Per una ‘dirigenza responsabile e partecipata’/2
(sul tema attualissimo del ruolo e dei compiti del dirigente dell’Ufficio giudiziario e sulle aspettative per la sua azione, partecipiamo gli interventi speculari di un ‘magistrato dirigente’ e di un ‘magistrato non dirigente’: qui quello di Vincenzo Sgubbi, giudice del Tribunale di Belluno, in corso di pubblicazione sulla Rivista Giustizia Insieme)
1. Il ruolo del dirigente: “giudice” dei colleghi…
E’ a tutti noto che la riforma ordinamentale che ha visto la luce negli anni 2006-2007 e che viene comunemente denominata “Castelli-Mastella” dal nome dei due Ministri Guardasigilli che l’hanno tenuta a battesimo, perseguiva impegnative finalità. Tra le altre, quella di rivedere ab imis il sistema di valutazione dei magistrati, ritenuto insoddisfacente e troppo blando, sia per qualità che per quantità delle verifiche di professionalità imposte dalla normativa fino ad allora in vigore.
Si è così disegnato, ad opera dell’art. 11 d. lgs. 160/2006, come modificato dall’art. 11 l. 111/2007, un sistema di valutazioni molto attento e puntiglioso, articolato su una serie notevole di parametri che impongono, a meno di non dare alla norma un’interpretatio abrogans, una particolare attenzione da parte di chi deve procedere alla valutazione del magistrato. Dal precedente sistema, fondato su poche verifiche su alcuni macro-argomenti (laboriosità, capacità, preparazione), verifiche spesso di fatto eluse dal momento che le aree oggetto di valutazioni erano talmente ampie da poter essere “riempite” con giudizi vuoti e privi di riferimenti concreti, si è passati alla necessità di argomentare in ordine a tutti i possibili profili della professionalità di un magistrato (dalle modalità di gestione delle udienze alle tecniche di redazione dei provvedimenti, dall’aggiornamento professionale alla partecipazione alle riunioni e alla vita dell’ufficio, alle capacità informatiche, all’organizzazione del ruolo, ai tempi di smaltimento dei procedimenti e di deposito dei provvedimenti etc.).
Diceva sul punto il Ministro Mastella (“Intervento del ministro della Giustizia Clemente Mastella in materia di ordinamento giudiziario” all’Università Roma Tre, 28 novembre 2006) che, al fine di rendere effettiva la valutazione del magistrato, nella riforma “sono state così valorizzate le fonti e gli strumenti diretti all’acquisizione di elementi fattuali di conoscenza provenienti anche da organi istituzionali, tra cui il Consiglio dell'ordine degli avvocati, riservando ai Consigli Giudiziari ed al CSM il compito di esprimere valutazioni sui dati concreti ed attendibili acquisiti”. Intento del riformatore era dunque quello di non lasciare soli i dirigenti degli uffici (le cui valutazioni sono alla base dei pareri dei Consigli giudiziari e dei giudizi finali dati dal C.S.M.) nel gestire il complesso momento della valutazione dei colleghi del loro ufficio, specialmente in un momento nel quale, d’improvviso, si chiedeva loro di non limitarsi al “compitino” consistente nel trovare gli aggettivi più idonei a definire, con un margine di approssimazione che aveva il vantaggio di rendere il file “rapporto.doc” riutilizzabile facilmente per la maggior parte dei colleghi (almeno per quelli dal “sei meno” in su) mediante semplice sostituzione del nome e dei dati anagrafici dell’interessato, la laboriosità e capacità del valutando, ma di riempire di contenuto una serie di parametri studiati proprio per essere utilizzati con il corredo di dati di fatto.
Il Movimento per la Giustizia, tra le varie espressioni del dibattito all’interno della magistratura, è stato il più aperto alla novità, nel senso di auspicare -addirittura- l’intervento degli “esterni” nella nostra valutazione, in ausilio al dirigente dell’ufficio e agli organi di autogoverno. Il 31.1.2007, infatti, la Sezione veneta del Gruppo organizzò all’Università di Padova un convegno, cui parteciparono esponenti dell’Accademia e della professione forense e che vide la presenza del segretario nazionale, dal significativo titolo “L’apporto dell’Avvocatura alla valutazione del magistrato nel nuovo ordinamento giudiziario”.
Proprio in quel periodo si dibatteva in Parlamento circa il ruolo da attribuire ai Consigli degli Ordini nella valutazione dei magistrati e, come è a tutti noto, prevalse una linea di apertura “con juicio” (anche troppo, a giudizio di chi scrive, e pur nella consapevolezza che l’Italia è lunga e che vi sono differenze notevoli tra Foro e Foro).
In sostanza, come si legge nell’art. 15 lett. B del d. lgs. 25/2006 (quello, tra i decreti delegati emanati in attuazione della legge-delega di riforma dell’ordinamento, che si occupa dei consigli giudiziari), a seguito della riforma operata dall’art. 4 l. 111/2007, i consigli giudiziari formulano i pareri per la valutazione dei magistrati.
Il testo precedente, quello cioè che aveva portato all’affermazione del Ministro Mastella che è stata sopra richiamata, diceva che i consigli avevano il compito di formulare pareri sull’attività dei magistrati in molte diverse occasioni, sempre raccogliendo, quale elemento di valutazione, il parere del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del luogo ove il magistrato esercita le proprie funzioni: “…formulano pareri sull’attività dei magistrati sotto il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni, nei casi previsti da disposizioni di legge o di regolamento o da disposizioni generali del Consiglio superiore della magistratura od a richiesta dello stesso Consiglio. A tali fini, il consiglio giudiziario acquisisce le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo ove il magistrato esercita le sue funzioni e, se non coincidente, anche del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto”.
Ora invece, nell’art. 16 del medesimo decreto legislativo si legge che la partecipazione degli avvocati eletti nei consigli giudiziari è limitata alle discussioni e deliberazioni di cui alle lettere A, D ed E del precedente articolo 15, escluse dunque quelle di cui alla lettera B inerenti alle valutazioni dei magistrati.
Si è così aperto un dibattito all’interno dei primi consigli giudiziari eletti dopo la riforma (quelli che hanno operato nel quadriennio 2008-2012), circa il ruolo da assegnare agli avvocati, che il legislatore aveva comunque voluto presenti in questi importanti organi di autogoverno decentrato. Ricordo, nel consiglio del quale facevo parte (quello di Venezia) il dibattito tra chi voleva consentire agli avvocati la partecipazione alla sola fase della relazione -esclusa ovviamente, per espressa previsione di legge, la partecipazione alla successiva discussione e deliberazione- sul magistrato in valutazione e chi, invece, riteneva non senza un pizzico di sollievo che una corretta lettura della norma citata obbligasse il presidente della Corte ad intimare l’extra omnes a tutti coloro che non appartenessero all’ordine giudiziario, non appena veniva pronunciato il nome del valutando.
La possibilità, per il Consiglio dell’Ordine, di intervenire nel procedimento di valutazione (prevista in termini ampi, come si è visto, dall’originario art. 15 d. lgs. 25/2006, che prevedeva l’interlocuzione obbligatoria con esso da parte del consiglio giudiziario in ogni occasione di valutazione del magistrato), si è invece ridotta alla segnalazione di specifici elementi negativi prevista dall’art. 11 co. 4 lett. F d. lgs. 160/2006.
Di più, a distanza di cinque anni da allora si può dire che la linea “politica” che ha prevalso in seno al Consiglio Superiore della Magistratura è nel segno di uno scarso favore agli apporti esterni nel momento della valutazione. Rispondendo ad una richiesta dell’Unione Triveneta degli Ordini degli Avvocati, con delibera 23.3.2011 il C.S.M. ha assunto una posizione rigida circa la possibilità di tali apporti ed ha poi confermato tale linea (a maggioranza) con l’importante delibera 17.4.2013 [per il cui attento esame si veda l’intervento molto puntuale di Maria Rosaria Guglielmi in Questione Giustizia 6/2012], nella quale è stato escluso il ricorso a segnalazioni di terzi al di fuori del caso previsto dall’art. 11 già citato ed è stato, in particolare, escluso che il dirigente dell’ufficio potesse avviare interlocuzioni stabili con tali soggetti terzi, le cui osservazioni avrebbero assunto altrimenti l’inammissibile veste di una sorta di “pre-rapporto”. Il caso era emblematico: poiché, tra gli elementi da valutare, vi è la capacità del magistrato di gestire l’udienza, il dirigente dell’ufficio non potrà mai esprimere un proprio giudizio: laddove presieda i collegi dei quali faccia parte il collega in valutazione, potrà esprimersi circa i contributi di costui nella camera di consiglio (oggetto di un’apposita voce del rapporto informativo); in nessun caso potrà sapere alcunché circa le capacità di gestione dell’udienza da parte del magistrato, poiché -quando l’udienza è da lui gestita- il presidente è assente e, quando il presidente presiede, il magistrato in valutazione siede quale giudice a latere e non gestisce l’udienza in prima persona. Allora, il dirigente di un importante ufficio aveva pensato di interloquire stabilmente con i protagonisti dell’udienza (avvocati e Procura, se ad essere valutato è un giudice; avvocati e Tribunale, se ad essere valutato è un P.M.), ma tale possibilità è stata bocciata.
Nel commentare favorevolmente la proposta di minoranza che non ha avuto seguito, e che prevedeva la possibilità per il capo dell’ufficio di sollecitare fonti informative esterne (capi di altri uffici e consiglio dell’ordine degli avvocati) se riferibili a “specifici fatti, rilevanti in quanto incidenti sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione ed ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”, e “con esclusione di qualsiasi diretto apprezzamento sulla idoneità del magistrato da valutare, M.R. Guglielmi così si esprime, del tutto condivisibilmente ad avviso di chi scrive [Questione Giustizia 6/2012, cit.]: “Il contesto di forti e sicure garanzie nel quale si inserisce tutta la procedura di valutazione, rispetto ai principi di imparzialità e di tutela dell’indipendenza, sia esterna che interna, consente di ipotizzare -a normativa primaria invariata- una più ampia apertura, accompagnata dalle necessarie garanzie, verso gli apporti conoscitivi esterni all’ufficio; anche questa apertura può essere una delle strade percorribili verso la “responsabilizzazione” dell’intero circuito di autogoverno e della magistratura nel suo complesso rispetto all’obiettivo di consolidare un sistema di verifica della professionalità efficace ed attendibile. E il cambiamento culturale da compiere in questa direzione richiede fiducia nella capacità della intera magistratura di saper governare correttamente un sistema di valutazione più aperto, nel quale chi è chiamato a rendere contributi conoscitivi abbia consapevolezza del suo ruolo, la capacità di svolgerlo adeguatamente, senza condizionamenti dovuti alla diversità di funzioni e di posizioni, e l’apporto dall’esterno ad un circuito di informazioni veritiere non sia in nessun caso avvertito o utilizzato come fattore di turbamento e di alterazione dell’esercizio indipendente delle funzioni giurisdizionali”.
Dunque, il dirigente -nel momento della valutazione di un collega- è solo.
Egli, se è un buon dirigente, sa quanto importante sia rendere un giudizio serio ed attendibile. In particolare egli (o ella, come fortunatamente stiamo, pur con ritardo, abituandoci a dire):
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ha il dovere di ancorare le proprie considerazioni a dati reali e verificabili, soprattutto laddove si esprima in termini tali da consentire di ipotizzare un parere non positivo o addirittura negativo (perché, ovviamente, l’interessato potrà difendersi dinanzi agli organi di autogoverno, come previsto dal citato art. 11 d. lgs. 160/2006). Del resto, molti degli indicatori menzionati nello schema di rapporto che il dirigente è chiamato ad utilizzare sono ancorati a dati numerici concreti: si pensi, oltre che alle statistiche inerenti quantità e rapidità di smaltimento del lavoro, alla complessa materia dei c.d. standard medi alla quale pressoché nessuno, a regime, potrà sfuggire (stando a quanto ancora di recente comunicato dal Consiglio Superiore della Magistratura nella risoluzione datata 30.7.2013);
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sa che la corretta valutazione di un collega è un dovere non solo nei confronti del valutando, ma anche nei confronti degli altri magistrati. La persino eccessiva frammentazione dei parametri in numerose sottovoci rende certamente difficile la valutazione, ma serve, se ogni voce viene riempita di contenuto “vero” e verificabile, non solo a distinguere tra magistrato “bravo” e magistrato “meno bravo”, ma, soprattutto, a designare nel futuro i migliori dirigenti ed anche i migliori giudici. Infatti, ci sono colleghi particolarmente versati per lo studio e l’approfondimento -che diventeranno ottimi consiglieri di cassazione- e ci sono colleghi molto brillanti nell’organizzazione, che magari potranno organizzare al meglio una sezione o un ufficio giudiziario; ci sono colleghi che utilizzano proficuamente l’informatica e colleghi che hanno nei confronti del computer lo stesso senso di fastidio che, da studente di scuola media, avevo io con gli attrezzi ginnici. Il professore di educazione fisica diceva che sembravo “un pollo, e neanche ruspante” e nondimeno apprezzava lo sforzo che profondevo per superare l’odiata cavallina senza traumi eccessivi; allo stesso modo, un collega non versato per l’informatica, purché non rifiuti pregiudizialmente di utilizzare anche il minimo strumento utile a snellire il proprio lavoro e dunque a procurare benefici ai cittadini cui presta il proprio servizio, non per questo sarà un cattivo magistrato. Magari … non diventerà referente informatico. Insomma, il rapporto reso oggi, magari per la prima o la seconda valutazione, servirà tra vent’anni o più, se confermato ed arricchito dai rapporti (e dai pareri) successivi, a selezionare il migliore consigliere di cassazione, il più adatto dirigente etc. Se il dirigente (di oggi) si limita a pensare che la cosa migliore da fare è rendere contento il collega, che si aspetta abbondanza di aggettivi positivi in quel rapporto che gli serve oggi, se si limita a pensare che, tanto, tra uno o due anni andrà in pensione e per adesso è sufficiente scrivere un rapporto che faccia felice il valutando e poi si vedrà… tradisce questa funzione “di sistema” e rifiuta di fornire il proprio contributo alla formazione della migliore magistratura di domani. E’ finito il tempo in cui ciascuno di noi, pena un’irrecuperabile ferita del suo amor proprio, doveva essere giudicato idoneo a tutto: a partecipare al convegno internazionale anche se parlava solo italiano, a fare da referente informatico anche se usava solo la stilografica, a fungere da collaboratore dei MOT anche se l’unico rapporto umano che gli riusciva bene era quello con se stesso etc.. A parte le volontarie esagerazioni, ciò che mi preme sottolineare è l’importanza del momento valutativo rimesso al dirigente, che non soltanto costituisce la base di partenza del complessivo procedimento di valutazione, ma, soprattutto, fornisce un contributo di conoscenze che difficilmente il Consiglio Giudiziario o il Consiglio Superiore potranno integrare in maniera significativa ovvero capovolgere. Talora ciò è successo, ma a prezzo di lunghe e defatiganti istruttorie che hanno impegnato non poco -in particolare- i volonterosi Consigli giudiziari che hanno voluto approfondire la vox populi che non traspariva da rapporti poco coraggiosi.
A questo punto, a mio avviso sarebbe stato opportuno “sostenere” il dirigente nel difficile momento della valutazione del collega. Non è facile essere contemporaneamente il migliore difensore dell’ufficio, il migliore “amico” dei magistrati di quell’ufficio e un equilibrato “giudice” di quei colleghi “amici”. Eppure, tutte queste cose insieme dovrebbe essere, secondo me, il buon dirigente. Ed allora, mi sembra che voler chiudere la porta, nell’epoca di internet, alle fonti informative esterne, pur nella comprensibile ottica di garanzia del singolo, sia un’occasione mancata.
Se in un ufficio, per esempio, vi fosse un giudice dell’udienza preliminare che celebrasse un numero minimo di giudizi abbreviati, ciò potrebbe semplicemente dipendere dal caso (ne celebro pochi perché me ne chiedono pochi) oppure potrebbe dipendere da un atteggiamento “disincentivante” del rito posto in essere dal giudice nei confronti degli avvocati; se un giudice civile sfoggia numeri particolarmente elevati di conciliazioni, ciò potrebbe certamente dipendere da un suo positivo atteggiamento, cioè da uno studio preventivo delle cause e dalla capacità di proporre alle parti soluzioni ragionevoli, meditate ed equilibrate; oppure, potrebbe dipendere da atteggiamenti diversi e meno commendevoli. Nel valutare tutto questo, il dirigente è oggi solo, e consentirgli di ricorrere a chi possiede le informazioni di prima mano (PM e avvocati se è in valutazione un giudice; Tribunale e avvocati se è in valutazione un PM) avrebbe potuto produrre, a mio avviso, risultati positivi nell’ottica di valutazioni serie ed effettive, a tutela del singolo valutando, degli altri colleghi dell’ufficio e dei cittadini.
Per converso, la mancanza di queste fonti informative potrà rendere palesemente inattendibili le valutazioni dei colleghi proprio negli unici aspetti che emergono facilmente all’esterno. Quante sentenze produca un giudice lo si sa anche solo leggendo le statistiche; a quanti corsi partecipa lo si apprende verificando il dato nel fascicolo personale; ma come quel giudice conduca ogni giorno l’udienza è notizia comune nel Foro (anche se, occorre dire, l’esperienza dei Consigli Giudiziari che hanno cercato di ottenere un contributo informativo prezioso dai Consigli degli Ordini non è stata all’altezza delle aspettative: si veda sul punto M.Frasca, La partecipazione dell’Avvocatura all’autogoverno decentrato, in questa Rivista 2/3-2009, pag. 188).
Gestione partecipata dell’ufficio, in questo delicato aspetto, significa anche gestione aperta e trasparente del momento valutativo: le informazioni che il dirigente utilizza dovrebbero essere ampie, complete e verificabili.
Al contrario, si tende ad “isolare” il dirigente in tale delicato momento, assumendo una direzione contraria a quella della gestione “partecipata”, nonostante si manifesti [v. ancora M.R. Guglielmi, cit.] l’attenzione massima al “compito primario” del dirigente di redigere rapporti informativi e di rendere giudizi “oggettivi ed attendibili sul merito e sulle attitudini dei magistrati sottoposti alla loro vigilanza”.
2. … e loro “amico” e collega
Il ruolo del dirigente di un ufficio giudiziario viene sovente interpretato come quello di una figura professionale radicalmente “diversa” da quella del magistrato normale, che vive “in trincea” come giudice o sostituto procuratore.
Sotto il vigore del “vecchio” ordinamento giudiziario eravamo abituati a concepire la figura del dirigente come quella di un magistrato che, giunto ad un certo livello di esperienza, intraprendeva una “carriera” diversa e sostanzialmente irreversibile. Infatti, si diventava dirigente e si proseguiva in quel ruolo, cambiando ufficio oppure no, fino alla pensione. Ciò accentuava, inevitabilmente, la considerazione del magistrato con funzioni direttive o semidirettive come qualcosa di “diverso” dal giudice o dal pubblico ministero “in sottordine” (come significativamente venivano definiti i pretori, rispetto al pretore dirigente, dagli artt. 31 e 34 dell’O.G.: dovette intervenire la Corte costituzionale, con sentenza n. 80/1970, per precisare che tale infelice espressione non era lesiva del principio costituzionale di cui all’art. 107 III co., secondo il quale i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni e dunque non è ravvisabile tra i magistrati una subordinazione gerarchica, secondo il Giudice delle leggi “incompatibile con la natura stessa della loro funzione”).
Il magistrato “normale” aveva, di solito, rispetto per la lunga e onorata carriera che il proprio “capo” aveva alle spalle e, tuttavia, sentiva spesso la distanza tra le preoccupazioni e il modo di pensare del dirigente e le proprie. Con inevitabile approssimazione si potrebbe dire che, se in molti casi il magistrato sentiva il proprio dirigente vicino, in molti altri lo considerava tanto più lontano da sé quanto maggiore era la distanza temporale che lo separava dalle funzioni giurisdizionali concretamente svolte sul campo. Forse sbagliando, il magistrato “normale” tendeva a considerare il proprio capo come una persona “arrivata”, che nessuno avrebbe mai rimosso dal ruolo dirigenziale e che poteva permettersi il lusso di “lavorare poco”: infatti, l'equivoco nel quale incorre talvolta il magistrato chiamato a gestire ruoli defatiganti, come quelli che tutti conosciamo, consiste nel non considerare “lavoro” quello diverso dalla redazione di provvedimenti giurisdizionali, vale a dire l'impegno organizzativo al quale il buon dirigente non si sottrae (il buon dirigente, per la verità, non si sottrae nemmeno ad una quota di lavoro giudiziario che lo tiene ancorato alla realtà quotidiana vissuta dai colleghi dell’ufficio: si veda la circolare relativa alla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2012-2014, che prevede un esonero dall’attività giudiziaria non superiore al 50% per i semidirettivi -paragrafi 34 e 35- e l’assegnazione di una quota “congrua” di affari ai direttivi -par. 33).
Il “nuovo” ordinamento giudiziario ha disegnato una figura diversa di dirigente, sia perché ha ridotto il peso dell'età e dell'esperienza al momento del conferimento dell’incarico sia perché ha introdotto il principio della temporaneità degli incarichi. Se a questo aggiungiamo le riforme pensionistiche, un eventuale “ritorno” del direttivo nei ranghi della magistratura “spalante” può assumere oggi contorni più concreti rispetto al passato. Del resto, l'esperienza di ordinamenti nei quali il transito dall'attività giurisdizionale ordinaria alle funzioni direttive e viceversa è evenienza che può verificarsi più volte nella carriera di un magistrato dimostra come il mantenimento dell’ “osmosi” tra le due esperienze (quella del giudice o pubblico ministero “operativo” e quella del capo dell’ufficio) aiuta tutti i protagonisti a non perdere mai lo spirito di colleganza e a considerare parimenti importante ogni servizio ed incarico rivestito. In Romania, per esempio, è del tutto normale che il dirigente, al termine del periodo trascorso a capo di un ufficio (senza rilevanti esoneri dal lavoro giudiziario, peraltro, ma sarebbe interessante confrontare la produzione normativa del C.S.M. italiano e di quello romeno), rimanga nell’ufficio come giudice “normale”, così come è previsto, addirittura, che nei collegi la presidenza sia assunta a turno da ciascuno dei tre giudici e non sia dunque vissuta come un “riconoscimento” alla maggiore anzianità (magari di pochi mesi o anni o solo di qualche punto in graduatoria rispetto al giudice a latere anziano). Un collega di Bucarest mi ha raccontato che, normalmente, chi presiede il collegio si incarica anche di redigere le sentenze “incamerate” in quell’udienza, così da non dover esercitare lo spiacevole compito consistente nell’assegnare il lavoro ad altri colleghi.
L’esperienza concreta dice oggi, a distanza di qualche anno dall’entrata in vigore del nuovo ordinamento giudiziario, che il cambio di mentalità non è sufficientemente diffuso: ci sono ancora dirigenti di uffici che considerano il ritorno nei ranghi della magistratura “normale” un’evenienza da scongiurare e che, durante il periodo trascorso a capo di un ufficio, si pongono in un atteggiamento di “superiorità” nei confronti dei colleghi, aumentando il distacco da loro.
Vi sono, però, anche molti dirigenti illuminati che interpretano il proprio ruolo in modo radicalmente diverso, e che si sono adeguati alla novità positiva rappresentata dall’infrangersi del mito del dirigente a vita e, correlativamente, al venir meno del tabù del “ritorno nei ranghi”. Sono quei dirigenti che hanno saputo coinvolgere i magistrati del proprio ufficio in una gestione “partecipata” dei problemi comuni e che hanno, in questo modo, cambiato positivamente anche la mentalità dei magistrati “normali”.
Senza pretesa di esaustività, e solo con l’intenzione di fornire qualche “appunto” compatibile con la struttura e lo spazio consentito ad un articolo come questo, si potrebbe fare riferimento agli aspetti menzionati qui di seguito.
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Evitare i “conflitti di interessi”.
Il tema è sconfinato e potrebbe aprire riflessioni di vasta portata. Esigenze di sintesi rendono consigliabile la massima esemplificazione.
Un primo esempio, brevissimamente, si può trarre dalle modeste riflessioni svolte sopra in ordine ai rapporti informativi dei capi degli uffici.
Il dirigente ha interesse a non essere giudicato negativamente, in sede di conferma nell’incarico, per le lacune dei rapporti informativi da lui redatti. Oggi la normativa consiliare prevede che i rapporti ritenuti inadeguati dal CSM o dai Consigli Giudiziari per “genericità, lacunosità, contraddittorietà, mancanza di documentazione o tardività” siano conservati in un apposito archivio informatico costituito presso il CSM, per essere “ripescati” all’occorrenza in sede di valutazione dell’idoneità del dirigente alla conferma nell’incarico.
Il magistrato ha interesse ad un positivo giudizio da parte del dirigente e dovrebbe essere consapevole della delicatezza del compito attribuito al proprio “capo”. Quest’ultimo sarà tanto più autorevole e tanto più facilmente riconosciuto come soggetto “idoneo” ad esprimere valutazioni quanto più i positivi giudizi nei diversi parametri dei rapporti previsti in sede di progressione di carriera siano a lui confacenti: dal dirigente sempre presente in ufficio mi farò volentieri giudicare circa la mia presenza in ufficio; dal dirigente aggiornato mi farò volentieri giudicare circa il mio aggiornamento; dal dirigente autorevole e preparato in camera di consiglio mi farò volentieri giudicare circa l’apporto dei miei contributi in tale sede; dal dirigente lucido e propositivo nelle riunioni mi farò volentieri giudicare circa la positività e frequenza della mia partecipazione ad esse; dal dirigente che non abbia dimenticato di essere un giudice mi farò volentieri giudicare circa la mia produttività.
Il “conflitto”, dunque, non ha ragione d’essere e spetta ad entrambi, dirigente e magistrato, eliminarlo.
Un altro possibile ambito di “conflitto di interesse” è disegnato dalle norme che prevedono obblighi organizzativi in capo al dirigente che si possono tradurre in misure tali da aggravare un carico di lavoro individuale, in capo ai singoli magistrati dell'ufficio, già percepito come insostenibile.
L'esempio che balza agli occhi è quello dei programmi di regolarizzazione dell'arretrato civile previsti dall'art. 37 d.l. 98/2011. Di fronte alla previsione normativa il dirigente ha tre possibilità:
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vanificarla, prendendo semplicemente atto che ai giudici dell'ufficio non può essere richiesto nulla di più di quello che già cercano di fare e privilegiando dunque l'atteggiamento del “dirigente-amico” senza però nemmeno provare a migliorare il servizio e correlativamente assumendo su di sé il rischio di una negativa valutazione circa l'organizzazione dell'ufficio;
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comportarsi da “burocrate”, difendendo solo la propria posizione e dimenticando le esigenze di tutela dei colleghi seppelliti dai fascicoli. E’ previsto che i processi in primo grado debbano concludersi in tre anni? Emano una circolare che obbliga tutti i giudici del mio ufficio ad esaurirli in 18 mesi dalla notifica dell'atto di citazione e così potrò accreditarmi presso il CSM come un dirigente tanto virtuoso da avere tentato di dimezzare ulteriormente i tempi: se, poi, non ci sarò riuscito è evidentemente per colpa dei giudici che non si sono adeguati alla previsione della mia circolare;
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scegliere la strada più faticosa, come ha fatto -tra gli altri- il dirigente del mio ufficio (lo posso citare perché non è iscritto al Movimento per la Giustizia-art.3 e non legge questa Rivista… Ognuno ha i suoi difetti, del resto): studiare attentamente i flussi in entrata e in uscita dall'ufficio, verificare i ruoli di tutti i giudici, controllare quante siano le cause risalenti nel tempo, ragionare -con il concorso di tutti gli interessati, in apposite riunioni- sulle modalità più opportune di soluzione del problema, se del caso effettuare opportune riassegnazioni in modo da consentire di impegnare tutti i giudici nel gestire un pari numero di cause “antiche” riducendo del pari il loro impegno nel trattare quelle recenti, coinvolgere l’avvocatura nella programmazione del lavoro, consentire ai giudici di differire nel tempo le attività istruttorie relative a cause più recenti (magari devolvendole ai Got), prevedere apposite udienze di mera trattazione per consentire ai colleghi di riorganizzare i loro ruoli (specialmente nel caso in cui si tratti di ruoli “presi in mano” da poco tempo) secondo le esigenze di priorità, “liberando” tempo da dedicare allo studio delle cause in fase di avanzata istruttoria in modo da facilitare una proposta conciliativa ed evitare la sentenza, stabilire a questo punto il numero di processi da definire anno per anno secondo l’anno di iscrizione (per esempio: entro il 2013 quelle iscritte entro l’anno X, entro il 2014 quelle iscritte entro l’anno Y etc.) in modo da disegnare un programma che, lungi da prevedere “miracoli” in pochi mesi, sia concretamente realizzabile, con l’impegno di tutti, e porti ad una progressiva e ragionata riduzione dei tempi. Problemi complessi richiedono soluzioni complesse e meditate e non possono essere risolti con un colpo di bacchetta magica.
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Valorizzare le riunioni dell’ufficio (o della sezione, o del gruppo di lavoro, a seconda della dimensione dell’ufficio).
Come è noto, la partecipazione attiva alle riunioni dell’ufficio o del settore di appartenenza è un obbligo del magistrato e il rispetto di tale obbligo è oggetto di valutazione da parte del dirigente -in sede di rapporto informativo in occasione delle valutazioni di professionalità- e da parte degli organi di autogoverno in sede di parere. Correlativamente, il dirigente ha l’obbligo di informare il Consiglio Giudiziario, compilando con attenzione l’apposito quadro del rapporto informativo (voce G.3), circa l’adempimento da parte del magistrato in valutazione, nel quadriennio precedente, di tale obbligo. Si tenga conto che, ai sensi dell’art. 11 commi 2 lett. C e 9 d. lgs. 160/2006, come modificato dalla l. 111/2007, la “carenza” nel parametro della “diligenza” (uno dei cui indicatori è costituito dalla partecipazione alle riunioni), può comportare un giudizio “non positivo”.
Dice il Testo unico sulla dirigenza del 30.7.2010, come risulta a seguito delle modifiche introdotte dalla Risoluzione 7.7.2011, che il capo dell’ufficio è “responsabile” del rapporto informativo, anche quando sia coadiuvato dai magistrati dell’ufficio che svolgono funzioni semidirettive e si avvalga del “rapporto preliminare” da questi redatto ( par. 1.2 c. 1.5. parte I e II TU par. 5.3.3 parte I e II TU).
Ed allora, espressioni di “buonismo” quali quelle che talvolta ho letto -quando facevo parte del Consiglio giudiziario di Venezia- da parte dei dirigenti, secondo i quali “non constava” a quante riunioni il magistrato avesse partecipato, o secondo i quali doveva “intendersi soddisfacente” la partecipazione alle riunioni, non possono più avere diritto di cittadinanza nei rapporti informativi. Che vuol dire, rispetto ad un dato numerico facilmente verificabile, che la partecipazione può intendersi “soddisfacente”? Quante riunioni sono state tenute? A quante il collega ha partecipato? Oppure si vuol dire che, avendo partecipato solo al 5 o 10% delle riunioni, il suo contributo è stato così eccezionale da meritare comunque un giudizio sufficiente? Ma se il contributo è eccezionale, secondo l’insegnamento della Parabola dei Talenti (Mt 25, 14-30), quel collega non avrebbe dovuto far mancare il suo prezioso contributo di idee nelle altre riunioni alle quali, invece, non è intervenuto.
Certo, se le riunioni non vengono indette, non se ne può fare una colpa al magistrato che sta diligentemente affrontando pile di fascicoli, seduto al suo tavolo di lavoro.
E’ compito del dirigente (ovviamente in esso ricompreso il semi-direttivo, posto che negli uffici medi e grandi le riunioni vengono normalmente svolte a livello di Sezione o di gruppo di lavoro che affronta problemi omogenei) indirle, tutte le volte in cui sono necessarie, non quali momenti nei quali devolvere ad altri le decisioni che spetterebbero a lui, ma quali sedi di necessario confronto di idee e di proposte sui temi dell’organizzazione dell’ufficio e dell’aggiornamento professionale.
2.3. Curare l’aggiornamento proprio e dei magistrati dell’ufficio
Uno degli aspetti che vanno curati nelle indispensabili riunioni è quello dell'aggiornamento professionale. L’aggiornamento costituisce, come è noto ed intuitivo, un primario dovere, anche etico (v. art. 3 del Codice etico ANM) del magistrato, senza di esso non potendo assicurare una risposta di giustizia efficace ed autorevole. Il solerte adempimento del dovere di aggiornamento costituisce uno degli aspetti sui quali ciascuno di noi viene valutato e deve, dunque, risultare al dirigente dell’ufficio, chiamato per primo a giudicarlo nel rapporto informativo (voce E.8).
Talvolta, a tale aspetto non si presta la necessaria attenzione, perché si reputa sempre più urgente il governo quotidiano dell'ingente mole di carte che viene riversata sui nostri tavoli: interrompere il “ritmo produttivo”, come in una catena di montaggio, può portare all'ingolfamento definitivo e il tempo dedicato all'aggiornamento viene percepito, erroneamente ma comprensibilmente, come un tempo di pausa.
Ecco allora che le riunioni menzionate nel paragrafo precedente potrebbero costituire un’eccezionale opportunità per tutti i magistrati dell'ufficio e per lo stesso dirigente.
Partendo da quest'ultimo, anzitutto, va ricordato che uno degli aspetti che rendono autorevole un presidente è proprio il contributo di esperienza e di conoscenza della materia trattata tutti i giorni dai magistrati dell'ufficio che egli può fornire: ricordo un mio presidente di sezione che, nelle riunioni come pure durante le camere di consiglio, era in grado di portare sempre un contributo determinante alla soluzione dei problemi e sapeva innescare la riflessione condivisa sui problemi giuridici che ciascuno di noi doveva affrontare, stimolando con le proprie osservazioni il conseguimento di una linea interpretativa comune. È, del resto, un valore da perseguire quello di ottenere indirizzi uniformi nell'ambito dell'ufficio o della sezione che si occupa di determinati problemi, per scongiurare il rischio che il cittadino ottenga, a seconda della stanza cui il principio costituzionale della precostituzione del giudice (“Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali”, diceva già l’art. 71 dello Statuto Albertino), declinato nei meccanismi tabellari, gli consente di bussare, risposte radicalmente diverse ad istanze identiche.
Il dirigente per primo, dunque, non deve sentirsi esonerato dal dovere dell'aggiornamento per la sola ragione di essere temporaneamente destinato a funzioni in prevalenza organizzative.
Peraltro, egli si può far aiutare da tutti i colleghi: un modo per riempire di contenuto la voce del rapporto di cui si è detto sopra (vale a dire la voce che valorizza la qualità del contributo fornito da ciascun magistrato alle riunioni dell'ufficio) potrebbe essere quello di incaricare i singoli magistrati, a turno, di approfondire i problemi giuridici resi attuali dalle novità legislative e giurisprudenziali, per poi riferirne a tutti i colleghi nelle periodiche riunioni. Queste ultime, in tal modo, non sarebbero percepite dai singoli come “perdite di tempo”, ma come utili occasioni di approfondimento e di aggiornamento professionale.
Il dirigente, si sa, è costretto a “praticare” ogni giorno la materia dell’ordinamento giudiziario, da molti ritenuta (a torto) noiosa e sfibrante: egli stesso potrebbe, a beneficio dei colleghi, organizzare periodiche riunioni di approfondimento di quei temi di ordinamento giudiziario che ciascuno di noi deve necessariamente conoscere. È possibile che, davanti ai consigli giudiziari, continuino ad arrivare istanze di autorizzazione allo svolgimento di lezioni presso le scuole di specializzazione per le professioni legali, quando da anni la circolare prevede la procedura semplificata e dunque l'assenza del “passaggio” presso il consiglio giudiziario? È possibile che, in occasione delle valutazioni periodiche di professionalità, ci si debba trovare di fronte ad autorelazioni che pretendano di valorizzare (gli esempi sono reali e tratti dalla personale esperienza di chi scrive) la capacità organizzativa dimostrata durante il servizio militare di leva ovvero le doti di leadership rese manifeste dalla positiva esperienza quale rappresentante degli studenti durante gli anni della scuola secondaria superiore? È possibile che non si sappia quali siano i parametri alla stregua dei quali si verrà valutati e non ci si preoccupi di valorizzare, nell'autorelazione, solo quanto è stato fatto nell'ultimo quadriennio?
Ecco, dunque, un altro ambito nel quale l'aggiornamento dei magistrati potrebbe essere agevolato da iniziative, sia del dirigente sia dei singoli giudici dell'ufficio, volte a favorire la riflessione comune e a conseguire un approfondimento tanto utile quanto altrimenti irrealizzabile nelle condizioni di lavoro attuali, che necessariamente vedono sempre recedere, rispetto all'esigenza di smaltimento rapido delle carte, ogni altra necessità. Eppure, siamo tutti d’accordo nel ritenere che la conoscenza sufficiente delle circolari del C.S.M. che riguardano la nostra quotidiana attività ci consente di partecipare con consapevolezza al governo autonomo della magistratura, partecipazione che rappresenta, secondo la relazione introduttiva alla Risoluzione 7.7.2011 del C.S.M. sopra citata, “uno dei doveri primari di ciascun magistrato”, “atteso che dall’efficienza dell’intero circuito dell’autogoverno dipende la piena funzionalità degli uffici giudiziari, e, dunque, l’efficacia delle risposte alla domanda di giustizia”.
2.4. Favorire uno sguardo “di sistema”.
Un ulteriore profilo di aggiornamento che potrebbe essere stimolato dal dirigente dell’ufficio o della sezione, con indubbie positive ricadute sull’organizzazione dell’ufficio, è quello inerente la sorte dei processi nei gradi successivi al primo (parlo, ovviamente, da giudice di primo grado; nelle Corti d’Appello lo stesso sforzo potrebbe essere effettuato con riferimento alla sorte dei processi presso la Corte di Cassazione).
Spesso il dirigente proviene da positive e prolungate esperienze in uffici di secondo grado o di legittimità. In questi casi, potrà egli stesso mettere a disposizione dei colleghi la propria esperienza professionale, favorendo la riflessione sulle principali o più ricorrenti criticità riscontrate nelle sentenze di primo (o secondo) grado. Ciascuno di noi, mosso dal positivo intento di dare sempre maggiore efficacia al proprio lavoro e di ottenere “prodotti” giurisdizionali sempre più soddisfacenti, magari a parità di sforzo profuso (o con un minimo aggravio di fatica), trarrà il massimo beneficio da questi apporti.
Uno dei principali difetti dai quali noi giudici siamo colpiti è, infatti, quello di non protendere lo sguardo al di là del nostro tavolo. Effettivamente, l'altezza normalmente raggiunta dalla pila di fascicoli di fronte a noi non consente di scorgere l’orizzonte, ma una visione di sistema è indispensabile per non togliere significato, respiro ed efficacia al nostro lavoro.
Così, per fare qualche esempio tratto dall’ordinaria attività in materia penale, spesso noi giudici di primo grado non motiviamo per nulla, nelle sentenze di applicazione della pena, circa l’assenza dei presupposti di cui all’art. 129 c.p.p., così favorendo i ricorsi per cassazione a fini dilatori; oppure, talvolta ci dimentichiamo tutto quello che non riguarda le statuizioni meramente “penalistiche” nelle sentenze. Mi riferisco, per esempio, alle numerose incombenze motivazionali imposte da una “normalissima” sentenza di applicazione della pena o di condanna per reati di cui agli artt. 186 e 187 c.d.s. (confisca o meno del veicolo, durata della sanzione accessoria della sospensione della patente etc.).
Epperò, mi sia consentito di rivolgere lo stesso invito ad uno sguardo “di sistema” ai colleghi sostituti procuratori generali: è vero che la riforma Castelli-Mastella ci obbliga a produrre i provvedimenti a campione e, dunque, un sostituto procuratore generale non potrà esimersi dal “produrre” impugnazioni, ma è possibile che le sentenze maggiormente impugnate dalle Procure generali siano di solito (almeno nel nord-est) quelle per la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza? Non sarà forse che si tratta di impugnazioni “facili” in quanto gli errori dei giudici di primo grado sono -sul punto- frequentissimi?
Premesso che il giudice di primo grado dovrebbe curare una motivazione completa e porsi il problema dell'impugnabilità della sua sentenza, un identico sguardo di sistema da parte del sostituto procuratore generale non gli farà sfuggire che, per esempio, a fronte della dimenticanza del giudice penale circa la confisca del veicolo nella sentenza di condanna o di applicazione della pena per il reato di cui all'art. 186 lett. C c.d.s. laddove la pena sia stata sostituita con il lavoro di pubblica utilità, l'impugnazione su questo solo aspetto produrrà inevitabilmente un aggravio di lavoro per la Suprema Corte di Cassazione che non potrà che rilevare l'errore del giudice e disporre il rinvio per un adempimento (la confisca) del tutto inutile dal momento che, essendo nel frattempo divenuta irrevocabile la statuizione relativa alla responsabilità penale, il lavoro di pubblica utilità sarà stato positivamente eseguito e la confisca (mai disposta) dovrà per legge essere revocata ex art. 186 co. 9 bis c.d.s..
Ancora nell'ottica dello “sguardo di sistema” si devono porre quelle prassi che il dirigente, forte della sua esperienza, potrà chiedere ai “suoi” giudici (e che questi ultimi saranno certamente incentivati a realizzare) e che sono volte a favorire il lavoro dei colleghi che seguiranno nella gestione del medesimo processo. Ancora una volta, il giudice di primo grado sente il momento del deposito della sentenza come quello della liberazione da un peso e non si preoccupa, spesso, di quel che succederà dal giorno successivo.
Anche qui, favorire incontri con i colleghi dei gradi successivi potrebbe renderci consapevoli delle difficoltà di ciascuno e aiutarci a ridurre, ciascuno per la propria parte, la fatica di chi seguirà. A titolo di esempio, risulta chiaro che il lavoro del consigliere relatore presso la corte d'appello sarà facilitato se il collega che ha redatto la sentenza impugnata avrà avuto cura di indicare, in nota o tra parentesi, i luoghi nei quali ha reperito le fonti di prova valorizzate nella sentenza (verbale X, pagina Y etc.). Oltre tutto, indicazioni circa l’opportunità di realizzare prassi di questo genere, fornite dal dirigente e condivise con i giudici dell’ufficio, potrebbero facilitare il dirigente medesimo quando deve esprimere un motivato parere, in sede di rapporto informativo, sulle capacità di redazione dei provvedimenti (voce E.1 del parere).
Ancora, si potrebbero ipotizzare, con l'ausilio dell'informatica, cartelle condivise dai giudici di primo grado e dalla corrispondente Corte d'appello (e anche -perché no?- da ciascuna corte d'appello e dalla corte di cassazione), nelle quali far confluire le minute delle motivazioni in modo da consentire:
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un risparmio di tempo ai giudici dei gradi successivi al primo, laddove abbiano necessità di ripercorrere alcuni passaggi delle sentenze impugnate;
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un riscontro ai giudici dei gradi inferiori circa la sorte delle proprie sentenze (il che sarebbe assai utile anche per rendersi conto di eventuali errori da correggere in futuro).
Con specifico riferimento agli uffici di secondo grado, una gestione intelligente e condivisa della responsabilità di gestire i ruoli potrebbe forse ridurre l’impatto devastante della prescrizione dei reati, impatto che ha il duplice effetto di rendere non credibile il sistema e di vanificare il lavoro del pubblico ministero e del giudice di primo grado. Mi riferisco a quanto già ipotizzavo in un articolo di due anni fa, quando era nuovo ed attuale il dibattito circa le “priorità” e, tra esse, le “priorità delle priorità” nella fissazione delle udienze dinanzi alle Corti di secondo grado. Di fronte alla constatazione che la pressoché sicura prescrizione, in processi per contravvenzioni (che, come è noto, non sono mai considerati reati prioritari ex art. 132 bis disp. att. c.p.p.), ottenibile attraverso la scelta di proporre opposizione al decreto penale di condanna per “lucrare” una sentenza da impugnare in Corte d’Appello, è prospettiva che induce gli Avvocati ad impugnazioni meramente defatigatorie, mi permettevo di suggerire: “Ecco, dunque, un piccolo accorgimento che le Corti in difficoltà potrebbero porre in essere e che innescherebbe un meccanismo “virtuoso”, ancorché in apparente contro-tendenza rispetto alle esigenze di rispetto dei criteri di priorità: se ogni sezione tenesse, per esempio, un’udienza straordinaria ogni due mesi, dedicata esclusivamente alla trattazione di procedimenti per reati seriali altrimenti destinati al macero, si produrrebbe l’effetto positivo di disincentivare le impugnazioni meramente dilatorie e si restituirebbe fiato al primo grado, permettendo ai riti alternativi di funzionare come previsto e riducendo, corrispondentemente, il numero di opposizioni a decreto penale e, in particolare, quelle destinate a sfociare nel dibattimento. Per inciso, ciò avrebbe pure effetti positivi sulla statistica individuale di ogni singolo consigliere, che potrebbe poi con maggior tranquillità dedicarsi, nelle udienze ordinarie, alla definizione di processi impegnativi e delicati senza preoccuparsi del loro scarso “peso” in termini numerici” [V. Sgubbi-L.Arnau Trattazione delle impugnazioni e giustizia di primo grado, in questa Rivista, 1-2/2011, pagg. 54-55].
2.5. Facilitare il lavoro comune e la comunicazione
Il numero di “battute” concessomi sta per terminare.
Mi limiterò, dunque, a qualche ultima e brevissima annotazione.
Il dirigente è responsabile del funzionamento e dell’organizzazione dell’ufficio. In tutte le organizzazioni complesse, i migliori risultati si raggiungono laddove si realizzi uno “spirito di gruppo” che agevola il lavoro, favorisce i rapporti positivi tra i protagonisti, porta gli stessi ad impegnarsi per una causa comune. Il buon dirigente è oggi sempre di più un people manager cui non farebbe male confrontarsi con concetti che sono propri delle direzioni delle risorse umane nelle imprese: “attrarre, trattenere e motivare le persone … valutare, differenziare e valorizzare le risorse umane” [v. articolo a firma W.P. dal titolo “Le risorse umane al tempo della crisi”, su La Stampa, 4.10.2010, recensione del testo “People management” di G. Gabrielli, edito da F. Angeli editore] sono altrettanti compiti del dirigente moderno e illuminato anche in un ufficio giudiziario.
Per converso, il magistrato moderno deve ormai pensarsi come ingranaggio di un’organizzazione complessa e non come autonoma e solitaria testa pensante. I due aspetti non si contrappongono: non siamo meno autonomi e meno liberi se alziamo lo sguardo dai nostri fascicoli e se consideriamo l’ufficio o la sezione nella quale siamo provvisoriamente inseriti come qualcosa che “ci sta a cuore”.
Se sono consapevole di essere un servitore dello Stato e di essere chiamato a svolgere il mio servizio -qui ed ora- trattando gli affari che mi sono assegnati in questo momento, sarò anche consapevole che quel “ruolo” di cause non mi appartiene e che non esiste una funzione, un ufficio, un servizio più importante di altri, non esistono processi “di serie A” e processi “di serie C” (per parafrasare il titolo di un interessante articolo con i contributi di M.T. Orlando e A. Guido in questa Rivista 2/2010, pagg. 45 e ss.).
Sarò disponibile, per esempio, ad un periodico controllo dei ruoli. Se, per esempio, sono un bravo e veloce giudice civile, avrò piacere che il dirigente lo riconosca e lo certifichi, ma non mi sentirò menomato se, ogni tanto, mi verrà assegnata -con criteri obiettivi e predeterminati- qualche causa più antica proveniente da ruoli diversi. Avrò a cuore, cioè, il funzionamento complessivo dell’ufficio e non solo il mio amor proprio, e nell’ottica del funzionamento migliore dell’ufficio sarà certamente opportuno che non vi siano ruoli con pendenze medie di due anni e ruoli con pendenze medie di otto, poiché a rimetterci, nel secondo caso, sarà solo il cittadino.
Ancora, se sono consapevole di svolgere un servizio e se cerco di renderlo al meglio, non sarò “geloso” del patrimonio di conoscenze che ottengo con il quotidiano aggiornamento: così, mi renderò disponibile a metterlo a servizio di tutti, accettando di dedicare tempo alla formazione dei giovani colleghi o dei giudici onorari, che tutti siamo pronti ad “utilizzare”, ma che prima devono essere formati al meglio, e mettendo a disposizione dell’ufficio le mie ricerche, i miei modelli, i miei provvedimenti, in apposite cartelle o banche dati che il dirigente illuminato, ancora una volta, promuoverà e favorirà, con il contributo e il concorso (la partecipazione, appunto) di tutti.
Inoltre, mi aspetto che il mio dirigente favorisca, per quanto gli è consentito dai poteri che esercita e dal prestigio personale di cui gode nel territorio, tutte le misure idonee a rendere il mio servizio più “facile”: che promuova convenzioni con gli enti interessati per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità (così che i processi menzionati nel paragrafo precedente abbiano veloce ed efficace definizione), che cerchi di reperire risorse umane attraverso i modi consentiti (bussando alle porte delle associazioni e degli enti disponibili), che magari si preoccupi di non farmi andare in carcere a piedi sotto la pioggia (succede anche questo) perché manca la macchina dell’ufficio o l’autista (in alcune realtà, per far fronte a questi problemi, il dirigente ha attivato una convenzione con la casa circondariale per far prelevare il Gip e il cancelliere da personale della polizia penitenziaria, per esempio).
Insomma, che il dirigente sia un buon pater familias dell’ufficio e che, se del caso, si faccia “aiutare”, valorizzando le caratteristiche peculiari di ciascuno dei suoi colleghi e chiamando gli stessi, secondo la loro disponibilità e “vocazione” (secondo il saggio insegnamento di San Paolo secondo il quale “vi sono diversità di carismi”: 1 Cor 12,4), a collaborare nella gestione dell’ufficio, attraverso opportune deleghe conferite in ragione della maggiore predisposizione di ciascuno ad occuparsi di un settore piuttosto che di un altro e secondo il procedimento trasparente previsto dal par. 33.7 della citata circolare sulla formazione delle tabelle, volto ad evitare quella che è stata definita l’“ansia di carriera” [D’Elia, Commentario alla costituzione, Utet, Torino, 2006, vol. III, pag. 2058, sub art. 107], indubbiamente accresciuta -inutile negarlo- a seguito di una riforma che ha volutamente ridotto il peso dell’anzianità. Così, il presidente creerà una squadra armonica, affiatata ed efficiente, e disporrà ancora una volta di strumenti obiettivi e verificabili (e non di “voci correnti nel pubblico” o di aggettivi privi di sostanza) per proporre al Consiglio Giudiziario ed al Consiglio Superiore una valutazione dei colleghi sotto il profilo della “collaborazione prestata per il buon andamento dell’ufficio” (voce. F.4 del parere).
Infine, un buon pater familias ha anche il coraggio di “proteggere” (il termine non evochi alcunché di omertoso) la propria famiglia.
Penso ad un’attività, tutt’altro che secondaria, di protezione dell’ufficio dagli attacchi esterni. Come è a tutti noto, “nel nostro Paese, oramai da qualche decennio, i magistrati ordinari … sono purtroppo destinatari di innumerevoli esternazioni mass-mediatiche che, molto spesso, hanno assunto carattere denigratorio o calunnioso: aggressioni che, talvolta, si sono tradotte in vere e proprie censure al loro operato professionale, che sono state poste in essere … persino dai più alti vertici istituzionali della Repubblica” [S. De Nardi, La libertà di espressione dei magistrati, Jovene, Napoli, 2008, pagg. 471-472]. Ora, come è stato sottolineato dal prof. De Nardi nel prosieguo del capitolo appena citato [pagg. 473-474], “in una democrazia davvero matura e rispettosa dell’equilibrio tra i poteri dello Stato (nonché di talune elementari regole che sono proprie della ‘correttezza costituzionale’ e del ‘bon ton’ istituzionale) i suddetti attacchi non dovrebbero pressoché esistere: perché se è vero che nessuno -neanche un magistrato- può sottrarsi alle critiche che riguardino … il suo operato professionale, è tuttavia altrettanto vero che le stesse non dovrebbero mai trasmodare in insulti gratuiti di stampo qualunquistico ed oltraggioso, né rappresentare comunque delle occasioni pretestuose per screditare un’intera categoria professionale; in tal modo, infatti, non solo viene lesa a vanvera la reputazione dei magistrati di volta in volta direttamente aggrediti, ma -ed è ciò che più conta- si compromette altresì la fiducia e la considerazione che i membri del consorzio civile dovrebbero poter riporre nella professionalità, nella indipendenza e financo nella imparzialità di coloro che amministrano la giustizia”.
Ora, è noto che, nelle Procure della Repubblica, vigono regole secondo le quali è il Procuratore a mantenere personalmente o tramite un magistrato delegato i rapporti con gli organi di informazione ed è vietato ai singoli sostituti fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio. La previsione in tal senso stabilita dal “nuovo” ordinamento giudiziario (art. 5 d. lgs. 106/2006) risale ad un tempo nel quale si criticavano le esternazioni talora provenienti dalle Procure della Repubblica; nello stesso periodo, la diffamazione era esercitata, anche da autorevoli esponenti delle istituzioni, prevalentemente nei confronti dei Pubblici Ministeri.
La norma, dunque, pur nata in funzione lato sensu punitiva (o “contenitiva”) di taluni eccessi, può, se correttamente adoperata, svolgere un ruolo positivo, anche a tutela dei magistrati ingiustamente denigrati a causa del corretto ed indipendente svolgimento del proprio operato. Infatti, il Procuratore della Repubblica, in quanto unico soggetto deputato ad intrattenere i rapporti con la stampa, si informerà adeguatamente (e tempestivamente, essendo la tempestività ciò di cui l’informazione ha maggiormente bisogno) circa i procedimenti di interesse pubblico trattati dal suo ufficio e, in qualche modo, “garantirà” in prima persona circa il corretto operato del suo ufficio, al quale (e non solo alla “persona fisica” del sostituto) sarà, anche di fronte all’opinione pubblica, ascrivibile l’iniziativa.
Nello stesso periodo in cui prendeva luce la disposizione in esame, si è caldeggiata l’istituzione di uffici stampa in tutte le Procure della Repubblica, “in modo che sia trasparente e ufficiale il rapporto tra stampa e magistratura, perché in una democrazia i problemi non nascono dalle cose che si fanno alla luce del sole, ma nascono dalle cose che si fanno in segreto e nell’ombra” [A. Nappi, Giustizia e informazione, in Cass. pen., 2005, 3233 e ss.].
Nel frattempo, però, mano a mano che i procedimenti inerenti gli alti vertici istituzionali menzionati dal prof. De Nardi hanno varcato la soglia degli uffici di Procura ed hanno percorso i tre gradi di giudizio, le denigrazioni hanno riguardato tutta la magistratura giudicante (per estendersi fino alla Corte di Cassazione e -per incidens- alla Corte costituzionale). L’effetto pedagogico deleterio di tali abitudini porta facilmente -credo sia esperienza di molti- il cittadino comune o l’amministratore locale a non accettare le sentenze sgradite e a denigrarle, naturalmente senza averle lette, sull’onda di emozioni momentanee. Il giudice, però, a tali “emozioni” non può rispondere né in modo altrettanto emotivo né in modo ragionato, dal momento che il dovere di riserbo cui è tenuto -sotto minaccia di sanzione disciplinare (art. 2 I co. lett. A d. lgs. 109/2006)- gli impedisce di innescare polemiche anche solo dettate dalla necessità di ristabilire la verità.
Ecco allora che, in assenza di veri e propri “uffici stampa” che, nella già citata Romania, esistono in ogni ufficio giudiziario e che vedono quali addetti magistrati più dotati di altri delle necessarie doti comunicative (uffici stampa che assolvono appunto a questo compito di ristabilire la verità e che non a caso vengono sempre interpellati dai giornalisti prima della diffusione di notizie inerenti procedimenti in corso, in modo che al punto di vista dell’avvocato, dell’imputato, della vittima etc. si affianchi sempre anche la fonte informativa proveniente dall’ufficio che assume la “paternità” del provvedimento emesso, così tra l’altro evitando protagonismi del singolo magistrato), nel nostro sistema il capo dell’ufficio potrebbe assumersi un onere di questo genere.
L’effetto positivo sarebbe evidente, poiché, a fronte dell’attacco gratuito, spesso fondato su informazioni inveritiere, la -di solito tempestiva- presa di posizione dell’ANM viene percepita come mera ed officiosa difesa sindacale e le pratiche a tutela aperte dal CSM, assai meritorie, intervengono ovviamente con inevitabile ritardo.
Ricordo come nel 2004, in Bulgaria, l’Associazione nazionale dei giudici prese pubblicamente posizione esprimendo il proprio disappunto perché un rappresentante dell’esecutivo aveva criticato aspramente la decisione di una Corte: “the judge is under the heavy dependence of the public opinion, created by the arbitrary assessments of courts made by representatives of the Executive power … As a result, the Bulgarian society begins to detest the court, to imagine it as a synonym of corruption, irresponsibility and stagnation, and to believe it guided by someone else’s will –financial or political”, dissero preoccupati i nostri colleghi bulgari [q.v. in www.ime-bg.org/pdf_docs/Byron_Davis/_et_al_Peer_review_BG.doc].
Chissà cosa avrebbero scritto, se si fosse realizzato nel loro Paese l’attacco sistematico, quotidiano e qualunquista alla giurisdizione che è in atto in Italia...
Noi tutti magistrati normali ma non in sottordine, per richiamare espressioni sulle quali ho intrattenuto sopra il paziente lettore, auspichiamo dunque una gestione partecipata dell’ufficio, realtà alla quale dedichiamo -normalmente- più tempo di quello che riserviamo alla famiglia ed alle persone care; gestione partecipata che passa attraverso il nostro coinvolgimento volonteroso, il nostro impegno quotidiano, la nostra capacità di essere propositivi, e che postula la presenza di dirigenti illuminati e di buona volontà, che interpretino i poteri e le funzioni loro conferite come “necessariamente disposte, per obiettive ed imprescindibili esigenze di servizio, al solo scopo di rendere possibile ed efficiente il funzionamento dell’ufficio” [D’Elia, Commentario alla costituzione, cit., pag. 2059].
Vincenzo Sgubbi
giudice del Tribunale di Belluno