QUALE PARTE CIVILE NEL PROCESSO PENALE?
Pubblichiamo una riflessione a due voci (cons. Carlo Citterio, avv. Giuliana Scarpetta, è tratta dalla nostra Rivista GIUSTIZIA INSIEME 2-3/2012), su un tema di quotidiana attualità nelle aule di giustizia, ma forse troppo spesso non adeguatamente approfondito in tutte le sue concrete implicazioni, anche deontologiche per tutti i protagonisti del processo, giudici ed avvocati. Riflettere su senso e modi della possibile presenza della Parte civile nel processo penale significa invece entrare immediatamente a contatto con aspetti cruciali dei valori costituzionali del diritto di azione e difesa della vittima del reato, della ragionevole durata del processo complessivamente inteso, del diritto dell’imputato alla propria tempestiva e piena difesa, del loro intelligente necessario e possibile bilanciamento.
QUALE
NEL
PROCESSO PENALE ?
(In pubblicazione su Rivista Giustizia Insieme 2-3/12)
1.
1. Penalista o civilista?
E’ meglio che l’avvocato che svolge nel processo penale le difese della persona offesa danneggiata dal reato o del soggetto comunque danneggiato dal reato, e che quindi esercita l’azione civile nelle forme ordinarie del processo penale, sia un penalista o un civilista (posto che le sempre più accentuate esigenze di specializzazione rendono ormai poco frequenti figure professionali perfettamente in grado di padroneggiare al meglio il rito e il merito dei due settori)?
La domanda è certo consapevolmente un po’ provocatoria
(debbo in proposito confessare subito il condizionamento che mi deriva da un piccolo incubo vissuto da pretore penale, in un processo per reato colposo, a fronte di un avvocato notoriamente civilista puro, difensore di parte privata in quanto legale della compagnia assicuratrice contrattualmente coinvolta, che pretendeva di condurre l’esame orale dei propri testi iniziando sistematicamente le domande con la locuzione “è vero che…” e, ai miei ripetuti imbarazzati ma volutamente cortesi inviti di modificare le domande, mutava le parole del contenuto ma non la locuzione introduttiva, guardandomi in termini che, in modo implicito ma inequivoco, mi attribuivano stranezze comportamentali)
ma ha il pregio di giungere con immediatezza al primo dei pur sintetici spunti di riflessione che si intendono offrire al lettore interessato al tema della presenza e dell’azione della parte civile nel processo penale e, meglio e in particolare, al punto della ‘qualità’ di questa presenza.
Un punto, in realtà, spesso sottovalutato e che invece (rendere di ciò davvero consapevoli è l’intento perseguito da questo contributo) influisce in maniera determinante, per la vittima del reato e per il soggetto dal reato danneggiato, sulla concretizzazione del principio costituzionale di una ‘giusta’ tutela ‘in tempi ragionevoli’ (ex artt. 24.1, 111.1 e .2 Cost.). Concretizzazione per la quale la qualità e l’adeguatezza dell’agire del difensore tecnico (intesa come chiarezza degli obiettivi perseguiti e capacità di utilizzare tempestivamente in coerenza ogni facoltà che il rito penale offre) sono assolutamente essenziali, costituendone la precondizione.
2. Perché, dunque, ci si costituisce parte civile?
Interrogarsi su quale sia la ragione per la quale, in concreto e nello specifico processo penale, ci si costituisce parte civile anziché procedere con la domanda risarcitoria o restitutoria nell’ordinaria propria sede del giudice civile è la premessa per cogliere le consequenziali necessarie scelte coerenti della difesa processuale della parte civile.
Per ottenere in modo più efficace e veloce il risarcimento del danno e le restituzioni?
Per ottenere lo stesso risultato in modo più comodo?
Per ‘vigilare’ sulle concrete modalità di esercizio dell’azione penale ad opera della parte pubblica e di conduzione e decisione del processo ad opera dei giudici che si succedono?
Per ‘sfruttare’ la preoccupazione dell’imputato sugli esiti dell’avvenuto esercizio dell’azione penale al fine di ottenere ‘vantaggi risarcitori’?
Queste finalità (la prima e la terza fisiologiche, la seconda e la quarta con qualche connotato di patologia) possono ovviamente anche concorrere, ma più frequentemente, come attesta l’esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie, sono autonome.
Si pensi ai casi di richiesta di un risarcimento quantificato in modo del tutto simbolico (‘un euro’), che diviene lo strumento necessario per poter essere, come rappresentante della vittima, ‘nel’ processo penale [Sez. 3, sent. 42383/2007 ha escluso che persista l’interesse della parte civile alla partecipazione al processo penale quando il danno sia stato irrevocabilmente e integralmente risarcito]. E’ evidente che, in questo caso, ciò che interessa alla vittima (o ai suoi successori universali) è una presenza attenta e attiva nell’esercizio delle facoltà e dei poteri processuali riconosciuti dal codice di procedura ad ogni parte, una presenza pertanto legittimamente ‘aggressiva’, o meglio ‘controllante’ gli aspetti anche tipicamente di mero rito del processo penale [una sorta di ‘adempimento di fatto della funzione di accusa penale privata’: così A. Ghiara, Commento al nuovo codice di procedura penale, 1, 363, 1989], e che richiede necessariamente un elevato grado di conoscenza delle regole proprie del rito penale.
Ma anche quando la presenza della parte civile è finalizzata a soddisfare in modo efficace e tempestivo le proprie ragioni risarcitorie, la necessità che il processo si concluda con l’affermazione di responsabilità dell’imputato impone la presenza di una difesa consapevole e preparata negli aspetti propri del diritto penale processuale e sostanziale. E tuttavia, come vedremo tra un momento, un tal tipo di finalità risarcitoria non potrà mai essere perseguito senza un’attenzione tecnica costante agli aspetti civilistici della pretesa, sapendo cogliere e valorizzare, in tale specifica prospettiva, i momenti essenziali, nonché i poteri e le facoltà peculiari e discrezionali (cioè necessitanti una coerente pronta attivazione della parte stessa), che il processo penale prevede e consente.
3. Quando la finalità della costituzione di parte civile è prettamente risarcitoria, la principale ragione indicata per la scelta della presenza nel processo penale, in luogo del fisiologico esercizio dell’azione civile nella sede propria, attiene al regime probatorio.
Innanzitutto, nel processo penale: vi è il pubblico ministero che autonomamente si attiva per provare quella responsabilità dell’imputato che giova anche alle pretese civili del danneggiato, il giudice può esercitare d’ufficio poteri di integrazione probatoria che quello civile non ha, lo stesso ambito dell’eventuale incarico peritale è più ampio. Ancor più, il soggetto danneggiato (in particolare, anche se non solo, quando persona offesa) è nel processo penale teste [SU, sent. 41461/2012 ha confermato che nei confronti delle sue dichiarazioni non si applicano le regole dettate dal terzo comma dell’art. 192 c.p.p.], mentre nel processo civile la sua parola tendenzialmente non integra, almeno come prova diretta, il materiale probatorio che il giudice può valutare per la propria decisione [Sez. 1 civ., sent. 6510/2004].
E tuttavia spesso si ha l’impressione che, specialmente per talune peculiari tipologie di reati (e quindi di fatti illeciti produttivi del danno lamentato, o comunque ad esso collegati), la complessiva disciplina probatoria dei due settori non venga valutata adeguatamente. Si pensi alla perdita/rinuncia a peculiarità di tale regime previste dal codice civile (art. 2054.2, ad esempio) o affermate dalla giurisprudenza in materia di sussistenza del nesso causale [il che rileva specificamente per i casi di malattia professionale o colpa medica: SU civili, sent. 576/2008 e Sez.3 civile, sent. 16123/2010, di significativo interesse per l’esaustività dell’argomentazione sul punto].
Proprio il caso della colpa professionale medica consente di evidenziare in modo emblematico il senso del rilievo appena svolto: pur quando sia ‘certo’ che il sistema medico nel suo complesso non ha, colposamente, funzionato, cagionando il danno, sicché indubbia è la fondatezza di una pretesa risarcitoria, tuttavia oggetto del processo penale è l’accertamento della responsabilità personale del singolo operatore, che può risultare in concreto non provata al termine del processo, nonostante, appunto, l’evidente responsabilità dell’ente nel suo complesso. E’ lampante che, in tal caso, un’immediata azione civile nella sede propria e nei confronti dell’ente avrebbe realizzato l’obiettivo risarcitorio che, intanto, sarà invece negato nel processo penale.
Ancora: la sentenza civile di primo grado è (ora) immediatamente esecutiva, ed in quella sede sono possibili provvedimenti giurisdizionali che comunque anticipano quantificazioni certe (es. artt. 186 bis e 186 ter c.p.c.); ancorché il processo penale conosca provvedimenti (solo in parte) simili (artt. 539.2, 540.1, 605.2 c.p.p.), certamente il livello della tutela, per tale pur importante profilo, è in questa sede più contenuto e contingente. Una condanna generica al risarcimento dei danni in primo grado (art. 539.1 c.p.p.), specialmente se non accompagnata dall’assegnazione di una provvisionale, ‘congela’ l’aspettativa del danneggiato fino al compiuto espletamento dei gradi dell’impugnazione coltivati dall’imputato, con implicazioni evidentissime sul tempo di attesa per il definitivo effettivo ristoro del proprio danno.
Né può essere ignorato (ed anzi assume rilievo davvero emblematico nel punto in trattazione) il ben diverso effetto che sul processo penale (e conseguentemente sull’azione civile in esso esercitata) ha il peculiare evento rappresentato dalla morte dell’imputato, convenuto dell’azione civile esercitata nel processo penale. Mentre, infatti, nel processo civile la morte della parte, costituita o contumace, non impedisce che il processo possa proseguire (con la costituzione volontaria o la riassunzione: artt. 299, 300, 302 e 303 c.p.c.), conservando quanto fino a quel momento compiuto ed acquisito, nel rito penale la morte dell’imputato che intervenga prima dell’irrevocabilità della sentenza (il caso paradossale: il giorno prima della sentenza della Corte di cassazione, in esito ai tre gradi di giudizio) dissolve il rapporto processuale, vanificando qualsiasi statuizione pur legittimamente deliberata nel corso del processo, comprese quelle a contenuto civilistico [Sez.3, sent. 5870/2012; Sez.2, sent. 11073/2009; merita particolare richiamo anche Sez.6, sent. 22392/2008].
4. Questi ultimi rilievi introducono all’ulteriore aspetto che deve pure essere tenuto in considerazione nelle scelte proprie della strategia della difesa tecnica del danneggiato: la natura accessoria e subordinata dell’azione civile nel processo penale.
La locuzione va compresa nella sua effettiva valenza. Venuta meno la pregiudizialità necessaria del processo penale (art.3 c.p.p. 1930), oggi il soggetto danneggiato può agire nella sede propria del giudizio civile pur in pendenza del processo penale (art. 75.1 e .2 c.p.p.) e in tal caso l’eventuale decisione assolutoria del processo penale non incide sull’esito del giudizio civile (art. 652.1 c.p.p.). Non vi è pertanto più alcuna necessità normativa per il danneggiato, sia o meno persona offesa, di ‘essere’ all’interno del processo penale per evitare pre-giudizi sulle proprie ragioni devolute al giudice civile.
Ha pertanto un chiaro e congruo senso sistematico che la discrezionale scelta di esercitare invece l’azione civile nel contesto penale non possa determinare ritardi, pause, intralci non indispensabili per la normale dialettica processuale, al fisiologico corso della fase processuale del procedimento penale [perché nella fase delle indagini preliminari la costituzione di parte civile è preclusa, ex art. 79 c.p.p., in essa solo alla persona offesa dal reato, e a prescindere da ogni possibile pretesa risarcitoria, essendo riconosciute singole facoltà di intervento, ex artt. 394, 398, 401; 413, 412; 408 e 410 c.p.p.].
D’altra parte, accessorietà dell’azione civile nel processo penale non significa che questa venga in esso solo ‘tollerata’, né permette di definire quale competenza ‘eccezionale’ la cognizione civile del giudice penale, in relazione alla domanda proposta nel processo penale dal danneggiato dal reato. Infatti, come è stato efficacemente argomentato in tempi lontani, “il giudice penale va considerato quale giudice naturale di chi faccia valere i suoi diritti civilistici nel procedimento penale” [già Cass. 20.2.1980, in A.Pennisi, L’accessorietà dell’azione civile nel processo penale, 1981; questo richiamo, all’essere quello penale il giudice ‘naturale’ anche della pretesa civilistica ritualmente fatta valere nel processo penale, è di particolare importanza per le implicazioni sistematiche e deontologiche che riguardano le modalità dell’agire della parte civile e del deliberare sulla pretesa civile da parte del giudice penale, sulle quali ci soffermeremo nella conclusione di questo breve contributo]. Nello stesso tempo, la dottrina ha però da subito concordato nel rilievo che l’insieme delle norme dell’attuale processo penale, pur in assenza di una direttiva conforme nella legge delega, pare volto a disincentivare la presenza della parte civile, nonostante l’ampia disciplina formalmente riservatale [per tutti, E.Amodio, in Commentario del nuovo codice di procedura penale, 1, 436, 1989].
Ed in effetti, è in primo luogo certamente imponente la limitazione consistente nell’impossibilità di essere presente, come danneggiato non persona offesa, nella fase delle indagini preliminari, spesso essenziale per le sorti della successiva fase processuale. E la stessa presenza della persona offesa in tale fase preliminare si caratterizza per una manifesta disomogeneità rispetto ai diritti dell’imputato (emblematica la previsione del quinto comma dell’art. 401, che nell’udienza di incidente probatorio prevede che le prove siano assunte con le forme previste per il dibattimento, quindi con esame e controesame per le prove orali, ma al difensore della persona offesa riconosce solo il potere di chiedere al giudice di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame: locuzione che corrisponde a quella utilizzata per il giudice componente di collegio e non presidente, dall’art. 506.2 c.p.p., e poi dall’art. 505 per enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, e pertanto non è compatibile con l’esame ed il controesame diretto [P.L. Vigna, Commento cit., 4, 499]).
Proprio l’appena richiamato art. 401.5 conferma che anche nell’incidente probatorio (che pur svolge una funzione anticipatrice del dibattimento, sia pure limitatamente all’incombente specifico) non è possibile la costituzione di parte civile pur solo della persona offesa danneggiata, costituzione che presuppone l’avvenuto esercizio dell’azione penale che, appunto, non avviene con l’incidente probatorio: precisazione sistematica che parrebbe davvero superflua, senonché evenienze processuali sorprendenti la rendono comunque opportuna [Sez.6, sent. 41221/2012, dove la questione è stata tuttavia assorbita da aspetti di autonoma inammissibilità del motivo di ricorso].
Particolarmente emblematica è altresì (proprio per la sua valenza sistematica quanto al profilo che ci occupa) la norma dell’art. 23 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale: essa prevede infatti che “l’assenza delle parti private diverse dall’imputato regolarmente citate non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento, né la nuova fissazione della udienza preliminare a norma degli articoli 420 bis e 420 ter del codice”. Ciò significa, per la giurisprudenza di legittimità, che la disciplina del legittimo impedimento opera solo nei confronti del difensore dell’imputato e non si estende al difensore della parte civile [Sez.5, sent. 39334/2011]. Si è posta la connessa questione se il difensore della parte civile possa invece esercitare autonomamente, anche nel processo penale, il diritto di aderire all’astensione collettiva dalle udienze, chiedendo il rinvio dell’udienza anche quando a tale astensione non aderisca il difensore dell’imputato. Ciò proprio sulla base della ritenuta non riconducibilità dell’astensione dalle udienze alla nozione tecnica processuale di ‘legittimo impedimento’ [Sez.1, sent. 25714/2008; Sez.2, sent. 20574/2008; Sez.5, sent. 44924/2007]. La soluzione più convincente è quella negativa: in definitiva la regola sistematica generale che emerge dalla disciplina che riguarda la parte civile nel processo penale è quella per cui in nessun caso le esigenze proprie e peculiari che sorreggono la pretesa civilistica del danneggiato possono determinare ritardi o stasi del processo penale [e questa è anche la soluzione data alla questione dalla Sesta sezione penale della Cassazione con recentissima sentenza deliberata all’udienza del 12 luglio 2013 nel procedimento con numero di ruolo 16622/13].
In altri termini, l’interesse dell’imputato, e dello Stato, ad una pronta deliberazione sull’azione penale non può cedere alle esigenze privatistiche del danneggiato, ancorché persona offesa/vittima, per l’assorbente ragione che questi ha nella sede civile la piena possibilità di vedere riconosciute, senza pregiudizio, le proprie ragioni.
E’ questa ragione che spiega anche la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui la nullità derivante dall’omessa citazione della persona offesa non può essere eccepita dall’imputato, che viene ritenuto privo dell’interesse al rispetto di una norma che ha come unico scopo proprio quello di permettere al destinatario della citazione l’eventuale costituzione di parte civile [Sez.2, sent. 12765/2011; Sez.6, sent. 12196/2005; Sez.6, sent. 35555/2003; Sez.6, sent. 12530/1999]. Questa giurisprudenza è inefficacemente contestata da chi sostiene che in realtà l’imputato avrebbe l’interesse ad estendere all’ambito civile l’effetto di un’eventuale sentenza di assoluzione (art. 652 c.p.p.): si tratta, con ogni evidenza, di un interesse di mero fatto, ‘estraneo’ al processo penale che è invece caratterizzato dal rapporto tra la pretesa punitiva dello Stato e il diritto di difesa del destinatario di quella pretesa, rapporto peculiare che deve trovare definizione ‘in tempi ragionevoli’ sui quali non possono influire esigenze, e interessi contingenti di fatto, personali e ad esso estranee.
La stessa ragione spiega pure la giurisprudenza che nega sia l’impugnabilità dell’ordinanza di esclusione della parte civile (artt. 80.4, 81.1 c.p.p.), perché questa manca di contenuto decisorio e non pregiudica l’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile (Sez.3, ord. 14332/2010), che la sua revocabilità [Sez.4, sent. 6633/2009].
In definitiva, allora: il giudice del processo penale è anche giudice naturale della pretesa civilistica relativa al danno cagionato dal fatto di reato ma, poiché tale pretesa ha davanti al giudice civile altra sede fisiologica altrettanto ‘naturale’, ed anzi ‘propria’, davanti alla quale il diritto dell’offeso o danneggiato dal reato può trovare piena esplicazione senza pregiudizio (‘di diritto’) alcuno, e viene attribuita alla cognizione del giudice penale per una discrezionale scelta della parte privata interessata, del tutto sistematicamente congruo è che la pretesa civile azionata nel processo penale risenta delle peculiari finalità del processo penale e non possa comportarne ritardi o soste, non indispensabili per la normale dialettica processuale. E quando l’interesse ‘pubblicistico’ è venuto meno, è contrario a elementari principi di economia e sistematicità che il giudice penale debba occuparsi ex novo della pretesa civilistica di chi, in assenza di statuizione incidente nella successiva sede civile ex artt. 652-654 c.p.p., nessun pregiudizio avrebbe nel rivolgersi a quel punto al giudice civile.
5. La natura accessoria dell’azione civile nel processo penale è tema che manifesta in tempi recentissimi una forse imprevedibile (e probabilmente ingiustificata) attualità. Nella giurisprudenza di legittimità sono infatti in essere almeno due contrasti che, in definitiva, ruotano proprio sulla diversa lettura sistematica del senso e dei limiti dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale e dei suoi rapporti con la sorte della pertinente azione penale.
Il primo contrasto riguarda la sorte dell’azione civile quando l’azione penale diviene improcedibile per cause diverse da una decisione di merito o di prescrizione nei gradi di impugnazione, con pronuncia in rito che non ha alcun effetto preclusivo del successivo esercizio dell’azione civile nella sede propria.
Decidendo la questione se la sentenza di merito che abbia deliberato l’azione penale per difetto di querela sia impugnabile dalla parte civile, con la sentenza 35599/2012 le Sezioni unite penali hanno risposto negativamente, valorizzando l’assenza di interesse all’impugnazione (pur astrattamente legittima) per la mancanza di alcun pregiudizio che quella formula in rito penale comporta per la sorte della pretesa civilistica. La motivazione di tale sentenza espressamente attribuisce all’azione civile inserita nel processo penale un carattere “eventuale, accessorio, subordinato rispetto all’azione penale”, precisando che conseguentemente essa “deve subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e struttura del processo penale, cioè le esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati ed alla rapida definizione del processo” e ribadendo i “limiti sussistenti alla cognizione dell’azione civile nel processo penale”. Da qui la conclusione che la sentenza con carattere meramente processuale, non contenente un accertamento mediante prove del fatto storico-reato, si limita a statuire su un aspetto processuale che non consente l’accertamento in fatto e non è idonea a fondare l’efficacia del giudicato nei processi civili, amministrativi e disciplinari in base agli artt. 652-654 c.p.p..
L’insegnamento, esattamente in linea con quello delle Sezioni unite civili sent. 1768/2011 (che ha negato l’efficacia extrapenale delle sentenze che dichiarano l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia, pur quando tale deliberazione segua un accertamento incidentale di responsabilità), ha una portata che certamente trascende il caso concreto (la non ricorrenza di una condizione di procedibilità), poiché le argomentazioni possono, e debbono, trovare applicazione per ogni caso di sentenza meramente processuale.
Ed invece in tempi recenti alcune sentenze di legittimità hanno giudicato ammissibile l’appello proposto dalla sola parte civile avverso sentenze con cui il giudice di primo grado aveva dichiarato, in ipotesi erroneamente, l’estinzione del reato per prescrizione [Sez. 2, sent. 9263/2012 e Sez.2, sent. 7041/13, sia pure con percorsi argomentativi differenti (la prima di fatto svalorizzando il tema dell’interesse ad impugnare, ritenendolo soccombente rispetto alla affermata legittimazione ad impugnare anche le sentenze in rito, ritenute sussunte nella locuzione “sentenze di proscioglimento” di cui all’art. 576 c.p.p.; la seconda giudicando rilevante anche l’interesse della parte alle implicazioni di ritenuto maggior favore del rito scelto, valutato come insindacabile: affermazione, quest’ultima, espressamente disattesa dalla motivazione di SU penali 35599/12, con la quale, per il vero, nessuna delle due sentenze si confronta)]. Successivamente Sez.6, 19540/13 (in caso singolare: proscioglimento per prescrizione in primo grado, appello dell’imputato per l’assoluzione nel merito, appello incidentale della parte civile per l’affermazione di responsabilità senza contestare l’intervenuta prescrizione del reato prima della deliberazione di primo grado, accoglimento dell’appello incidentale della parte civile, ricorso del responsabile civile) ha invece applicato e ribadito l’insegnamento delle Sezioni unite, negando l’interesse della parte civile all’impugnazione delle sentenze di proscioglimento in rito, in particolare se deliberate in primo grado senza che si contesti l’erroneità della deliberazione e, in ogni caso, quando non hanno efficacia extrapenale.
Non appaiono condivisibili le critiche rivolte alla sentenza delle Sezioni unite richiamando anche “istanze internazionali a protezione della vittima”, con particolare riferimento alla direttiva 2012/29/UE del 25.10.2012 [P. Spagnolo, Sentenza di non doversi procedere per difetto di querela e interesse ad impugnare della parte civile: le Sezioni unite fanno un passo indietro?, in Cass.pen. 231.1, 2013], perché proprio le regole di principio contenute in quel testo in realtà ancorano la tutela della vittima nel processo penale alla pendenza di questo: se c’è un processo penale a carico dell’autore del reato la vittima deve tendenzialmente vedersi riconosciuto ogni diritto di partecipazione e risarcimento in quella sede; ma quando l’azione penale ha termine con decisione che non produce pregiudizio alcuno alle ragioni risarcitorie della vittima in sede civile, la permanenza dell’azione civile in sede penale, che diviene a quel punto esercizio ex novo delle ragioni esclusivamente privatistiche nella sede penale, non pare proprio trovare alcun sostegno nel testo della direttiva, risultando invece del tutto compatibile e coerente la ricostruzione offerta e decisa dalle Sezioni unite penali (‘considerando’ n. 20: Il ruolo delle vittime nel sistema giudiziario penale e la possibilità per le stesse di partecipare attivamente al procedimento penale…; art.16 – Capo 3, Partecipazione al procedimento penale, “Diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale”: “Gli Stati membri garantiscono alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un altro procedimento giudiziario”).
Il secondo contrasto riguarda l’ambito di applicazione dell’art. 622 c.p.p., che disciplina l’annullamento della sentenza in Cassazione ai soli effetti civili. Con ordinanza 21045/13 depositata il 16.5.2013 è stata rimessa alle Sezioni unite la questione se, dichiarata dalla corte d’appello l’estinzione del reato per prescrizione senza argomentare sul punto della responsabilità nonostante la presenza della parte civile (in violazione del relativo obbligo: SU sent. 35490/2009; Sez.6 sent. 16155/13), l’annullamento con rinvio debba essere disposto al giudice civile o al giudice penale. All’udienza del 18.7.2013 le Sezioni unite (proc. 32048/12 RG Cass. in proc. Sciortino, relatore Conti) hanno adottato la prima soluzione. Soluzione certamente preferibile, a conferma del principio di sistema che non vi è spazio per una ulteriore cognizione del giudice penale di un procedimento che da quel momento ha solo rilievo civile – privatistico ogniqualvolta il processo penale si sia concluso con decisione che non pregiudica in alcun modo le sorti della posizione del soggetto danneggiato nella successiva prosecuzione della medesima azione civile nella sede propria. Il che è quanto accade nella fattispecie, posto che l’annullamento sull’omessa motivazione della responsabilità dell’imputato/danneggiante lascia impregiudicato ogni esito del nuovo necessario giudizio sul punto.
6. Se si tiene conto che in tempi non remoti le Sezioni unite penali sono dovute intervenire [Sent. 25083/2006] anche per chiarire e confermare l’ambito di operatività del potere di impugnazione per gli interessi civili, riconosciuto in via autonoma alla parte civile dall’art. 576 c.p.p. (e idoneo ad imporre la deliberazione del giudice di impugnazione sul punto pregiudizievole della sentenza, anche senza precedente corrispondente e favorevole statuizione), nonché per distinguerlo dalla previsione dell’art. 578 c.p.p. (che permette ed impone al giudice penale dell’impugnazione che accerti e deliberi l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia intervenuta dopo una precedente sentenza di condanna di deliberare sulle sue sole disposizioni civili), nonostante la chiarezza del testo delle due norme, può dirsi allora evidente la permanente centralità del tema della necessaria lettura sistematica della cosiddetta accessorietà dell’azione civile nel processo penale. E francamente solo l’assenza di una tale lettura sistematica complessiva, o la sua inadeguatezza, spiega le incertezze applicative ricordate. E’ tra l’altro significativo che autorevole dottrina abbia indicato proprio nell’esistenza e nei limiti dell’art. 578 c.p.p. il “nuovo e più apprezzabile significato del principio di accessorietà” [F. Tommaseo, Rapporti tra processo civile e processo penale, in Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, 17, Milano 1995].
7. In definitiva, il giudice penale va considerato giudice ‘naturale’ dell’azione civile fin tanto che è pendente l’esercizio dell’azione penale ovvero fin tanto che vi è un interesse oggettivo, strutturale, ‘di sistema’ della parte civile a rimuovere una deliberazione del giudice penale che, se non rimossa, ai sensi degli artt. 652 (come interpretato dalle Sezioni unite civili cit.) e 654 c.p.p. effettivamente ed efficacemente pregiudicherebbe le sue ragioni. Invece, in nessun caso avrebbe senso sistematico la prosecuzione del giudizio civile in sede penale per soddisfare un interesse che, definita l’azione penale con statuizione che non determina alcun genere di pregiudizio procedurale per il danneggiato, trova piena ed esaustiva attenzione nella sede civile propria (da cui anche la fisiologica applicazione dell’art. 622 c.p.p. pur quando occorra rimotivare il punto della responsabilità ai soli fini civili, una volta dichiarata l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione dell’art. 129.2 c.p.p. e la prescrizione del reato: Sez.6, sent. 16155/13, cit., punto 3.2.2.1).
La ‘lettura’ contraria (se la parte civile sceglie il giudice penale questo è il suo giudice definitivo a prescindere da qualsiasi concorrente contingente interesse pubblico o concreto pregiudizio privato) davvero appare clamorosamente estranea al principio sistematico e normativo dell’autonomia dei due giudizi, ‘novità’ del rito penale introdotto nel 1989.
8. L’esercizio dell’azione civile nel processo penale deve quindi cogliere tutte le opportunità che questo rito offre alla parte privata danneggiata, con un’attivazione temporalmente e contenutisticamente adeguata.
Vi è un modello negativo di presenza della parte civile, purtroppo tutt’altro che raro nella quotidiana esperienza giudiziaria. E’ la parte civile che: si costituisce da subito chiedendo la sola condanna generica e il conseguente rinvio al giudice civile; va ‘a rimorchio’ del pubblico ministero rinunciando immediatamente a proprie iniziative istruttorie; ‘dimentica’ le richieste specifiche e pertinenti che costituiscono il presupposto indefettibile perché il giudice possa assegnare una provvisionale o dichiarare provvisoriamente esecutiva la condanna alle restituzioni ed al risarcimento, ovvero ‘spara’ cifre del tutto disancorate anche dagli usuali criteri civilistici o prive di alcun sostegno probatorio specifico; svolge difese orali, specialmente nei giudizi di impugnazione, del tutto generiche e aspecifiche. Sarebbe assai utile una riflessione comune, o quantomeno interna all’Avvocatura, sulle implicazioni deontologiche di difese tecniche di tal fatta.
Personalmente sono sempre stato convinto che il rito penale permetta a chi vi esercita ‘seriamente’ la propria azione civile di ottenere già con la sentenza penale risultati economicamente soddisfacenti. E’ necessario però che la difesa tecnica sia in grado di prospettare al giudice un valore economico ‘oggettivo’, pur se tendenziale, del proprio danno, supportandolo almeno con principi di prova specifica.
La risposta alla domanda iniziale (penalista o civilista, il difensore?) si risolve allora nell’indicare la necessità che il difensore della parte civile sia in grado di gestire al meglio il rito penale (con la costituzione anche prima dell’udienza dibattimentale, in modo da poter introdurre proprie prove orali sia sul punto della responsabilità che su quello della quantificazione del danno: art. 468.1 e .4, 79.3 c.p.p., ovvero da poter citare il responsabile civile; con la richiesta di sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p.; con una presenza attiva nell’esame e nel controesame delle parti e dei testi; con la presentazione di conclusioni scritte specifiche: 523.2 c.p.p.; con la richiesta di provvisionale nei limiti del danno provato efficacemente in corso di processo: 539.2 c.p.p., ovvero di provvisoria esecuzione della condanna definitiva avendo comprovato nel processo i giustificati motivi: 540.1 c.p.p.; con l’impugnazione autonoma, nel caso di assoluzione o sui capi civili, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., a prescindere dalle determinazioni del pubblico ministero pur eventualmente sollecitato ex art. 572 c.p.p., e ciò anche in ordine all’esecuzione delle condanne civili ex art. 600 c.p.p.).
Nello stesso tempo deve essere attento agli aspetti di quantificazione della richiesta risarcitoria.
Innanzitutto, come detto, introducendo tempestivamente prove pertinenti a sostegno.
Ma soprattutto essendo in grado di formulare richieste specifiche, economicamente significative e ‘oggettive’, cioè corrispondenti a parametri consolidati della giurisprudenza civile per casi analoghi (eventualmente documentata) e, quindi, ed è questo a mio parere il punto nodale, in grado di essere valorizzati in provvisionali corrispondenti, o ad essi comunque congrue, che, proprio quando tendenzialmente ‘accettabili’ nell’apprezzamento prettamente ‘civilistico’, possono essere il presupposto che finisce con il determinare le parti a transazioni esaustive e soddisfacenti dopo il deposito della sentenza. Una particolare attenzione va poi posta alla richiesta di determinazione del danno morale (le cui istanze di rinvio al giudice civile gridano vendetta) che, in realtà, può esser posto a base non solo e tanto di una provvisionale ma già di una sentenza (anche parziale) definitiva, per la quale può esser chiesta la provvisoria esecuzione, ricorrendo i giustificati motivi (sul punto, Sez.6, sent. 2545/2010).
Il difensore della parte civile deve quindi essere in grado di cogliere il ‘senso economico’ della vicenda, di condurre il giudice ad una quantificazione ‘accettabile’ (come provvisionale o sentenza parziale provvisoriamente esecutiva) che sia in grado di indurre il successivo tempestivo accordo stragiudiziale, autonomo rispetto alla sorte dell’azione penale ed ai suoi tempi.
Insomma: è intrinsecamente contraddittoria, e suscita perplessità deontologiche, una costituzione di parte civile che non sia volta ad ottenere già nel processo penale tutto o molto di quanto dovuto e non sia sorretta da scelte ed azioni tecniche pertinenti a tale scopo.
La collaborazione tra l’attore penalista e il consulente civilista risulta quindi la migliore soluzione per un’assistenza tecnica efficace del danneggiato nel processo penale.
9. Alla deontologia dell’avvocato che assiste la parte civile deve corrispondere la deontologia del giudice penale nel definire la pretesa civilistica.
Le prassi del rinvio sistematico al giudice civile per tutto ciò che riguarda la quantificazione del danno sono certamente da disapprovare: e costituiscono negazione e in sostanza rifiuto dell’essere invece, come detto, il ‘giudice naturale’ anche dell’azione civile.
L’attenzione al senso sistematico della ragionevole durata del processo ora anche assunta a principio manifesto della Costituzione (art. 111.2 seconda parte) dovrebbe essere peculiare quando si tratta di definire la pretesa civilistica: il rinvio al giudice civile, disposto in primo grado e senza provvisionale (perché magari vi è stata anche negligenza della difesa tecnica che non l’ha chiesta), significa bloccare il seguito dell’azione del danneggiato fino all’esaurimento dei gradi di impugnazione penale.
Quindi, a fronte di una diligente attivazione della parte civile, il giudice penale ha l’obbligo, anche deontologico, di provvedere efficacemente sulle sue domande conclusive (anche in ipotesi con una mera ma ‘significativa’ ‘adeguata’ ed ‘accettabile’ provvisionale). Merita in proposito doverosa citazione, perché esemplare nella definizione contestuale anche delle articolate domande civili, Trib. mon. Venezia, est. Bitozzi, sent. n 1536 del 13.7-11.10.07 in proc. Volpe Ciro + 8, in:
http://www.personaedanno.it/attachments/allegati_articoli/AA_008836_resource1_orig.pdf
Ma anche quando la parte civile non fosse stata diligente, il giudice penale deve verificare se, alla luce delle emergenze probatorie tutte, non ci siano davvero le condizioni per provvedere d’ufficio alla quantificazione del danno (si pensi in particolare ai reati che non abbiano determinato danni di oggettiva faticosa quantificazione o rispetto ai quali siano in definitiva configurabili solo danni non materiali). L’art. 539.1 c.p.p., infatti, non vincola in alcun modo il giudice penale alla eventuale richiesta della parte civile di rinvio al giudice civile e, anzi, indica come regola generale al giudice penale (giudice ‘naturale’ dell’azione civile esercitata nel ‘suo’ processo) la condanna definitiva, la condanna generica costituendo eccezione subordinata al ritenere le prove acquisite non idonee a consentire la liquidazione: apprezzamento che è di stretta ed autonoma competenza del giudice che procede.
CARLO CITTERIO
consigliere della Corte di cassazione
2.
Nel processo penale a rafforzare la Pubblica Accusa, che persegue l’interesse punitivo dello Stato, nella maggior parte dei casi vi è l’Accusa Privata rappresentata dalla persona danneggiata dal reato, che il più delle volte è anche persona offesa, portatore della sua domanda di risarcimento danni o di restituzione. La domanda civile incardinata nel processo penale conserva la sua autonomia nonostante sia regolata proceduralmente dalle norme del Codice di Procedura Penale.
A fronte di questa autonomia (art. 75, co. 2 e 3 c.p.p.; in dottrina, v. Olivero, I titolari di interessi extrapenali, in Chiavario, Protagonisti e comprimari del processo penale, 1995, 218; Di Chiara, Parte civile, Digesto disc. pen, IX, Torino 1995, 233; ) e, dunque, anche dalle scelte della Pubblica accusa è opportuno ed anzi, per quel che mi riguarda, necessario che la Parte Civile si costituisca nel primo momento utile: che, per i processi per i quali è prevista l’udienza preliminare, è nel corso della stessa, nel mentre per i processi a citazione diretta la costituzione dovrebbe avvenire subito dopo la notifica del decreto di citazione a giudizio, e dunque nella Cancelleria del Giudice designato per il processo (art. 79 c.p.p.).
Tutto ciò appare necessario perché in entrambi i casi, nel dibattimento, la parte civile già costituita è abilitata ad esercitare il suo diritto alla prova (v., a contrario, art. 79, co. 3, c.p.p.) e dunque a depositare la lista testi, citare i propri consulenti, chiedere l’acquisizione dei verbali di prova di altro procedimento penale, condurre il controesame dell’imputato e dei suoi testimoni, attività – questa – particolarmente rilevante se si considera che la persona offesa è il primo testimone del fatto, per averlo generalmente vissuto in prima persona, e dunque un accurato controesame può contribuire in maniera determinante alla reale ricostruzione del fatto.
Tutta l’attività probatoria della parte civile incontra però un’unica limitazione che ha riguardo all’esclusione dal diritto all’ammissione delle prove indicate a carico dell’imputato sui fatti oggetto della prova a discarico ex art. 495 comma 2 c.p.p.; per tutto quanto altro la parte civile ha titolo per presentare le proprie richieste di prova.
Dunque per la completezza dell’azione civile nel processo penale è necessario che la parte civile si costituisca prima del dibattimento, diversamente non potrebbe esercitare la più importante delle attività probatorie cioè il deposito della sua lista testi, che a mente dell’art. 468 c.p.p. va depositata a pena di inammissibilità almeno sette giorni prima del dibattimento.
Di più, si deve rilevare che nella maggior parte dei processi che si celebrano dinanzi ai Giudici Monocratici la funzione di Pubblico Ministero è esercitata dai Vice Procuratori Onorari che, con tutta la buona volontà, con tutta la competenza, con tutto lo studio possibile, spesso non hanno la possibilità di approfondire tutti i processi per i quali sono delegati.
Ecco che la funzione della Parte Civile è di fondamentale importanza per sostenere le ragioni dell’ Accusa, ciò naturalmente nella necessità di tutelare il suo legittimo interesse.
Su questo discorso si innesta quello relativo al criterio della scelta della persona danneggiata dal reato di costituirsi parte civile nel processo penale a carico dell’imputato, piuttosto che esercitare l’azione per il risarcimento del danno o la restituzione nella naturale sede del processo civile.
A tal fine va considerato che il fatto-reato integra un illecito penale ed un illecito civile, e dunque deve essere valutato nella sua interezza ciò anche per evitare un sempre possibile contrasto di pronunce.
Questo è uno dei motivi per il quale è opportuno che la persona danneggiata dal reato si costituisca parte civile nel processo penale, piuttosto che attivare un autonomo procedimento civile, nel quale sarà costretto a provare sia l’an che il quantum debeatur con tutti i rischi del caso, e ciò soprattutto in considerazione dei limiti alla prova stabiliti nel processo civile, oltre a quelli legati anche al principio dispositivo delle prove più rigidamente strutturato nel processo civile.
In altre parole, il simultaneus processus civile e penale costituisce una modalità processuale volta a prevenire il pericolo di giudicati contraddittori, e finalizzata altresì al principio di economia dei giudizi.
Su questa ultima argomentazione c’è però da dire che difficilmente il Giudice del processo penale, nel condannare l’imputato anche al risarcimento del danno, ne liquida l’importo totale, piuttosto rinviando la liquidazione del danno alla sede civile.
Spesso se è stata proposta la domanda, e sarebbe buona norma farlo sempre, accoglie la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale provvisoriamente esecutiva (art. 539, co. 2, e 540, co. 2, c.p.p.).
In realtà, dal punto di vista del Giudice penale, centrale è solo il fatto reato, nel mentre la parte civile dovrebbe avere un doppio obiettivo, e cioè concorrere a dimostrare il fatto reato commesso dall’imputato e di più provare il danno subito e la sua entità, nonché il suo diritto ad ottenere il risarcimento o la restituzione, dico dovrebbe perché il più delle volte, nello sforzo di sostenere l’accusa a dibattimento, la parte civile tralascia di sostenere le ragioni del danno che si ritiene insito nella commissione del reato, e soprattutto di provare la sua quantificazione.
Ecco che, dunque, risulta difficile al Giudice penale addivenire ad una pronuncia nel merito del risarcimento del danno, liquidandolo per intero, in quanto, in mancanza di elementi sufficienti di giudizio, il Giudice penale si limita a pronunciare condanna generica, rimettendo le parti davanti al Giudice civile.
Vero è che in sede civile il danneggiato dal reato avrà un compito più facile dovendo provare solo l’esistenza del danno ed il quantum, richiedendone poi la liquidazione, ma onde evitare ulteriori perdite di tempo e dispendio di danaro sarebbe opportuno fornire elementi probatori al Giudice penale anche in ordine alla quantificazione del danno, per consentirgli di pronunciarsi nell’ambito del processo penale anche sulla sua liquidazione.
Naturalmente c’è anche da dire che non in tutti i processi penali è possibile fornire tutti gli elementi indispensabili per la quantificazione del danno.
Tutto ciò dipende dalla gravità del fatto-reato per cui si procede e dalla portata dei danni ad esso conseguenti; ad esempio si pensi a quanto possa essere laborioso e complicato quantificare i danni subiti dai familiari delle vittime del reato di omicidio soprattutto quando è trascorso un considerevole lasso di tempo dalla scoperta del corpo, talvolta addirittura occultato, e/o dall’individuazione del responsabile, e ciò anche in considerazione del danno morale legato sia alla sofferenza per la perdita del congiunto, sia alla sofferenza patita nei lunghi anni trascorsi a cercare il corpo o a sperare che venga identificato il responsabile, tra speranze, delusioni, attese spasmodiche tutte legate spesso a depistaggi posti in essere proprio dall’omicida nel tentativo di allontanare da sé i sospetti.
In siffatti casi, ed in particolare nei casi in cui il processo venga definito con il rito abbreviato, è utile che il Giudice, previa domanda della parte civile, riconosca ai familiari costituitisi parti civili una provvisionale provvisoriamente esecutiva, non avendo potuto la parte civile allegare, data la particolarità del rito, tutto il materiale probatorio relativo al danno patrimoniale e non, conseguente al reato, ferma restando poi la devoluzione per la quantificazione totale al Giudice Civile.
Avv. GIULIANA SCARPETTA
del Foro di Salerno