprio sulla categoria delle leggi ad personam, tornerò a breve prendendolo in considerazione proprio sotto l’aspetto che più da vicino interessa e coinvolge la sovrapposizione di piani tra l’attività professionale e quella parlamentare, ma se esso è il più “scabroso” nell’attuale agenda non è certamente né l’unico né il più significativo tra quelli su cui si fonda la proposta incompatibilità
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La questione della compatibilità tra la prosecuzione dell’attività professionale degli avvocati ed il mandato parlamentare, che come vedremo ha in realtà radici antiche anche se fondate in ben diverso humus culturale e politico, negli ultimissimi tempi si è infatti intrecciata in primo luogo con una differente e assai più generale disputa riguardante il condizionamento che le diverse categorie professionali operano all’interno del parlamento in veste schiettamente lobbistica. La presenza, o per meglio dire la supposta massiccia presenza, di rappresentati della categoria forense viene stigmatizzata da alcuni come fattore di condizionamento della attività legislativa in funzione del mantenimento di privilegi stavolta non più legati alle singole vicende professionali bensì a quelli della stessa categoria forense. In questa visione la sottocasta degli avvocati, rivolo più ridotto ma ben consistente del più vasto fiume della Casta politica, si opporrebbe a qualsiasi cambiamento (recte alla modernizzazione e liberalizzazione) della professione forense, come pure i recenti fatti di luglio dimostrerebbero, e dunque anche per via (per così dire) generale ed astratta meriterebbe una qualche forma di ridimensionamento. Sotto questo profilo, poiché l’attività parlamentare sarebbe meno conveniente dal punto di vista economico rispetto a quella professionale, l’eventuale incompatibilità tra il mandato parlamentare e l’attività libero professionale viene identificata come un deterrente idoneo a comprimere la presenza nelle assemblee legislative della categoria. Impedire il cumulo tra l’indennità parlamentare e i redditi professionali dovrebbe spingere i candidati avvocati a scegliere quella che è la attività che assicura il miglior vantaggio economico e quindi finirebbe per allontanare dagli scranni parlamentari molti rappresentanti della categoria forense riducendone in tal guisa il potere di condizionamento della funzione legislativa. Anche se l’argomento non viene invocato da tutti coloro che sostengono l’introduzione della incompatibilità, una ulteriore ragione che militerebbe a favore della incompatibilità viene poi individuata nella scarsa presenza e produttività di taluni parlamentari avvocati, la cui causa primaria risiederebbe nel prevalente se non esclusivo svolgimento parallelo dell’attività professionale nei giorni e nelle ore che dovrebbero essere destinati alla presenza in parlamento. Altro profilo, non del tutto sovrapponibile ma comunque interno alla questione è poi quello che riguarda l’incompatibilità tra incarichi di governo e attività professionale, soprattutto con riguardo alla assunzione del mandato in situazioni che vedano contrapposto lo Stato. Infine, a tutti queste argomenti si aggiunge, non senza qualche forzatura, che l’incompatibilità in esame sarebbe prevista negli ordinamenti di molti altri paesi democratici
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Dopo aver illustrato i termini del problema, spero senza poter essere accusato di reticenza corporativa, e prima di esporre le motivazioni che sorreggono la mia conclusione, ritengo utile anticiparla: le opinioni di coloro che vorrebbero introdurre una previsione di incompatibilità assoluta tra attività professionale e mandato parlamentare non mi appaiono affatto convincenti; esse sono fondate su di una lettura totalizzante dell’attuale contingenza, prescindono dalla realtà sociale dell’avvocatura come delle altre categorie professionali che siedono in parlamento, finiscono per cagionare un vulnus maggiore di quello che attualmente atteggiamenti certamente patologici dal punto di vista deontologico già cagionano. Peraltro, come già avvenuto in altre recenti stagioni (il riferimento è all’istituto della immunità parlamentare), riforme che incidono sull’architettura e sul funzionamento degli organi legislativi, e che finiscono per ripercuotersi anche sugli equilibri reali tra i diversi poteri dello Stato, non possono essere proposte sulla scorta di ondate emozionali, sovente moralisticche o farisaicamente pronte ad ignorare la complessità del reale, correndo il concreto rischio di perseguire soluzioni più dannose del male che vorrebbero impedire. Di seguito tenterò di spiegare questa mia convinzione senza enfatizzare, tra gli argomenti, quello che da un punto di vista – se vogliamo – “sentimentale” mi verrebbe da spendere in prima battuta circa il fatto che nel nostro parlamento hanno consumato le loro migliori energie molti avvocati che sono riusciti a cumulare entrambe alle attività con rigore e dignità. Parlamentari che hanno messo a frutto le loro competenze ed hanno posto la loro firma in calce a leggi che hanno innalzato il livello della civiltà giuridica e le condizioni di vita del popolo italiano non solo con capacità ma anche con una reattività che nasceva proprio dal loro essere, ad un tempo, esponenti politici ed anche professionisti della legge quotidianamente immersi nella realtà. Innumerevoli sono gli esempi di avvocati/parlamentari che hanno svolto un ruolo essenziale e del tutto disinteressato. Loris Fortuna era un avvocato civilista, tanto per fare un nome quasi dimenticato, a chi mai sarebbe venuto in mente di accusarlo di strumentalizzare la sua posizione proponendo l’introduzione del divorzio per risolvere le vicende giuridiche dei suoi clienti? Chi mai avrebbe mosso la stessa accusa a Franco De Cataldo, avvocato penalista militante e parlamentare agguerrito a tutela del diritto di difesa? Quanto avrebbe perso la società italiana nel suo complesso se a persone di tal genere fosse stato, di fatto, impedito di svolgere, come magnificamente fecero, entrambi i ruoli. E sono solo due esempi ma altri, anche più prestigiosi, potrebbero aggiungersi in un elenco davvero lungo che forse basta esemplificare facendo il nome di Giovanni Leone.
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Come più sopra accennato il generale tema della incompatibilità tra la professione forense e il mandato parlamentare non è nuovo, esso venne introdotto nel corso dei lavori della Costituente da un intervento di Piero Calamandrei, nel corso della discussione in seno alla seconda sottocommissione nella seduta del 20 settembre 1946 in cui si dibatteva dell’inserimento in Costituzione del principio, poi accolto dall’art. 69, secondo il quale i membri del Parlamento “ricevono una indennità stabilita dalla legge”. Intervenendo al riguardo, sia Calamandrei, in accordo con il relatore Conti, si domandò se non fosse il caso di “stabilire il criterio che l'indennità debba essere data in quanto la condizione economica dei deputati la renda necessaria, e ciò soprattutto considerando il ragguardevole numero di avvocati che fanno parte di tutti i Parlamenti del mondo. Risulta dai rilievi fatti altra volta dall'onorevole Nobile che all'Assemblea Costituente ve ne sono 157. Ciò dipende certamente dal fatto che essi, come giuristi, hanno attitudine a ragionare sulle leggi e sono quindi i più idonei a far parte del corpo legiferante; ma non bisogna dimenticare che in passato si riteneva che per un avvocato diventare deputato fosse un modo per aumentare il prestigio professionale, la clientela e quindi i guadagni. Si domanda allora se sia giusto dare a costoro anche il vantaggio dell'indennità parlamentare, o se invece non si debba inibire agli avvocati deputati l'esercizio dell'attività professionale durante il tempo in cui fanno parte del Parlamento.” La discussione proseguì anche con interventi di Leone, Lussu, Terracini, Mortati (tutti avvocati) e sostanzialmente si appuntò sulla eventuale rinunciabilità, o esclusione, della indennità per gli avvocati in quanto già fruitori di un reddito professionale che garantisce l’indipendenza economica e la dignità della funzione, ovvero sulla necessità che ogni membro del parlamento dedicasse il massimo del suo tempo all’attività parlamentare comprimendo quella professionale, e da ultimo sulla esigenza che gli avvocati non sfruttassero la carica a fini di accaparramento della clientela. Nessun cenno venne fatto in quella sede, e c’è da chiedersi perché, alla questione che tanto appassiona negli ultimi tempi circa la “strumentalizzazione” dell’incarico da parte degli avvocati-parlamentari al fine di risolvere singole vicende loro affidate in sede professionale. Come è noto la formula poi adottata dalla carta costituzionale rimandò alla legge ordinaria l’individuazione delle cause di incompatibilità. Nella legge in questione il tema non venne accolto e le ipotesi di incompatibilità che furono introdotte ebbero riguardo, essenzialmente, alla sovrapposizione tra incarichi elettivi, o all’intreccio tra mandato parlamentare e posizioni di vertice all’interno di apparati statali o enti economici statali, ovvero alla “confusione” tra il potere legislativo, quello giudiziario, o l’amministrazione. Nessuna incompatibilità venne invece individuata tra il mandato parlamentare e lo svolgimento di attività libero professionali. Parallelamente altre leggi successivamente entrate in vigore si occuparono di “garantire” le condizioni di accesso di quei parlamentari che, provenendo dalla amministrazione, videro tutelate le loro aspettative di rientro al termine del mandato, ed anche la loro progressione in carriera. A tutti i parlamentari venne invece accordato una indennità finale idonea a compensare le difficoltà di ricollocazione nel mondo del lavoro. Ancora una volta della possibile strumentalizzazione - ad personam o ad processum - dell’attività parlamentare nessuna traccia (fino ai disegni di legge presentati nella scorsa e nella attuale legislatura), mentre quello dell’assenteismo di tutti i parlamentari senza distinzioni, è riemerso ciclicamente nel dibattito tanto ai tempi della “prima” che della “seconda” Repubblica. Viceversa venne discussa una specifica causa di incompatibilità non con l’attività legislativa ma con quella di governo, ciò anche sulla scorta di alcuni episodi che videro taluni sottosegretari avvocati non solo patrocinare cause in cui emergeva un patente contrasto tra la carica istituzionale e quella professionale, manche in ragione della materia trattata.
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Tutto ciò premesso vorrei sgomberare il campo da alcuni argomenti, tra quelli richiamati, che mi appaiono assai poco convincenti ai fini della soluzione che viene proposta. Al riguardo va sottolineato che, come risulta dalle statistiche parlamentari, la presenza degli avvocati in parlamento, intanto, è in flessione rispetto al passato. Ciò posto non appare affatto convincente l’introduzione della incompatibilità al fine di ridurre né l’influenza generica (il lobbismo direbbero alcuni) della categoria degli avvocati né il loro preteso assenteismo. Quanto al primo aspetto la profilassi appare draconiana quanto scarsamente aderenti alla realtà le ragioni che la sostengono. Se una lamentela ha afflitto nel corso del tempo la categoria degli avvocati, al suo interno, questa è stata proprio la sua incapacità di rappresentare in sede politica e legislativa una voce unitaria. La prova del nove di questa banale evidenza è data dal fatto che ad oltre sessanta anni dall’entrata in vigore della Costituzione ancora non si riesce ad avere una riforma dell’ordinamento forense, che pure da lustri gli organismi forensi invocano. Peraltro se l’argomento fosse probante esso, per evitare di introdurre una disparità di trattamento certamente incostituzionale, dovrebbe valere per qualsiasi categoria professionale (e non a caso in tal senso si deve registrare la presentazione di talune proposte di legge che precludono l’esercizio di qualsiasi attività professionale). Ma quale sarebbe l’effetto finale? Avremmo un parlamento costituito da politici di professione, in numero ancor maggiore di quanto già non avvenga, da dipendenti pubblici in aspettativa e da professionisti – assai pochi – probabilmente di seconda o terza fila che nell’attività o nel reddito parlamentare vedrebbero innanzitutto una promozione economica e sociale. Ciò che infatti viene ignorato è che le condizioni economiche della vastissima platea degli iscritti agli albi professionali sono drasticamente peggiorate e che certamente, per una larga fetta, il reddito che assicura l’indennità parlamentare è più consistente di quello professionale. Siamo sicuri che l’effetto finale sarebbe auspicabile? Soprattutto siamo sicuri che quella separazione tra la società reale e quella politica che aveva raggiunto il suo punto di maggior profondità alla metà degli anni novanta debba essere riproposta negli stessi termini? Quanto invece all’assenteismo, i cui campioni siedono tra le fila dei politici di professione, il fenomeno può ben essere colpito da un lato riducendo la misura della indennità in ragione delle presenza ai lavori parlamentari (come è già stato fatto) e d’altro lato anche sanzionando con la decadenza i più gravi casi di infedeltà del mandato ma non c’è ragione di porre questo problema a fondamento di una incompatibilità, men che mai per una sola categoria professionale anche perché nulla dimostra che lo stesso sia appannaggio di quella categoria. Quanto infine alla comparazione tra la situazione italiana e quella di altri ordinamenti non pare che la tesi della incompatibilità sia universalmente adottata, a differenza di quanto viene sostenuto soprattutto negli ultimi tempi. Tolto il caso degli Stati Uniti, dove però le attività di lobbying sono regolate in maniera specifica, nei maggior paesi democratici l’ipotesi della incompatibilità assoluta non trova applicazione. Al riguardo Piero Ichino (avvocato certamente non sospetto di condizionamento corporativo che si trova spesso in contrasto con le posizioni dell’avvocatura associata) ha recentemente sottolineato che l’incompatibilità “viene adottata solo in Spagna, dove però viene fatto ampio uso di deroghe al principio da parte della commissione parlamentare competente che rilascia autorizzazioni in deroga con grande larghezza)..” mentre in nessun altro grande “Paese democratico.. è stata istituita una drastica incompatibilità tra la carica parlamentare e l’attività forense: in alcuni ordinamenti sono previste delle limitazioni, ma mai un divieto secco”. Quanto infine alla incompatibilità tra incarichi di governo e la professione forense, come autorevolmente sostenuto in dottrina, (Danovi) essa era già presente nella legge professionale ed è stata ulteriormente sancita dall’art. 2 della L 214/04.
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Discorso tutto diverso è quello che riguarda il tema più attuale: quello della “via parlamentare per la risoluzione delle vicende giudiziarie” come è stato definito. Sulla scorta dello sguardo del tutto sommario che si è rivolto al passato un primo interrogativo si impone: come mai la questione della strumentalizzazione del mandato parlamentare al fine di “risolvere” specifiche vicende giudiziarie di cui l’avvocato parlamentare si occupa assume oggi un rilievo centrale mentre in passato era totalmente assente? Certo non si può rispondere dicendo che il fenomeno delle leggi legate anche alla risoluzione di una singola vicenda non fosse presente in passato, ciò sarebbe una evidente forzatura. Al di là di vicende rimaste nell’anonimato, nella categoria si dovrebbero far rientrare provvedimenti legislativi assai noti, che in una qualche misura hanno segnato la storia del nostro Paese, o perlomeno quella del processo. Tanto per fare degli esempi “politicamente scorretti” chi può negare che la legge Valpreda fosse anche ad personam, e prima ancora l’istituto della revisione venne introdotto anche per l’incredibile vicenda giudiziaria di Gallo? Insomma, una legge destinata a “risolvere” un caso specifico, laddove lo stesso fosse epitome di un problema giuridico generale, non solo per lungo tempo non è affatto apparsa riprovevole ma si è iscritta nella normale dialettica politico parlamentare. Il problema non è mai stato l’esistenza di provvedimenti che muovessero dalla esistenza di specifiche vicende giudiziarie ma il fatto che gli stessi riguardassero problematiche generali ed astratte. In tal caso l’ eventualità che il proponente potesse anche essere coinvolto professionalmente nella vicenda, in passato, non ha mai spostato i termini della questione. Senza ipocrisie si deve ammettere che la presenza o meno degli avvocati di Valpreda o di Gallo ( che per la chiarezza non ci fu) in parlamento, o ancor di più la loro eventuale iniziativa parlamentare per l’approvazione di quei provvedimenti, non avrebbe suscitato alcuna indignazione anzi sarebbe apparsa del tutto trascurabile: sia nell’uno che nell’altro caso ben avrebbero fatto a coltivare anche in quella sede, a viso aperto e con nome e cognome, la necessità di un cambiamento delle norme ingiuste che pregiudicavano, assieme al loro cliente, anche molti altri cittadini nelle medesime condizioni. Chi li avrebbe accusati di “strumentalizzare” a fini professionali il mandato parlamentare e chi invece avrebbe esaltato il loro ruolo di difensori dell’interesse generale? Peraltro, e su di un altro versante, se non si vuole affrontare il tema in preda all’amnesia non si può neppure tacer del fatto che a volte, nel passato più o meno recente, proprio quelli che oggi si dichiarano i più acerrimi nemici di siffatto modo di legiferare hanno agito, a parti invertite, in maniera speculare, con provvedimenti, stavolta non favorevoli, tesi a risolvere in altra maniera rispetto a quella che si stava profilando o si era raggiunta in sede giudiziaria. Il decreto del governo Andreotti che mise in non cale alcune decisioni della Corte di Cassazione era ad (anzi contra) personam o no? E le intemerate di alcuni politici contro le decisioni dei tribunali di sorveglianza accusati di essere troppo di manica larga con i detenuti sottoposti al 41 bis non hanno prodotto proposte di legge “reattive” sul tema presentate all’evidente scopo di colpire ben individuati personaggi appartenenti alle organizzazioni mafiose? Del resto, sempre ragionando in termini generali è ancora Ichino a rammentare che “..non è forse un problema analogo quello che si pone, in qualche misura, anche per un sindacalista, o per il dirigente di una associazione imprenditoriale, che si trovi a sedere in Parlamento? Dove passa la linea di confine tra patrocinio di interessi particolari che non può essere esercitato dal parlamentare e patrocinio di interessi di natura diversa? “. Bisogna concludere, allora, che rispetto al passato il tema che oggi tanto appassiona è tale perché, da un lato, interessa il leader di uno schieramento politico, oltre che tycoon imprenditoriale e dell’editoria, al quale si riconosce il potere far eleggere in parlamento i professionisti che (già) lo assistono anche grazie ad una legge elettorale che permette la cooptazione; e, d’altro lato, per il peso ed il rilievo che le vicende giudiziarie che riguardano lo stesso Berlusconi hanno assunto nel dibattito politico. Così come nessuno può negare che anche i più fermi sostenitori della tesi dell’incompatibilità portano a sostegno della loro proposta l’attività degli avvocati che assistono il Premier e non un atteggiamento generale che coinvolga la categoria degli avvocati/parlamentari presenti in tutti i partiti. Insomma, se le leggi ad personam vengono identificate con un solo nome, quello di Berlusconi, anche il rimedio che si vuole introdurre finirebbe per essere iscritto nella famigerata categoria: giustificato dalla necessità di risolvere un caso particolare ma con l’effetto non secondario di limitare l’accesso di una intera categoria professionale al parlamento. Il che si dimostrerebbe un paradosso inaccettabile poiché porterebbe a far una legge per un singolo caso in nome della necessità di evitarlo.
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Ciò detto, poiché viceversa è sempre (ed è sempre stato) possibile il rischio che l’iniziativa di un parlamentare che svolga anche una attività professionale legata alla materia oggetto della medesima possa non essere (o comunque non apparire) il frutto della scelta indipendente, ma solo un effetto certamente non secondario del mandato professionale, occorre verificare la praticabilità di rimedi che non siano peggiori del male. Intanto va detto che nei casi di vera e propria strumentalizzazione, qualsiasi sia l’attività professionale, il precetto costituzionale che vuole i parlamentari eletti “senza vincolo di mandato” appare violato. Per gli avvocati, poi, anche il canone deontologico che prescrive un generale dovere di indipendenza viene messo in discussione. Conclusioni queste che portano alla possibile soluzione sul terreno che dovrebbe essere d’elezione: quello della responsabilità politica, da un lato, e della deontologia professionale dall’altro. In una società “ben ordinata”, come un decano dell’avvocatura suole ripetere, dovrebbe essere il professionista, sul piano deontologico, ad aver cura di evitare situazioni in cui la sua immagine di indipendenza, anche e soprattutto nei confronti dei propri clienti, sia offuscata da comportamenti che possano pregiudicare questo aspetto. “Nell'esercizio dell'attività professionale l'avvocato ha il dovere di conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti esterni. L'avvocato non deve tener conto di interessi riguardanti la propria sfera personale” recita l’art. 10 del codice deontologico forense e certamente l’assunzione del mandato parlamentare deve imporre comportamenti conseguenti anche con riguardo alla possibile violazione di questo canone. Il terreno proprio della deontologia, come noto, tutela anche le situazioni in cui sia solo potenzialmente messo in pericolo il bene tutelato e dunque ben si presta a prescrivere un comando che prescriva agli avvocati di evitare comportamenti anche solo in astratto idonei ad indurre il sospetto di una strumentalizzazione del loro eventuale mandato a fini professionali. A questo fine ben potrebbe essere anche ulteriormente adeguato proprio il canone n.10 del codice deontologico forense. Nel già citato intervento sulla questione di nuovo Pietro Ichino ha rammentato come in “ Gran Bretagna viga una norma deontologica che vieta all’avvocato parlamentare di accettare un mandato professionale quando il pubblico “possa ragionevolmente pensare che l’avvocato possa fa uso del suo stato o incarico per avvantaggiare il proprio cliente”. Una norma di tal genere mi sembra più che sufficiente ad evitare rischi di strumentalizzazione dell’attività parlamentare. Sul piano più schiettamente politico, poi, dovrebbe essere il giudizio degli elettori a non premiare chi confonde in maniera patologica i due piani della attività e ciò potrebbe essere terreno di riflessione in merito alla riforma della attuale legge elettorale.
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Permettere agli avvocati/parlamentari di continuare a svolgere la professione, peraltro, non significa ampliare a dismisura la loro possibilità di “bloccare” i singoli processi adducendo un legittimo impedimento legato all’espletamento del mandato. Al di là del fatto che per anni il “galateo” processuale ed il rispetto dei relativi ruoli tra magistrati ed avvocati ha comportato la composizione di problematiche di questo genere in maniera del tutto fisiologica, resta la considerazione che vi sono perlomeno due giorni alla settimana (il lunedì e il sabato) in cui non si svolge lavoro d’aula, di tal che ben possono essere contemperate le diverse esigenze, tenendo conto che altre attività che dimostrano un “impedimento assoluto” sono difficili da sostenere. Ciò senza considerare che, comunque, gli impedimenti dei difensori (parlamentari inclusi) pesano sui rinvii dei processi in percentuale statistica (5% del totale ricerca Eurispes su dati del 2008) meno di quelli determinati da esigenze logistiche (6,8% del totale ibidem). Il che dimostra che nelle aule i processi finiscono per rinviarsi più per causa dei termosifoni rotti, l’assenza di aule disponibili, o la mancanza di impianti di registrazione, che non per le interferenze tra la funzione parlamentare e quella giudiziaria che rispetto a quel 5% è una percentuale ancor più ridotta. Il tema non mi sembra così fondamentale, insomma, ed a risolverlo basterebbe che magistrati ed avvocati adeguassero i loro comportamenti a quel principio di “leale collaborazione” cui la Consulta, intervenendo sul tema, ha richiamato tutti i protagonisti.
Avv. VALERIO SPIGARELLI